Su E&P e su Micromega prosegue la mia discussione con Maurizio Franzini. Qui la mia contro-replica, che ha beneficiato di molti consigli da splendidi amici che ringrazio. Avrei potuto fare di meglio, ma si fa quel che si può.
Una contro-replica a Franzini
Sergio
Cesaratto
Ringrazio
anch’io Maurizio Franzini per le puntualizzazioni delle sue idee che, tuttavia,
mi inducono a ribadire le mie perplessità. Sgombrando il campo da questioni
marginali, il punto in discussione sono gli effetti della diseguaglianza sulla
crescita. Tralasciamo anche ogni considerazione sulla desiderabilità della
crescita. La mia tesi è che questa sia necessaria, privilegiando consumi sociali
e rispettosi dell’ambiente. Tanto più che la “cautela” che Franzini nuovamente
evoca se “crescita [sia] sistematicamente desiderabile, al punto da subordinare
al suo perseguimento il giudizio da dare nei confronti della diseguaglianza”,
non riguarda me che ritengo che crescita ed equità si sostengano
reciprocamente. Così come non vale la pena soffermarsi sul fatto che gli
economisti “eterodossi” della tradizione Classico-Kaleckiana trovano,
ovviamente, la diseguaglianza immorale anche indipendentemente dagli effetti
sulla crescita. Essi ritengono però decisivo
smentire la tesi “ortodossa” che una maggiore equità danneggi la crescita.
Il punto centrale della discussione è dunque
che Franzini ritiene che la tesi “eterodossa” del legame positivo fra equità e crescita
non sia provata in generale. L’argomento che egli adduce al riguardo è un
riferimento ad alcuni lavori empirici (già evocati nell’articolo originale) che
non proverebbero in maniera sistematica “né l’effetto positivo [della
diseguaglianza sulla crescita] ipotizzato dagli ortodossi né quello negativo
ipotizzato dagli eterodossi”. Rimando al dibattito che Franzini organizzerà
alla Sapienza – sono grato per l’invito – un approfondimento critico di questi
studi e l’esame di risultanze opposte (e sarà certamente il caso di chiedere a
Radio Radicale di registrare l’evento per il più ampio pubblico che ha seguito
questa discussione). Mi limito qui alle seguenti osservazioni.
In
genere gli studi econometrici quali quelli menzionati da Franzini muovono da
impostazioni teoriche assai “ortodosse” (ciò che può condizionare i risultati
empirici) e sono condotti simultaneamente su decine e decine di paesi. Questo
non è un vantaggio perché si offuscano le specifiche circostanze storiche,
sociali e istituzionali che in ciascun paese influenzano la relazione fra
equità e crescita. Accetto, tuttavia, il punto sollevato da Franzini sulla base
di questa letteratura che le relazioni fra equità e crescita siano complesse.
In particolare, lo ringrazio per aver ricordato che vi sono dei casi in cui a
una maggiore diseguaglianza si associa una maggiore crescita. Questi casi sono
tuttavia coerenti con l’approccio eterodosso in cui non v’è crescita se la
domanda aggregata non aumenta, come negli esempi qui sotto elencati.
(a) In
paesi in cui la crescita è guidata dalle esportazioni o che praticano politiche
mercantiliste, salari reali relativamente bassi si possono accompagnare ad
elevate esportazioni e crescita. Ma questo semplicemente perché la depressione
dei consumi interni viene compensata dai mercati esteri in paesi che, spesso,
vengono all’uopo fatti indebitare. L’indebitamento sfocia, ahimè, spesso in una
crisi finanziaria. Ne sappiamo qualcosa noi in Europa dove la crisi deve molto
al comportamento mercantilista della Germania! (v. qui)
(b)
E’ ben noto che nelle fasi iniziali dei processi di sviluppo la distribuzione
del reddito possa muovere nella direzione di una maggiore diseguaglianza, pur
con una possibile aumento dei redditi medi. Attenzione qui è la crescita che
genera maggiore diseguaglianza, quindi non stiamo avvalorando la tesi
“ortodossa” che la diseguaglianza genera sviluppo. La maggiore diseguaglianza
non danneggia poiché la compressione dei salari consente la crescita
dell’export (come nel caso a), mentre l’aumento relativo dei redditi del nuovo
ceto medio può non sfavorire i consumi a cui esso finalmente può accedere.
(c) In
altri casi, come negli Stati Uniti pre-crisi, una relativa alta crescita si è
accompagnata a una disuguaglianza in aumento, senza che la crescita
occupazionale abbia portato a un aumento dei salari (contrariamente, apparentemente,
alle aspettative degli eterodossi). Ma nessuna sorpresa, in realtà. Negli Stati
Uniti il ceto medio impoverito è stato indotto a indebitarsi per sostenere la
domanda (come documentato per esempio da Barba
e Pivetti), mentre la maggiore occupazione non ha portato a un
rafforzamento sindacale dopo un paio di decenni in cui il lavoratore americano
era stato traumatizzato a colpi di disoccupazione (come ben evidenziato da Bellofiore
e Halevi). Anche qui l’esito di tale modello di crescita è stata una crisi
finanziaria. Recentemente gli Economic
Report of the President 2012 e 2013 esplicitamente nominano gli effetti
negativi della crescente diseguaglianza su domanda aggregata e crescita.
Resta
dunque confermato quanto avevamo scritto sulla scorta della lezione di Kalecki:
in via generale una maggiore equità distributiva generando più domanda accresce
reddito e occupazione. Tuttavia il capitale non ama l’equità (per evidenti
motivi), per cui ricorre a forme balorde per sostenere la domanda aggregata pur
in presenza di crescente diseguaglianza, forme che poi che sfociano sovente in
una crisi finanziaria. Non sono convinto che questa complessa perversità del
capitalismo, come la definirebbe Kalecki, sia colta dagli studi citati da
Franzini, i cui risultati sospensivi circa la relazione fra equità e crescita
comunque non ci sorprendono e abbiamo cercato di chiarire.
Franzini
non sembra cercare di spiegare in dettaglio al lettore il perché di questi
risultati, e comunque non su linee simili alle nostre. Dai pochi cenni, egli
non sembra da un lato rifiutare la tesi Keynesiana di possibili effetti
positivi di una maggiore equità sulla
crescita, laddove evoca il ruolo delle “propensioni a consumare”, e questo va
bene. Franzini richiama altre due spiegazioni senza però chiarire a favore di
quale delle due tesi in esame: “le forme e i costi del conflitto” e “le
conseguenze per l’accumulazione del cosiddetto capitale umano”. Che l’eccesso
di conflitto sociale volto a ottenere maggiore equità possa nuocere alla
crescita è possibile. Ma va chiarito che questo accade perché la borghesia
reagirà alla richiesta di maggiore giustizia, in generale, con politiche economiche
volte ad accrescere la disoccupazione e ripristinare la disciplina e lo status
quo distributivo - non lo ha fatto solo quando c’era la sfida sovietica, come
indicato fra gli altri da Garegnani
e Pivetti. Dunque non è che l’equità non fa crescere, ma è che è incompatibile
col capitalismo, se non in delimitati periodi storici. Se Franzini intende che
l’accettazione da parte della borghesia di una maggiore equità agevolerebbe la
crescita attraverso una comunità più armonica, mi trova d’accordo, sebbene
scettico che questo sia nel DNA del capitalismo.
Circa
il “capitale umano” - espressione che mi rende perplesso tanto è priva di
solidi fondamenti analitici – si può intendere che una maggiore equità
favorisca l’istruzione e dunque la crescita, il che mi trova consenziente. Ma
si deve stare in guardia dalla tesi più “ortodossa” alla Pietro Reichlin che una
maggiore giustizia distributiva - ottenuta, per esempio, attraverso maggiori
imposte progressive per finanziare lo stato sociale - disincentiva offerta di
lavoro, risparmio, accumulazione di “capitale umano”, merito e tutti i
parafernalia dell’economia “dal lato dell’offerta” e fa crescere di meno. Ho criticato
la validità di questa tesi nella conversazione con Reichlin a cui rimando
(sempre su Micromega 3/2013 e che
cercherò di pubblicare sul mio blog). Nelle spiegazioni che sopra ho addotto
per spiegare perché in taluni casi una maggiore diseguaglianza può associarsi a
una maggiore crescita non ho, infatti, usato questi tipi di argomento e sono
rimasto coerente con un approccio keynesiano. Non mi è chiaro però come
Franzini spieghi il possibile impatto
positivo della diseguaglianza sulla crescita, argomento centrale nella sua
polemica con gli “eterodossi”.
Non
trascuro dunque i dati, come sostiene Franzini, e soprattutto i fatti. Mi
limito a evidenziare che il modo in cui i risultati empirici vengono messi a
punto e interpretati riflette approcci teorici precisi. Ricostruiamo e leggiamo
il mondo attraverso le lenti della teoria, i fatti non parlano da soli. Sì,
“maledetti dati”, perché non parlate da soli? E’ una banale verità che ho
dovuto ricordare anche a Reichlin. Franzini si muove un po’ a 360 gradi nel
mondo delle teorie. Chi scrive è assai più sospettoso della maggior parte di
queste teorie. Ma è forse un difetto un po’ demodé da vecchio lettore di Marx,
vizio che pochi giovani osano ormai coltivare perché se ne paga prezzo salato.[1]
[1] E proprio perché la teoria è importante, ben accolgo
un appunto critico di Franzini di natura più tecnica per puntualizzare. Lo
faccio in nota per non tediare troppo chi ci legge. Da come mi sono espresso –
in un articolo divulgativo che non è un paper scientifico – si evince che,
scrive Franzini, “perché la domanda cresca continuamente …per sostenere un
processo di crescita …dovremmo immaginare una continua riduzione delle
diseguaglianze …che però si arresterebbe quando si fosse raggiunta…l’assoluta
eguaglianza”. In effetti, nel modello Classico-Kaleckiano che ho in mente, un
aumento della propensione al consumo dovuto alla riduzione della diseguaglianza
ha un effetto “di livello” sul reddito nazionale, ma non sul tasso di crescita
(se non durante la transizione da un sentiero di crescita e l’altro). Questo
dipende dall’espansione di quelli che Kalecki (sulla scorta di un intuizione di
Rosa Luxemburg) chiamò “mercati esterni”, e Garegnani in un lontano scritto (che
stiamo per pubblicare in inglese) definì “domanda finale”: indebitamento delle
famiglie; spesa pubblica e, in economia aperta, esportazioni e indebitamento
dei paesi “periferici” (v. qui). Che
tale maniera di sostenere la crescita possa sfociare in una crisi finanziaria è
stato già accennato. Tale probabilità sarà però tanto più bassa quanto più la
distribuzione del reddito muta a favore dei lavoratori assicurando consumi
basati su elevati salari reali che crescano in linea con la produttività. Gli
economisti eterodossi non trascurano il lato dell’offerta, lo dico perché sennò
qualcuno alza la mano e me lo imputa. Lo fanno con riferimento alla tradizione
mercantilista-listiana delle politiche industriali pubbliche (v. qui), quella
studiata e praticata, per esempio, in Giappone, Corea e in Cina sulla scorta
dell’esperienza tedesca di fine XIX° secolo.
PS Non voglio apparire troppo polemico, ma si guardi questo bel video in cui l’economista americana Sthepanie Seguino identifica nella crescente diseguaglianza la causa di fondo della crisi finanziaria. L’analisi è la medesima di Barba e Pivetti: per sostenere la domanda aggregata fasce sempre più disagiate della popolazione sono state indotte a indebitarsi(sino ai famosi mutui subprime) e questo ha successivamente generato la crisi. Offuscare la relazione relazione negativa fra diseguaglianza e crescita vuol dire offuscare tutto questo.E’ assai pericoloso.
http://www.social-europe.eu/2013/04/why-inequality-is-the-root-of-the-crisis/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+social-europe%2FwmyH+%28Social+Europe+Journal%29
PS Non voglio apparire troppo polemico, ma si guardi questo bel video in cui l’economista americana Sthepanie Seguino identifica nella crescente diseguaglianza la causa di fondo della crisi finanziaria. L’analisi è la medesima di Barba e Pivetti: per sostenere la domanda aggregata fasce sempre più disagiate della popolazione sono state indotte a indebitarsi(sino ai famosi mutui subprime) e questo ha successivamente generato la crisi. Offuscare la relazione relazione negativa fra diseguaglianza e crescita vuol dire offuscare tutto questo.E’ assai pericoloso.
http://www.social-europe.eu/2013/04/why-inequality-is-the-root-of-the-crisis/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+social-europe%2FwmyH+%28Social+Europe+Journal%29
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