Pubblichiamo articolo uscito su il manifesto (10/9/13) sul tema delle pensioni.
Rinazionalizzare le pensioni conviene
Sergio Cesaratto
Non c'è due senza tre. Dopo Argentina e Ungheria, anche la Polonia governata da un
liberista ha rinazionalizzato il sistema pensionistico. Come raccontano le cronache
di questi giorni, il governo di Varsavia ha obbligato i fondi pensione a
trasferire forzatamente gli investimenti in titoli di stato del valore di 37
miliardi di dollari nelle mani del Tesoro, diminuendo di botto il debito
pubblico di un valore pari all’8% del Pil. Con la debacle del sistema cileno di
qualche anno fa - che però è una storia un po' diversa - la disfatta
dell'offensiva contro la previdenza pubblica guidata una ventina d'anni fa
dalla World Bank è completa. E pour cause.
Quello che i primi tre paesi fecero ai tempi delle riforme fu semplicemente di
trasferire la gestione del sistema pensionistico pubblico ai privati sicché,
mentre il sistema restava fondamentalmente il medesimo, i suoi costi di
gestione si accrescevano per la minore efficienza della gestione privata e dei
profitti che questa intende lucrare. Per capire facciamo un passo indietro. E’
semplicissimo.
Nel sistema pensionistico pubblico gli enti mutualistici
(come l'INPS per capirci) prelevano i contributi dei lavoratori (supponiamo 100
euro) e ne restituiscono altrettanti ai pensionati correnti (diciamo 98, con 2
euro che sono i costi di gestione del sistema pubblico che è molto più
efficiente del sistema privato). I lavoratori sono consenzienti perché
contribuendo oggi acquisiscono il diritto alla pensione una volta anziani.
Con le privatizzazioni operate nei tre paesi i contributi
(100 euro nell’esempio) venivano devoluti ai fondi pensione i quali li investivano
nel mercato finanziario. La promessa era che le pensioni future non sarebbero state
più erogate dallo stato, bensì dal riscatto dei fondi investiti incluso il
rendimento realizzato. Ma è proprio così? Intanto domandiamoci, gli enti
mutualistici come fanno a pagare le pensioni correnti una volta che vengano
meno i contributi (se questi vanno ai fondi pensione)? Ciò che accade è che il
Tesoro emette titoli di Stato (per 100 euro) per pagare le pensioni correnti. E
chi li compra? I fondi pensione coi contributi dei lavoratori. Insomma, prima
della riforma i lavoratori davano 100 allo Stato e questo ci pagava le
pensioni. Ora danno 100 ai fondi pensione che ci acquistano 100 di titoli di
stato con cui quest’ultimo ci paga le pensioni. E’ cambiato qualcosa? Nella
sostanza no: i 100 di contributi servono sempre a pagare le pensioni correnti -
com’è nella logica di qualunque sistema pensionistico in cui chi lavora
sostiene gli anziani - solo che fanno un giro più tortuoso. E in questo giro
c’è chi ci perde e chi ci guadagna? Vediamo.
Lo Stato deve ora pagare degli interesse sui titoli che
emette. Per esempio, a un tasso del 5% per erogare 100 di pensioni deve pagare
5 euro di interessi all’anno su 100 di titoli emessi. Chi si intasca gli
interessi? Supponiamo che i gestori dei fondi attribuiscano il rendimento dei
titoli ai lavoratori, è questo un guadagno netto per loro? No, perché nella
veste di lavoratori o di pensionati (e nella vita capitano entrambi i ruoli) lo
Stato chiederà loro 5 euro di imposte di più all’anno. Inoltre è molto
probabile che dei 100 di contributi investiti in titoli di stato, i fondi
pensione ne restituiscano ai lavoratori quando andranno in pensione solo,
diciamo, 80 o 90 euro, intascando il resto a copertura delle spese di gestione,
marketing e profitti. C’è solo un vincitore, i fondi pensione che fanno la
cresta.
Questi fatti erano chiarissimi già a fine anni 1990 a economisti come
Stiglitz e altri. Si parva licet, chi scrive ha pubblicato una sfilza di
contributi internazionali in merito. Meno chiari erano a presunti tecnici
nostrani, Elsa Fornero in testa, una studiosa vicina a potenti interessi
finanziari (ma incompresi anche da esperti di pensioni vicini alla sinistra
radicale).
Gli economisti della World Bank, la principale paladina
delle riforme, non erano così sciocchi da non vedere che si trattava di un
gioco delle tre carte (un “shell game” lo definì un noto economista americano).
Ma avevano un argomento di riserva. Con la riforma il debito pubblico cresce
perché, come s’è visto, lo Stato si indebita per pagare le pensioni correnti. Nella
logica del tanto peggio tanto meglio cui la World Bank faceva
l’occhiolino, ciò avrebbe aperto la strada a riforme volte a ridurre altre voci
della spesa sociale. Ma allora dov’è la sorpresa se a distanza di anni i tre
governi hanno deciso di sgonfiare il loro debito pubblico inflazionato da una
riforma balorda? "Il fatto eclatante - nota lo sconcertato Vittorio Da
Rold su Il
Sole 6/9 - è che i fondi
pensione non saranno minimamente risarciti.” Ma il giornalista si dà da sé la
ragione: il governo polacco ritiene, infatti, “che i bond siano stati
acquistati con i contributi dei dipendenti che altrimenti sarebbero andati al
governo." Il governo si riprende cioè titoli che appartengono ai
lavoratori, e li cancella dal proprio debito, garantendo a questi ultimi le
pensioni future, probabilmente più certe ed elevate, visto che chi ci rimette
sono solo i fondi pensione che dovranno smettere di fare la cresta alle spalle
di stato, lavoratori e pensionati.