Il ministro Padoan oltre Keynes. Nel ’75
Da Critica marxista a Renzi. Il
dibattito nel Pci, oltre la regolazione del conflitto di classe e la
prospettiva socialdemocratica, per un superamento del capitalismo
Il
nuovo ministro dell’Economia Piercarlo Padoan era ben presente nel dibattito
economico della sinistra dei caldi anni ’70. In particolare nel 1975 Critica marxista pubblicò una sua
relazione dal titolo assai impegnativo “Il fallimento del pensiero keynesiano”
che riassumeva il lavoro di un gruppo di giovani economisti costituito presso
l’Istituto Gramsci sul tema “Limiti del dirigismo e fondamenti teorici della
politica delle riforme”. Anche il
manifesto aveva dedicato grande attenzione a questo tema negli anni
precedenti col dibattito su “Spazio e ruolo del riformismo” pubblicato come
volume nel 1973. Un numero successivo di Critica
Marxista ospitò una nota critica di Giancarlo De Vivo, un acuto economista
della scuola di Sraffa e Garegnani, e la replica dello stesso Padoan.
La
relazione di Padoan ripercorre gli elementi della teoria di Keynes e delle
successive interpretazioni, sia quelle volte a ricondurlo nell’alveo della
teoria tradizionale, che quelle più radicali. Le conclusioni circa il perdurare
del successo delle politiche keynesiane a fronte delle turbolenze degli anni
’70 sono però piuttosto negative. Sebbene si riconosce l’efficacia delle
politiche di sostegno alla domanda aggregata per la piena occupazione, ottenute
in particolare attraverso aumenti salariali, la relazione afferma che
all’aumento della domanda “non corrisponde però sempre un adeguamento della
struttura produttiva (una volta raggiunto il tetto della capacità produttiva
esistente, oppure anche prima, se si tiene conto di strozzature dovute alla
presenza di monopoli o di posizioni di rendita) e si hanno così dei persistenti
fenomeni inflazionistici”. Portato della piena occupazione, si aggiunge, è una
“situazione di conflittualità” che produrrà “continue tensioni dovute alle
risposte delle imprese alle rivendicazioni operaie per tentare di ricostituire
i margini di profitto tramite aumenti di prezzo alimentando ulteriormente il
processo inflazionistico”. Avendo la disponibilità di mercati garantiti dal
sostegno della domanda da parte della spesa pubblica, le imprese rispondono “non
con aumenti della produttività tramite innovazioni ed investimenti tesi ad
aumentare l’offerta, ma con l’aumento dei prezzi …L’inflazione quindi, oltre
che come potente strumento redistributivo, si poneva come drammatica elusione
dell’esigenza di un allargamento della capacità produttiva …che la lotta della
classe operaia per una migliore soddisfazione dei bisogni andava sempre più
affermando”. Padoan sembra pessimista circa la possibilità di regolare il
conflitto attraverso la politica dei redditi evocando le tesi di Kalecki
(citato nel corpo della relazione) secondo cui solo un’elevata disoccupazione è
in grado di disciplinare e regolare il conflitto sociale. Più che in direzione
di una prospettiva socialdemocratica, le conclusioni di Padoan puntano così a
un “superamento dell’ordinamento capitalistico”. Infatti le politiche
keynesiane di piena occupazione condurrebbero a “delle tensioni insostenibili
per il sistema capitalistico” incompatibili “con il quadro democratico”. Quindi
non resta che fuoriuscire dalla “logica keynesiana (cioè borghese)”. Accanto a
un’eco kaleckiana qualcuno potrebbe anche leggerne una amendoliana nel ritenere
le lotte operaie in fondo sovversive dell’ordinamento capitalista e democratico
e l’inflazione come anticamera del fascismo. La prospettiva amendoliana, si
badi, è stata in Italia spesso confusa col riformismo (socialdemocratico) il
quale, al contrario, riteneva gli avanzamenti dei lavoratori perfettamente
compatibili con un’economia di mercato regolata (sui temi del mancato
riformismo del PCI rinvio al magistrale Paggi e D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo,
Einaudi 1986). Padoan e compagni non sembrano tuttavia indicare come via
d’uscita l’accettazione delle compatibilità che portò di lì a poco alla svolta
dell’Eur, ma un’uscita più di sinistra, anche se solo genericamente evocata. La
prospettiva di un riformismo forte è comunque assente.
Nel
suo commento critico De Vivo attacca Padoan soprattutto per la lettura
riduttiva di Keynes che lo accumunerebbe alla teoria neoclassica dominante in
uno snodo fondamentale: “Secondo la relazione, uno degli <elementi
fondamentali della ‘visione’ keynesiana> sarebbe <l’incompatibilità tra
consumo e accumulazione, per cui se si vuole consumare si deve rinunciare ad
accumulare e viceversa”. Per rompere le ambiguità di Keynes in merito, De Vivo
propugna la proposta di Garegnani di liberare Keynes dai “lacci e lacciuoli”
neoclassici in una direzione che spieghi pienamente i livelli di produzione
sulla base della domanda affettiva guidata da salari e consumi pubblici sia nel
breve che nel lungo periodo. La replica di Padoan è su linee molto
tradizionali. Egli riafferma la tesi marginalista che “nel lungo periodo la
disponibilità di risparmio (cioè di ricchezza sottratta al consumo) diventa
rilevante al fine delle possibilità di crescita del sistema economico.” E
aggiunge che in quel frangente storico in cui l’industria italiana necessitava
di una ristrutturazione qualitativa, i risparmi rivestivano un ruolo
particolarmente essenziale. L’incompatibilità delle lotte operaie che aveva
sopra assunto un’eco marxista e kaleckiana appare qui molto più
tradizionalmente riferita alla teoria dominante (il che potrebbe avvalorare una
contiguità con l’anima amendoliana). Comunque, Padoan nuovamente conclude
ribadendo la “prospettiva di una fuoriuscita dal capitalismo” (non estranea
peraltro all’amendolismo sebbene rimandata a data da destinarsi).
Quello
che emerge da queste pagine, qui frettolosamente richiamate, sono le aporie in
cui si sono dibattuti il PCI e le sue successive metamorfosi e i suoi
intellettuali di spicco, fra una voglia di socialismo, sempre più affievolitasi
sino a scomparire, e un fondamentale riconoscersi nelle compatibilità della
teoria economica dominante, con qualche molto pallido (quasi invisibile) spunto
keynesiano. Questo modo di porsi è molto lontano da quello di Myrdal e degli
intellettuali nordici che hanno visto nel conflitto sociale ben regolato
l’humus del progresso. E’ vero pure che la borghesia italiana, da Bava Beccaris
a Berlusconi passando per Piazza Fontana ha sempre ostacolato un processo di
maturazione della sinistra italiana nel senso di un vero riformismo, a volte
reprimendola altre volte corrompendola (di nuovo v. Paggi e D’Angelillo).
Una traccia di quelle aporie
sono probabilmente riconoscibili anche nel Padoan dell’oggi che, se da un lato
non si esime dal recitare il mantra sulla necessità del riaggiustamento dei conti
pubblici e delle “riforme strutturali”, dall’altro più realisticamente (e da
buon economista) sa che i problemi sono di domanda aggregata e scrive che più
inflazione nei paesi europei in surplus commerciale sarebbe auspicabile – si
vede che anche lui ama qualche volta sognare. Buona fortuna, comunque.
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