Il manifesto mi ha confermato che il mio articolo non è uscito perché fuori linea. D'altra parte il giornale è loro. Inutile dunque inviargli questa versione rivista in cui ho rincarato la dose. Alberto Bagnai l'ha ospitata su asimmetrie dove ha conseguito oltre 800 link a FB in poche ore.
PS per mia incapacità ho cancellato i (pochi) commenti in calce agli ultimi post! scusate.Al lettore (ahimé anonimo) che mi rimproverava di piagnisteo verso il manifesto, forse non sa che fin da ragazzino militavo in quel gruppo e diffondevo quel giornale, che è anche un po' mio. E poi perchè pretendere che ci sia dibattito sarebbe piagnisteo?
PS per mia incapacità ho cancellato i (pochi) commenti in calce agli ultimi post! scusate.Al lettore (ahimé anonimo) che mi rimproverava di piagnisteo verso il manifesto, forse non sa che fin da ragazzino militavo in quel gruppo e diffondevo quel giornale, che è anche un po' mio. E poi perchè pretendere che ci sia dibattito sarebbe piagnisteo?
Il “più Europa” (è) liberista (rivisto)
Sergio Cesaratto
Nei giorni scorsi il
manifesto ha preso posizioni sulla crisi greca che a molti sono apparse sconcertanti.
Da titoli dove una manovra recessiva diventava misura per la crescita (“Atene,
12 miliardi per la crescita”), all’identificazione di Piazza Syntagma con
“L’Europa siamo noi” o di Tsipras come “Il cuore d’Europa”, sino alla
perorazione di una nuova Ventotene. Il giornale ha finito così per accodarsi al
coro per cui dalla crisi europea si esce solo con “più Europa” non scavando a
fondo sulle ragioni ultime del fallimento europeo e dando spazio insufficiente
ad altre posizioni in merito.
Nei più avveduti, la necessità che un’unione politica
completi l’unione monetaria muove dalla constatazione che quest’ultima non
costituisce un’”area valutaria ottimale”. Si argomenta così che un’unione
monetaria sostenibile implica un’unione politica, la sola che può garantire che
i paesi forti si facciano carico, attraverso un cospicuo bilancio federale, dei
paesi deboli. Mentre il mercantilismo tedesco è di ostacolo a tale unione, un
argomento più di fondo per dimostrare che un’Europa politica è pur possibile,
ma solo con uno Stato minimale, viene da un vecchio saggio di Hayek del 1939.
La sua argomentazione è che una federazione fra nazioni economicamente e
culturalmente disomogenee (si potrà poi ragionare sull’importanza relativa dei
due aggettivi) e che controlli un cospicuo ammontare di risorse, non potrà
durare a lungo. Essa si fratturerà presto sui criteri di distribuzione delle
risorse e/o del potere di allocarle. La fine dell’ex-Yugoslavia è l’esempio più
evidente. E basti guardare a quello che è accaduto in questi giorni. Che
legittimazione avrebbe avuto un’ipotetica autorità federale europea di andare
contro la volontà di molti paesi di non
aiutare la Grecia a sollevarsi? Non sarebbe neppure stato troppo democratico, a
ben vedere. Questo pone la parola fine al sogno dei più tenaci europeisti per
cui il problema dell’euro si risolverebbe completando l’unione monetaria con
l’unione politica.
L’astuto Hayek precisa che politicamente sostenibile sarebbe
invece uno Stato federale “leggero”, con poco o nessun potere redistributivo e
che si occupi solo di regolamentare i mercati e poco altro. Esso sarebbe non
solo possibile, ma desiderabile. Per un liberista, naturalmente, non certo per
un socialista. Non sorprende che, tanto per fare un esempio nostrano, i più
ostinati federalisti italiani siano i radicali, tenaci liberisti in economia - più
sfumato Bordin, ma ai limiti del fanatismo Cappato che infatti plaudeva al
fondo de il manifesto per una nuova
Ventotene. E non è un caso che il Rapporto dei 5 Presidenti (Draghi, Junker
ecc.) sulla riforma politica dell’UE
si rifaccia fondamentalmente al modello Hayek: nessuna funzione fiscale
perequativa a Bruxelles, banca centrale monetarista e limitazione all’autonomia
fiscale degli Stati nazionali. E’ il modello di Europa ordo-liberista che, a
quanto sembra, la Germania si prepara a rilanciare nel dopo-Grecia.
In tal modo si completerebbe il disegno hayekiano che svuota
del tutto gli Stati nazionali dei poteri monetari e fiscali, privando le classi
lavoratrici nazionali del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale.
La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute
centrali dai radicali (il resto la fa il mercato). Si completa così anche la
globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando,
ma anche lo Stato si fa evanescente - di esso rimane solo il sorriso beffardo
del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente l’indefesso internazionalista ci dirà che a
fronte della globalizzazione di Stato e capitale, anche il lavoro si deve
internazionalizzare e creare fronti sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca
di esempi in questa direzione. L’intreccio fra lotte per l’indipendenza
nazionale e per il socialismo è invece un classico della storia del movimento
operaio.
L’inaudita violenza tedesca e la conseguente drammatica chiusura
dalla vicenda greca con il rafforzamento di austerità e perdita di sovranità
per quel popolo, impone che la sinistra prenda coscienza delle ragioni profonde
della crisi europea, e smetta di attribuirla a una generica tecnocrazia
neoliberista. Vi sono ragioni materiali per cui questa è l’unica Europa possibile
ed è quella che le élite desiderano, avvantaggiandosi anche dell’ingenuo
europeismo della sinistra. Più che di una nuova Ventotene, l’Europa sembra aver
bisogno di una nuova Vestfalia che ripristini la sovranità democratica degli
stati europei rilanciando una cooperazione su basi più eque. Questo è il nuovo
fronte di lotta per la sinistra.
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