venerdì 5 aprile 2013

Diseguaglianza e crescita. Prosegue il dibattito con Franzini



Su E&P e su Micromega prosegue la mia discussione con Maurizio Franzini. Qui la mia contro-replica, che ha beneficiato di molti consigli da splendidi amici che ringrazio. Avrei potuto fare di meglio, ma si fa quel che si può.

Una contro-replica a Franzini
Sergio Cesaratto
Ringrazio anch’io Maurizio Franzini per le puntualizzazioni delle sue idee che, tuttavia, mi inducono a ribadire le mie perplessità. Sgombrando il campo da questioni marginali, il punto in discussione sono gli effetti della diseguaglianza sulla crescita. Tralasciamo anche ogni considerazione sulla desiderabilità della crescita. La mia tesi è che questa sia necessaria, privilegiando consumi sociali e rispettosi dell’ambiente. Tanto più che la “cautela” che Franzini nuovamente evoca se “crescita [sia] sistematicamente desiderabile, al punto da subordinare al suo perseguimento il giudizio da dare nei confronti della diseguaglianza”, non riguarda me che ritengo che crescita ed equità si sostengano reciprocamente. Così come non vale la pena soffermarsi sul fatto che gli economisti “eterodossi” della tradizione Classico-Kaleckiana trovano, ovviamente, la diseguaglianza immorale anche indipendentemente dagli effetti sulla crescita. Essi  ritengono però decisivo smentire la tesi “ortodossa” che una maggiore equità danneggi la crescita.

 Il punto centrale della discussione è dunque che Franzini ritiene che la tesi “eterodossa” del legame positivo fra equità e crescita non sia provata in generale. L’argomento che egli adduce al riguardo è un riferimento ad alcuni lavori empirici (già evocati nell’articolo originale) che non proverebbero in maniera sistematica “né l’effetto positivo [della diseguaglianza sulla crescita] ipotizzato dagli ortodossi né quello negativo ipotizzato dagli eterodossi”. Rimando al dibattito che Franzini organizzerà alla Sapienza – sono grato per l’invito – un approfondimento critico di questi studi e l’esame di risultanze opposte (e sarà certamente il caso di chiedere a Radio Radicale di registrare l’evento per il più ampio pubblico che ha seguito questa discussione). Mi limito qui alle seguenti osservazioni.
In genere gli studi econometrici quali quelli menzionati da Franzini muovono da impostazioni teoriche assai “ortodosse” (ciò che può condizionare i risultati empirici) e sono condotti simultaneamente su decine e decine di paesi. Questo non è un vantaggio perché si offuscano le specifiche circostanze storiche, sociali e istituzionali che in ciascun paese influenzano la relazione fra equità e crescita. Accetto, tuttavia, il punto sollevato da Franzini sulla base di questa letteratura che le relazioni fra equità e crescita siano complesse. In particolare, lo ringrazio per aver ricordato che vi sono dei casi in cui a una maggiore diseguaglianza si associa una maggiore crescita. Questi casi sono tuttavia coerenti con l’approccio eterodosso in cui non v’è crescita se la domanda aggregata non aumenta, come negli esempi qui sotto elencati.
(a) In paesi in cui la crescita è guidata dalle esportazioni o che praticano politiche mercantiliste, salari reali relativamente bassi si possono accompagnare ad elevate esportazioni e crescita. Ma questo semplicemente perché la depressione dei consumi interni viene compensata dai mercati esteri in paesi che, spesso, vengono all’uopo fatti indebitare. L’indebitamento sfocia, ahimè, spesso in una crisi finanziaria. Ne sappiamo qualcosa noi in Europa dove la crisi deve molto al comportamento mercantilista della Germania! (v. qui)
(b) E’ ben noto che nelle fasi iniziali dei processi di sviluppo la distribuzione del reddito possa muovere nella direzione di una maggiore diseguaglianza, pur con una possibile aumento dei redditi medi. Attenzione qui è la crescita che genera maggiore diseguaglianza, quindi non stiamo avvalorando la tesi “ortodossa” che la diseguaglianza genera sviluppo. La maggiore diseguaglianza non danneggia poiché la compressione dei salari consente la crescita dell’export (come nel caso a), mentre l’aumento relativo dei redditi del nuovo ceto medio può non sfavorire i consumi a cui esso finalmente può accedere.
(c) In altri casi, come negli Stati Uniti pre-crisi, una relativa alta crescita si è accompagnata a una disuguaglianza in aumento, senza che la crescita occupazionale abbia portato a un aumento dei salari (contrariamente, apparentemente, alle aspettative degli eterodossi). Ma nessuna sorpresa, in realtà. Negli Stati Uniti il ceto medio impoverito è stato indotto a indebitarsi per sostenere la domanda (come documentato per esempio da Barba e Pivetti), mentre la maggiore occupazione non ha portato a un rafforzamento sindacale dopo un paio di decenni in cui il lavoratore americano era stato traumatizzato a colpi di disoccupazione (come ben evidenziato da Bellofiore e Halevi). Anche qui l’esito di tale modello di crescita è stata una crisi finanziaria. Recentemente gli Economic Report of the President 2012 e 2013 esplicitamente nominano gli effetti negativi della crescente diseguaglianza su domanda aggregata e crescita.
Resta dunque confermato quanto avevamo scritto sulla scorta della lezione di Kalecki: in via generale una maggiore equità distributiva generando più domanda accresce reddito e occupazione. Tuttavia il capitale non ama l’equità (per evidenti motivi), per cui ricorre a forme balorde per sostenere la domanda aggregata pur in presenza di crescente diseguaglianza, forme che poi che sfociano sovente in una crisi finanziaria. Non sono convinto che questa complessa perversità del capitalismo, come la definirebbe Kalecki, sia colta dagli studi citati da Franzini, i cui risultati sospensivi circa la relazione fra equità e crescita comunque non ci sorprendono e abbiamo cercato di chiarire.
Franzini non sembra cercare di spiegare in dettaglio al lettore il perché di questi risultati, e comunque non su linee simili alle nostre. Dai pochi cenni, egli non sembra da un lato rifiutare la tesi Keynesiana di possibili effetti positivi di una maggiore equità sulla crescita, laddove evoca il ruolo delle “propensioni a consumare”, e questo va bene. Franzini richiama altre due spiegazioni senza però chiarire a favore di quale delle due tesi in esame: “le forme e i costi del conflitto” e “le conseguenze per l’accumulazione del cosiddetto capitale umano”. Che l’eccesso di conflitto sociale volto a ottenere maggiore equità possa nuocere alla crescita è possibile. Ma va chiarito che questo accade perché la borghesia reagirà alla richiesta di maggiore giustizia, in generale, con politiche economiche volte ad accrescere la disoccupazione e ripristinare la disciplina e lo status quo distributivo - non lo ha fatto solo quando c’era la sfida sovietica, come indicato fra gli altri da Garegnani e Pivetti. Dunque non è che l’equità non fa crescere, ma è che è incompatibile col capitalismo, se non in delimitati periodi storici. Se Franzini intende che l’accettazione da parte della borghesia di una maggiore equità agevolerebbe la crescita attraverso una comunità più armonica, mi trova d’accordo, sebbene scettico che questo sia nel DNA del capitalismo.
Circa il “capitale umano” - espressione che mi rende perplesso tanto è priva di solidi fondamenti analitici – si può intendere che una maggiore equità favorisca l’istruzione e dunque la crescita, il che mi trova consenziente. Ma si deve stare in guardia dalla tesi più “ortodossa” alla Pietro Reichlin che una maggiore giustizia distributiva - ottenuta, per esempio, attraverso maggiori imposte progressive per finanziare lo stato sociale - disincentiva offerta di lavoro, risparmio, accumulazione di “capitale umano”, merito e tutti i parafernalia dell’economia “dal lato dell’offerta” e fa crescere di meno. Ho criticato la validità di questa tesi nella conversazione con Reichlin a cui rimando (sempre su Micromega 3/2013 e che cercherò di pubblicare sul mio blog). Nelle spiegazioni che sopra ho addotto per spiegare perché in taluni casi una maggiore diseguaglianza può associarsi a una maggiore crescita non ho, infatti, usato questi tipi di argomento e sono rimasto coerente con un approccio keynesiano. Non mi è chiaro però come Franzini spieghi il possibile impatto positivo della diseguaglianza sulla crescita, argomento centrale nella sua polemica con gli “eterodossi”.
Non trascuro dunque i dati, come sostiene Franzini, e soprattutto i fatti. Mi limito a evidenziare che il modo in cui i risultati empirici vengono messi a punto e interpretati riflette approcci teorici precisi. Ricostruiamo e leggiamo il mondo attraverso le lenti della teoria, i fatti non parlano da soli. Sì, “maledetti dati”, perché non parlate da soli? E’ una banale verità che ho dovuto ricordare anche a Reichlin. Franzini si muove un po’ a 360 gradi nel mondo delle teorie. Chi scrive è assai più sospettoso della maggior parte di queste teorie. Ma è forse un difetto un po’ demodé da vecchio lettore di Marx, vizio che pochi giovani osano ormai coltivare perché se ne paga prezzo salato.[1]


[1] E proprio perché la teoria è importante, ben accolgo un appunto critico di Franzini di natura più tecnica per puntualizzare. Lo faccio in nota per non tediare troppo chi ci legge. Da come mi sono espresso – in un articolo divulgativo che non è un paper scientifico – si evince che, scrive Franzini, “perché la domanda cresca continuamente …per sostenere un processo di crescita …dovremmo immaginare una continua riduzione delle diseguaglianze …che però si arresterebbe quando si fosse raggiunta…l’assoluta eguaglianza”. In effetti, nel modello Classico-Kaleckiano che ho in mente, un aumento della propensione al consumo dovuto alla riduzione della diseguaglianza ha un effetto “di livello” sul reddito nazionale, ma non sul tasso di crescita (se non durante la transizione da un sentiero di crescita e l’altro). Questo dipende dall’espansione di quelli che Kalecki (sulla scorta di un intuizione di Rosa Luxemburg) chiamò “mercati esterni”, e Garegnani in un lontano scritto (che stiamo per pubblicare in inglese) definì “domanda finale”: indebitamento delle famiglie; spesa pubblica e, in economia aperta, esportazioni e indebitamento dei paesi “periferici” (v. qui). Che tale maniera di sostenere la crescita possa sfociare in una crisi finanziaria è stato già accennato. Tale probabilità sarà però tanto più bassa quanto più la distribuzione del reddito muta a favore dei lavoratori assicurando consumi basati su elevati salari reali che crescano in linea con la produttività. Gli economisti eterodossi non trascurano il lato dell’offerta, lo dico perché sennò qualcuno alza la mano e me lo imputa. Lo fanno con riferimento alla tradizione mercantilista-listiana delle politiche industriali pubbliche (v. qui), quella studiata e praticata, per esempio, in Giappone, Corea e in Cina sulla scorta dell’esperienza tedesca di fine XIX° secolo.
PS Non voglio apparire troppo polemico, ma si guardi questo bel video in cui l’economista americana Sthepanie Seguino identifica nella crescente diseguaglianza la causa di fondo della crisi finanziaria. L’analisi è la medesima di Barba e Pivetti: per sostenere la domanda aggregata fasce sempre più disagiate della popolazione sono state indotte a indebitarsi(sino ai famosi mutui subprime) e questo ha successivamente generato la crisi. Offuscare la relazione relazione negativa fra diseguaglianza e crescita vuol dire offuscare tutto questo.E’ assai pericoloso.
http://www.social-europe.eu/2013/04/why-inequality-is-the-root-of-the-crisis/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+social-europe%2FwmyH+%28Social+Europe+Journal%29


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