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Il “più Europa” (è) liberista
Sergio Cesaratto
Il No greco al referendum ha scatenato un coro quasi unanime
di commenti secondo cui dall’impasse europea “fra gli opposti nazionalismi
greco e tedesco” si esce solo con un’Europa politica e solidale, “meno egoista”
insomma. Nei più avveduti, questa visione muove dalla constatazione che l’Europa
monetaria non costituisce un’”area valutaria ottimale”. Si argomenta dunque che
un’unione monetaria sostenibile implica un’unione politica, la sola che può
garantire che i paesi forti si facciano carico, attraverso un cospicuo bilancio
federale, dei paesi deboli. Ahimè il modello mercantilista tedesco, disastroso
in un’unione monetaria, è anche refrattario a una unione federale “pesante”. Un
argomento ancor più dirimente per dimostrare che un’Europa politica è pur
possibile, ma solo con uno Stato minimale, viene da un vecchio saggio di Hayek
del 1939. La sua argomentazione è che una federazione fra nazioni
economicamente e culturalmente disomogenee (si potrà poi ragionare sull’importanza
relativa dei due aggettivi) e che controlli un cospicuo ammontare di risorse,
non potrà durare a lungo. Essa si fratturerà presto sui criteri di
distribuzione delle risorse e/o del potere di allocarle. La fine
dell’ex-Yugoslavia è l’esempio più evidente. E basti guardare a quello che
succede in questi giorni. Che legittimazione avrebbe un’autorità federale
europea di andare contro la volontà di molti paesi di non aiutare la Grecia a sollevarsi? Non sarebbe neppure troppo
democratico, a ben vedere. Questo pone la parola fine al sogno dei più tenaci
europeisti per cui il problema dell’euro si risolverebbe completando l’unione
monetaria con l’unione politica. Dalla padella nella brace verrebbe da dire.
L’astuto Hayek precisa che politicamente sostenibile sarebbe
invece uno Stato federale “leggero”, che abbia poco o nessun potere
redistributivo e che si occupi solo di regolamentare i mercati e poco altro. Esso
sarebbe non solo possibile, ma desiderabile. Per un liberista, naturalmente, non
certo per un socialista. Non sorprende che, tanto per fare un esempio nostrano,
i più ostinati federalisti italiani siano i radicali, tenaci liberisti in
economia - più sfumati i Bordin e ai limiti del fanatismo i Cappato. E non è un
caso che il Rapporto dei 5 Presidenti (Draghi, Junker ecc.) sulla riforma politica dell’UE si rifaccia
fondamentalmente al modello Hayek: nessuna funzione fiscale perequativa a
Bruxelles, banca centrale monetarista e limitazione all’autonomia degli Stati
nazionali.
In tal modo si completerebbe il disegno hayekiano che svuota
del tutto gli Stati nazionali dei poteri monetari e fiscali, privando le classi
lavoratrici nazionali del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale.
La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute
centrali dai radicali (il resto la fa il mercato). Si completa così anche la
globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando,
ma anche lo Stato si fa evanescente - di esso rimane solo il sorriso beffardo
del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente l’indefesso internazionalista ci dirà che a
fronte della globalizzazione di Stato e capitale, anche il lavoro si deve
internazionalizzare e creare fronti sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca
di esempi in questa direzione. L’intreccio fra lotte per l’indipendenza
nazionale e per il socialismo è invece un classico della storia del movimento
operaio.
La vicenda greca impone che la sinistra prenda coscienza delle
ragioni profonde della crisi europea, e smetta di attribuirla a una generica tecnocrazia
neoliberista. Vi sono ragioni materiali per cui questa è l’unica Europa possibile
ed è quella che le élite desiderano, avvantaggiandosi anche dell’ingenuo
europeismo della sinistra. Come Hayek aveva ben colto, il federalismo è la
Mecca dei liberisti (e dovrebbe essere anatema per i socialisti). In linea con
quanto sostenuto domenica da D’Attorre, questo non implica l’abbandono
dell’idea della fratellanza fra i popoli. Attenzione però al fondamentalismo
utopico: è di un vecchio e colto amico de il
manifesto, Danilo Zolo, ricordare la massima di Proudhon, “Chi dice umanità
cerca di ingannarti”.
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