Pubblichiamo una lunga recensione di Ernesto Screpanti a un volume programmatico di ATTAC rappresentativo di molti modi di pensare diffusi nella sinistra. Molte delle osservazioni di Ernesto ci appaiono puntuali e opportune.
COMBATTERE
LA CRISI: LA PROPOSTA DI ATTAC?
Ernesto
Screpanti
È in
libreria per le Edizioni Alegre un’opera collettanea dal titolo ambizioso:
“Come si esce dalla crisi”. Senza punto interrogativo. Dunque vuole essere una
risposta alla domanda che tutti ci poniamo: Come si esce dalla crisi? Però,
forse turbati dall’eccesso di ambizione, gli autori ridimensionano subito le
aspettative nel sottotitolo: “Per una nuova finanza pubblica e sociale”. In
realtà né il titolo né il sottotitolo sono del tutto veritieri: Il primo
promette troppo il secondo troppo poco.
In
questo articolo non voglio fare una semplice recensione. Piuttosto proverò a
sviluppare una riflessione su alcune problematiche sollevate dal libro e dare
qualche suggerimento. E comincerò con l’enucleare le proposte di riforma,
rielaborandole nella veste di un programma politico. Non credo di andare
lontano dalla realtà se dico che questo libro presenta una bozza di programma
di un’area di movimento che gravita intorno ad ATTAC. Tuttavia non sarebbe
corretto considerarlo come il programma di ATTAC, non solo perché
quest’associazione non è un partito politico, ma anche perché solo alcuni degli
autori del libro vi appartengono. Ciononostante, perpetrando una sineddoche che
mi sembra più chiarificante che deformante, mi riferirò alla bozza di programma
come se fosse ispirata alla visione politica dei compagni attacchini.
La proposta
1. Il primo punto riguarda
“il non pagamento del debito, la sua
ristrutturazione selettiva”, trovando tuttavia “delle forme per la tutela del
micro-risparmio” (Bertorello e Corradi). Sulle modalità non si approfondisce
molto. Ed è giusto, perché una ristrutturazione del debito pubblico può essere
fatta in molti modi diversi, adattandosi alle circostanze di mercato prevalenti
nel momento in cui si attua la politica. Millet e Toussaint si spingono oltre,
e propongono di accompagnare il default con un audit democratico che porti a
identificare la parte illegittima del debito pubblico. “In tutti i casi è
legittimo che le istituzioni private e gli individui con redditi più elevati…
portino il fardello dell’annullamento dei debiti sovrani”, mentre ai creditori
il cui credito non è illegittimo “converrebbe imporre uno sforzo in termini di
riduzione dello stock e dei tassi d’interesse, così come un allungamento del
periodo di pagamento”. E solo i “piccoli portatori di titoli… dovrebbero essere
normalmente rimborsati”. In linea di principio non avrei obiezioni, se mi si spiegasse
qual è il criterio di legittimità. Sembrerebbe che la legittimità sia garantita
dal carattere democratico dell’audit. Il che vuol dire che si applica un
teorema di Pigou: poiché la maggioranza dei cittadini non è ultraricca, la
decisione democratica porta a una redistribuzione equa. Bertorello e Corradi
sono abbastanza espliciti: “l’audit e la ristrutturazione del debito non sono
una soluzione tecnica, ma se agiti da energie collettive possono essere la
premessa necessaria per uscire dalla crisi e imboccare una nuova strada.”
Dunque “il piatto non è già pronto, ma gli ingredienti sono in campo: il
rifiuto del debito, la democrazia, il primato della giustizia sociale e
ambientale”. Stando così le cose, mi permetto di avanzare un suggerimento.
Basterebbe che il governo democratico decretasse l’assicurazione di tutti i
conti titoli (solo per i titoli del debito pubblico) detenuti dalle famiglie
per un valore, diciamo, non superiore ai 200.000 euro; e poi annunciasse
l’intenzione di ridurre drasticamente il debito. A quel punto i “mercati” e le
agenzie di rating comincerebbero a lavorare per i cittadini: i titoli
verrebbero declassati a spazzatura, il loro valore si ridurrebbe pesantemente e
il governo potrebbe ricomprarli o rinegoziarli a prezzi di saldo. La liquidità
necessaria per finanziare la manovra potrebbe essere reperita emettendo quasi
moneta (BOT a brevissima scadenza con valore garantito) e imponendo alle banche
un vincolo di portafoglio che le induca ad acquistarla.
2. Ciò metterebbe in
difficoltà le banche, che sarebbero costrette a svendere titoli a lunga
scadenza per acquistare titoli a breve privi di rendimento. Molte andrebbero
sull’orlo della bancarotta. No problem, poiché il programma prevede la nazionalizzazione del sistema bancario
(eccetto le casse rurali e le banche etiche). Suggerimento: Anche qui ci
penserebbe il mercato a risolvere il problema. Le azioni delle banche
tenderebbero a zero, e il governo (con l’aiuto della Cassa Depositi e
Prestiti?) potrebbe comprarle coi soldi dei cittadini e dei piccoli
risparmiatori. I vecchi azionisti ci perderebbero molto. Di fatto verrebbero
espropriati di gran parte del loro capitale. I cittadini non regalerebbero
niente a nessuno: ogni euro speso per salvare una banca sarebbe una quota
d’acquisizione di proprietà pubblica. Insomma “le banche che dovessero
necessitare di interventi pubblici per il loro salvataggio, devono trasformarsi
in banche pubbliche”.
3. Oltre a ciò, verrebbero
messi in campo vari provvedimenti volti ad assicurare l’equità fiscale, in realtà una vasta riforma del sistema finanziario (Lovera, Baranes, Tricarico):
a.
Una
Financial Transaction Tax, del tipo già in discussione al parlamento europeo
b. Demercificazione di
tutti i beni comuni universali e di tutti i servizi collettivi essenziali
c. Divieto di tutte le
attività speculative sulle commodities e sui derivati, anche con la proibizione
delle vendite allo scoperto e la regolamentazione dei mercati over the counter
d. Chiusura di tutti i
paradisi fiscali
e.
Lotta
al riciclaggio dei capitali di provenienza illegale
f.
Smembramento
delle grandi concentrazioni bancarie (però mi domando: a che servirebbe
smembrarle, una volta che fossero diventate pubbliche? semmai, a quel punto
converrebbe concentrarle ancora di più per attivare economie di scala e per
avere uno strumento centralizzato di programmazione e di sostegno alle
politiche industriali e ambientali)
g. Separazione della
gestione del risparmio da quella degli investimenti, tenendo conto del sia pur
deludente esperimento messo in atto negli USA con la Volker rule e soprattutto puntando sul più innovativo Rapporto
Liikanen
h. Proibizione delle
società veicolo e progressivo azzeramento dello shadow banking, oltre alla
fissazione di un limite massimo per la leva finanziaria
i.
Nazionalizzazione
delle banche centrali, che devono assumere anche la funzione di prestatori di
ultima istanza per i governi
j.
Istituzione
di agenzie di rating europee
k. Aumento della tassazione
sulle rendite finanziarie e abbassamento delle tasse che incidono sulla
riconversione ecologica e sui livelli occupazionali
l.
Aumento
della progressività delle imposte dirette, sul reddito e sul patrimonio,
specialmente finanziario
m. Controllo dei movimenti
di capitale a livello nazionale
n. Politiche fiscali
espansive per rilanciare lo stato sociale e ridurre la disoccupazione; presumo
si tratti di politiche di aumento della spesa pubblica, eventualmente con
aumento del deficit (non sarebbe un problema, una volta ridotto il debito e
nazionalizzata la banca centrale); senonché leggo che “la riduzione del deficit
pubblico… può essere per esempio utilizzata per rilanciare l’attività economica
e la spesa pubblica” (p.232); o è un errore di traduzione o è la lezione di
Monti
4. Particolare attenzione
viene riservata alla Cassa Depositi e
Prestiti. Vari capitoli toccano l’argomento, ma quello di Bersani lo
approfondisce quanto basta per giustificarne una radicale riforma. La proprietà
deve essere pubblica, anche formalmente. Non più una SpA, fosse anche a
maggioranza statale, bensì un ente di diritto pubblico. La giustificazione
scientifica di fondo sembra essere quella avanzata da Stiglitz per il settore
bancario nel suo complesso: l’esistenza di forti asimmetrie informative che
impediscono una reale tutela dei risparmiatori da parte dei gestori privati. Ma
c’è di più: il governo dovrebbe territorializzare il controllo della CDP per
farla usare in modo partecipativo dalle comunità locali. Potrebbe così
sostenere investimenti finalizzati a:
a.
Riappropriare
collettivamente i beni comuni e i servizi pubblici
b. Tutelare il territorio,
il patrimonio pubblico, gli edifici scolastici
c. Realizzare opere
pubbliche
d. Garantire il diritto
all’abitare
e.
Favorire
l’occupazione e la riconversione della produzione in direzione dell’economia a
km zero
f.
Sostenere
le aziende in crisi, con priorità agli esperimenti di autogestione operaia che
contrastano i processi di delocalizzazione
g. Sostenere i processi di
riconversione energetica finalizzati al risparmio energetico e
all’autoproduzione diffusa di energia pulita e rinnovabile
h. Sostenere i processi di
riconversione del trasporto urbano ed extra-urbano in direzione di una mobilità
pulita e sostenibile.
5. Un ampio capitolo
(Viale) riassume i provvedimenti per la politica
ambientale e propone un “nuovo paradigma” di politica industriale che
realizzi:
a.
La
decrescita
b. La salvaguardia degli
equilibri e della sostenibilità ambientali
c. La ripresa
dell’occupazione soprattutto nei settori di rilevanza ecologica
d. La riqualificazione
ecologica dei consumi
e.
Una
gestione congiunta di produzione e consumi con la partecipazione diretta delle
comunità coinvolte
f.
La
rinuncia alle economie di scala generate dai grandi impianti per privilegiare
il decentramento e la differenziazione territoriale
g. L’autoproduzione
energetica da parte delle comunità locali usando un mix di fonti rinnovabili
h. Una gestione efficace dei
rifiuti basata sulla raccolta differenziata, il recupero degli scarti e la
prevenzione
i.
La
sicurezza alimentare basata sull’agricoltura biologica, la salvaguardia della
biodiversità e la distribuzione a km zero
6. Per i provvedimenti di rilevanza sociale si distinguono gli interventi di Malabarba e
Gesualdi, che prevedono:
a.
Il
sostegno pubblico alle iniziative operaie di autogestione
b. Una drastica riduzione
dell’orario di lavoro senza riduzione del salario
c. Il soddisfacimento a
prezzi nulli di bisogni fondamentali quali acqua, cibo, trasporti, alloggio,
energia domestica, sanità, istruzione, comunicazioni
d. Lo sviluppo di un terzo
settore che assicuri gli elementari servizi alla persona col lavoro volontario
e.
Una
sorta di tassazione del lavoro (invece che del reddito) con un servizio civile
obbligatorio per tutti i giovani, in cambio del quale si otterrebbe il diritto
a percepire
f.
Un
reddito di cittadinanza perpetuo
7. Infine c’è un tema su
cui insistono un po’ tutti i capitoli: La democrazia
partecipativa. Forse sarebbe stato utile dedicare un capitolo all’approfondimento
del problema, perché non ci viene detto nulla su come dovrebbe essere
strutturata questa democrazia: comitati locali di cittadini che decidono l’audit,
i consumi, gli investimenti, i finanziamenti per le iniziative comunali? web-democrazia alla Casaleggio? democrazia
referendaria? mandati elettorali imperativi con diritto di revoca? abolizione
della politica professionale? Ma capisco che forse non sarebbe bastato un solo
capitolo. Mi aspetto dunque che le Edizioni Alegre dedichino un prossimo impegno
a questo fondamentale problema.
Ecco
dunque, in estrema sintesi, la proposta presentata in questo libro per uscire
dalla crisi. Forse ho trascurato qualche idea, forse ne ho travisate altre. E
può darsi che gli autori si lamenteranno per il modo sbrigativo con cui ho
tagliato le analisi con cui hanno cercato di giustificare le varie idee. Ma
credo di aver fatto un servizio al lettore proprio con la sinteticità della mia
ricostruzione. Ora voglio fargliene un altro portando alla luce vari problemi
che gli autori non trattano o non trattano in modo esauriente. Non vuole essere
una critica, piuttosto un contributo al chiarimento e all’approfondimento.
La gabbia dell’eurocrazia
C’è un
problema politico cha grava come un macigno su ogni proposta di trasformazione
della società europea, e non è solo quello dell’euro, cioè di una moneta che
genera divergenze dei saldi delle bilance commerciali e dei tassi di crescita e
di disoccupazione tra i paesi “virtuosi” e quelli “non virtuosi”. È che la
politica monetaria e la politica fiscale sono state sottratte ai governi
nazionali, le politiche industriali e sociali sono considerate peccati mortali,
le politiche di privatizzazione virtù teologali.
C’è
qualcuno che pensa di poter realizzare anche soltanto una minima parte delle
proposte di cui sopra senza rompere la gabbia eurocratica? Senonché tutti i
capitoli del libro svicolano, a dir poco, su questo problema. Prendiamo Viale.
Passa in rassegna tre ricette, che sono state proposte da vari riformatori, e
le giudica tutte inadeguate o irrealizzabili. Condivido in gran parte le sue
argomentazioni, e cercherò anzi di arricchirle con qualche considerazione
personale che forse lui non condividerà.
La
prima ricetta è proposta dal gruppo che potremmo definire degli euro-illusi, coloro che sperano in “un
allentamento dei vincoli imposti alla spesa pubblica dall’UE e dalla BCE”, un
sottoinsieme del quale gruppo è costituito dai super-illusi, coloro che sperano che la Germania si decida a fare
la locomotiva dell’economia europea adottando politiche fiscali espansive che
azzerino il surplus del suo conto corrente così aiutando i paesi non virtuosi
ad azzerare i loro deficit. Perché illusi? Perché le attuali classi politiche
europee, di centro-destra e di centro-sinistra, sono così imbevute di ideologia
neoliberista che la possibilità di quell’allentamento dell’austerità non
rientra nelle loro capacità intellettuali. Perché, a parte le ideologie, quelle
classi politiche sono così legate agli interessi del grande capitale,
finanziario e industriale, che verrebbero sfiduciate non appena osassero solo
proporre un abbandono delle politiche d’austerità finalizzato alla
redistribuzione del reddito e del carico fiscale a favore delle classi
subalterne. Perché il blocco capitalistico dominante in Europa, quello tedesco,
non accetterà mai una politica che rilanci occupazione e salari a detrimento
del suo profitto e del suo potere.
La
seconda ricetta è quella proposta dai protezionisti,
coloro che s’illudono di poter usare barriere tariffarie e non tariffarie per
difendere l’economia nazionale dalla concorrenza sleale (dumping sociale,
fiscale, ambientale, civile) dei paesi emergenti. “È ovvio che da una politica
del genere, che solleverebbe le ritorsioni dei paesi colpiti dalle nuove
barriere doganali, l’economia italiana, che dipende da molte importazioni
irrinunciabili, avrebbe da perdere ben più che da guadagnare”. Troppo tenero è
Viale con i protezionisti. Il vero problema è che buona parte delle
esportazioni italiane vanno in Europa, cosicché le ritorsioni più forti
verrebbero dai nostri partner europei, i quali non avrebbero da fare nulla per
contrastare quel tipo di politica dell’Italia. Basterebbero gli euro-burocrati
per far fioccare multe e procedure d’infrazione e autorizzare politiche
ritorsive che metterebbero in ginocchio la nostra economia. Ai protezionisti si
porrebbe dunque il problema dell’uscita dall’Unione. Il che ci porta ad
affrontare la terza ricetta.
Quella
proposta dai sovranisti, coloro che
vogliono uscire dall’euro, in modo da poter svalutare la lira e recuperare
sovranità monetaria e fiscale. Viale considera un’illusione anche quest’idea,
ma non ci spiega perché, a parte un’osservazione sul fatto che “i costi
operativi di una misura del genere adottati unilateralmente sarebbero molto
alti”. In altri capitoli si tocca l’argomento e in tutti si rifiuta l’opzione
sovranista, ma con argomentazioni piuttosto deboli. Un problema, secondo
Bertorello e Corradi, sarebbe che, se l’Italia svalutasse, si scatenerebbe una
guerra di svalutazioni competitive. Ma questo sta già accadendo. Da più di un
anno siamo in piena guerra valutaria mondiale, con gli Stati Uniti, la Gran
Bretagna e il Giappone che hanno svalutato pesantemente i loro cambi nominali,
e i paesi dell’Unione Europea che continuano a deprezzare i loro tassi di
cambio reali (politiche recessive alla Monti, per recuperare competitività
riducendo il costo del lavoro e aumentando lo sfruttamento). Un altro problema,
sempre secondo Bertorello e Corradi, sarebbe che la svalutazione farebbe
aumentare l’inflazione e diminuire i salari reali. Ma i salari reali stanno già
diminuendo in Italia ed Europa proprio a causa del deprezzamento reale. Perciò
i sovranisti avrebbero un argomento forte a loro favore: il deprezzamento reale
fa diminuire i salari reali e l’occupazione, la svalutazione nominale fa
diminuire i salari reali e la disoccupazione. Dunque se siamo in piena guerra
valutaria mondiale, tanto vale combattere ad armi pari, direbbero i lavoratori…
e i padroni.
I
problemi dell’uscita unilaterale dall’euro sono altri. Innanzitutto
bisognerebbe mettere in conto un approfondimento della crisi dal momento in cui
i mercati cominciassero a sospettare che il partito sovranista potrebbe vincere
le elezioni al momento in cui verrebbe svalutata la lira: fughe di capitali e
di liquidità, tesoreggiamento degli euro con sospensione dei pagamenti e
riduzione della domanda aggregata, deflazione dei prezzi, aumento degli spread
(a meno che il debito pubblico non sia stato già ristrutturato e la banca
centrale nazionalizzata). Questo periodo di catastrofe potrebbe essere
piuttosto lungo (anche più di due anni) o molto breve. Dipende dall’abilità di
Berlusconi (il probabile leader del futuro partito sovranista). In secondo
luogo, l’effetto immediato della svalutazione è di aggravare il deficit del
conto corrente, essendo le elasticità delle esportazioni e delle importazioni piuttosto
basse nel breve periodo: le quantità esportate e importate non reagiscono
prontamente alle variazioni dei prezzi relativi poiché ci vuole un po’ di tempo
per modificare abitudini di consumo e tecniche produttive. In terzo luogo, dopo
l’impatto negativo iniziale, la svalutazione potrebbe rilanciare le
esportazioni e frenare le importazioni, contribuendo così alla ripresa della
produzione, ma nell’arco di un anno o due produrrebbe una rilevante inflazione
che porterebbe a ridurre le esportazioni, cosicché sarebbe necessaria una
seconda svalutazione e successivamente una serie di altre svalutazioni. Senza
contare che i nostri partner europei non starebbero a guardare. Come minimo si
sentirebbero in dovere di mettere in atto misure ritorsive di tipo protezionistico.
Quanto
all’inflazione, il governo potrebbe limitarla molto, ma non si vede perché
dovrebbe farlo. Una ragione per cui la svalutazione piace ai padroni è proprio
questa: che l’inflazione importata redistribuisce reddito dai salari ai
profitti. Comunque, se volesse, il governo potrebbe farlo, ad esempio
attaccando i salari (coma sta facendo Abe in Giappone). Berlusconi lo farebbe,
un sovranista di sinistra non potrebbe. Tuttavia c’è anche un modo per evitare
gli effetti inflattivi di una svalutazione senza colpire i salari: detassare
massicciamente i prodotti energetici e le materie prime d’importazione oltre al
costo del lavoro. Dunque bisognerebbe sperare che l’uscita sovranista venisse
attuata da un Comitato di Liberazione Nazionale invece che da Berlusconi.
In
conclusione, l’opzione sovranista è poco attraente. Ma non bisogna trascurarla,
se non altro perché, come osserva Viale, “è sempre più probabile che… l’euro
sia destinato prima o dopo a dissolversi, per lo più in forme disordinate”. Io
la terrei come piano B.
C’è
un piano A? Nel libro non se ne parla. Viale stesso è molto ermetico al
riguardo. Sembrerebbe credere che il suo “nuovo paradigma” possa essere
sufficiente per far uscire l’Italia dalla crisi senza uscire dall’euro.
Comunque, se usciamo dal seminato del libro possiamo forse farci un’idea più
precisa delle idee di Viale: il suo appoggio alla lista Tsipras per le elezioni
europee è basato esplicitamente sull’opzione di restare dentro l’euro per
forzare una rinegoziazione dei trattati
e un cambiamento delle istituzioni. Se ci crede, buon viaggio. Ma mi domando:
come fa allora a considerare illusi quegli euro-illusi che pretendono molto
meno di quanto spera lui?
Vorrei
aggiungere che le politiche industriali e ambientali che lui propone, oltre a
molte altre riforme prospettate nel libro, devono passare per l’attuazione di
provvedimenti che il WTO e gli euro-burocrati considerano protezionistici.
Vengono sanzionate come barriere non tariffarie le politiche che mirano a determinare
amministrativamente il valore delle transazioni (ad es. bollette sussidiate),
il numero dei dipendenti (ad es. per favorire l’occupazione), il numero e il
tipo di fornitori (ad es. imprese nazionali), il tipo di soggetto legale che
gestisce la produzione (ad es. imprese no-profit o cooperative sociali), tutte cose
che si trovano in contrasto con la regola WTO dell’Accesso al mercato, che l’Italia e i paesi europei hanno
sottoscritto. E vengono sanzionati anche
i provvedimenti che impongono agli investimenti dei requisiti di contenuto locale, di occupazione
locale, d’esportazione, di bilancia commerciale, di trasferimento tecnologico,
di azionariato locale, oltre alle restrizioni agli scambi valutari e alle
esportazioni di profitti. Non parliamo del controllo dei movimenti di capitale
e della nazionalizzazione delle banche.
Peraltro,
basterebbe solo il tentativo di realizzare un punto qualificante delle proposte
per rendere necessaria una forte politica protezionistica: la riduzione
drastica dell’orario di lavoro senza riduzione dei salari. Il costo del lavoro
schizzerebbe alle stelle, le esportazioni si ridurrebbero severamente e a molte
nostre importazioni essenziali dovremmo rinunciare. Dovremmo tornare a bere il
caffè di cicoria. E come pagheremmo i pannelli fotovoltaici che importiamo
dalla Cina? Forse dovremmo rinunciare anche a una forte politica di
riqualificazione energetica. A meno che non torniamo alle pompe idrauliche a
mano e ai generatori elettrici a pedali.
Mi spiegate dunque, cari compagni attacchini,
come farete ad attuare le vostre riforme se non siete pronti a sostenere una
dura guerra economica con il resto dell’Europa e del mondo? E se foste disposti
a impegnarvici, mi spiegate come potreste vincerla con le forze economiche di
un paese piccolo come l’Italia?
Faccio
osservare che i paesi che si sono impegnati con qualche successo in una guerra
del genere, cercando di ottenere tutti i vantaggi possibili dalla
globalizzazione e riducendone gli svantaggi con delle politiche industriali o
commerciali o valutarie, hanno dimensioni continentali (Cina, India, Brasile,
Indonesia, USA). Le dimensioni contano perché solo un mercato interno molto
grande può assicurare al governo l’efficacia delle politiche economiche e alle
imprese le economie di scala che consentono la crescita della produttività e il
mantenimento della competitività. Viale non ama le economie di scala e le
grandi dimensioni. Ma allora mi dovrebbe spiegare come faremmo a produrre
pannelli fotovoltaici competitivi con quelli cinesi e con cui sostituire le
importazioni.
Tutto
ciò vuol dire che un piano A con qualche speranza di successo deve contemperare
due esigenze: rompere la gabbia dell’eurocrazia e conservare una dimensione
economica continentale. Avete pensato a un’Unione Monetaria Latina? Verso la
fine dell’Ottocento e i primi del Novecento fu sperimentata con qualche
successo. Oggi dovrebbe essere un’unione non solo monetaria. Ma non posso
approfondire un discorso del genere in un articolo come questo, che dopotutto è
poco più che una recensione.
È tutta colpa del postfordismo?
Una
proposta credibile per uscire dalla crisi presuppone una corretta analisi della
crisi stessa. Ora, non è che in questo libro non ci siano elementi di analisi.
Il problema è che ce ne sono troppi, alcuni validi, altri discutibili, non
tutti coerenti. Mi soffermerò solo su due degli approcci che mi sembrano meno
convincenti. Il primo richiama la narrazione postfordista, una delle classiche
cantonate ideologiche della sinistra.
Questa narrazione si era affermata negli anni ’70 e ’80, e imperversa
ancora oggi, sebbene sia ormai passata un po’ di moda. Nel libro compare più o
meno velatamente, ma per fortuna non molte volte. Bertorello e Corradi ad
esempio ci spiegano che dopo l’epoca degli aumenti salariali degli anni ’60 e
’70, “seguì un progressivo ingolfamento della crescita, dovuto a una
tendenziale saturazione dei mercati e al prevalere di merci di sostituzione
piuttosto che al diffondersi di nuovi prodotti”. È una versione del
postfordismo: per ragioni tecnologiche il ciclo del prodotto entra nella fase
di flessione e ciò genera depressione economica, ovvero “un’impasse da
sovrapproduzione di merci”. Così abbiamo mercati dominati da “una minoranza di
consumatori che, nell’arco di qualche decennio, avevano sostanzialmente
acquistato già tutto” (Bersani).
Un’altra
versione della narrazione postfordista è quella incentrata sul toyotismo, la
lean production, la flessibilità produttiva, la fine del taylorismo e della
produzione di massa. La produzione flessibile – narra la favola – richiede lavoro flessibile. La classe operaia
viene smembrata e disarticolata. Il monte salari diminuisce e di conseguenza i
consumi di massa ristagnano. Anche per questa via si giunge a dare una
giustificazione tecnologica alle tendenze depressive delle economie avanzate.
Così
le crisi si spiegherebbero come crisi da sovraccumulazione e sovrapproduzione,
e la finanziarizzazione come l’escamotage monetario con cui il capitale
tenterebbe di fare comunque profitti depredando il mondo con i movimenti di
capitale speculativo invece che con la produzione di plusvalore.
Sarebbe
ora che la sinistra si rendesse conto che l’ideologia del postfordismo è stata
la razionalizzazione consolatoria di una sconfitta di classe, quella sconfitta,
tutta politica, consumata negli anni ’70 e ‘80, e di cui trattano molto
accuratamente gli stessi Bertorello e Corradi. In quell’epoca il capitale è
passato al contrattacco, col thatcherismo, il reaganismo, il neoliberismo, la
stagflazione etc. etc. Gli operai ne sono usciti con le ossa rotte: più
flessibili, più precari, più sfruttati, più poveri, più disoccupati. I filosofi
del postfordismo hanno poi cercato di convincerli che non si è trattato di una
sconfitta politica, ma solo delle conseguenze inevitabili di un’evoluzione
tecnologica.
Se
si capisce ciò, si comprende che l’ulteriore torchiatura consumata a partire
dagli anni ’90 è anch’essa la conseguenza di una sconfitta politica, questa
però ottenuta con l’imperialismo globale delle multinazionali, il WTO, il
Washington consensus, la troika e le “riforme” dei figli di troika, che hanno
creato le condizioni per mettere la classe operaia di ogni paese in
competizione con quelle di tutti gli altri, e quella del Nord del mondo in
competizione con quelle dei paesi emergenti e in via di sviluppo. In
quest’ottica, la superfetazione finanziaria verificatasi negli ultimi vent’anni
non va vista come un tentativo disperato del capitale di sopravvivere alla
sovraccumulazione, bensì come la conseguenza di precise scelte politiche messe
in campo dalle principali potenze economiche mondiali, gli Stati Uniti in
primis, per perpetuare la propria egemonia globale, e come un metodo usato dal
capitale per disciplinare gli stati e gli operai con la crisi.
O è tutta colpa della finanziarizzazione?
Due anni
fa uscì un libro scioccante intitolato Uscite
di sicurezza. Scioccante perché conteneva un attacco ferocissimo e molto
ben argomentato al capitale finanziario e al “fascismo bancario”. Un libro che
sembrerebbe scritto da un militante di occupy
Wall Street, e quindi scioccante anche per il nome dell’autore: Giulio
Tremonti. Sì, proprio lui, il ministro dell’economia di Berlusconi e membro
dell’Ecofin. Ma a pensarci bene, la cosa non è poi così strana. Tremonti è un
economista di orientamento neokeynesiano e un politico ex-socialista. Scrivendo
quel libro non faceva altro che riproporre una vecchia litania del riformismo
italiano: lotta dura senza paura… contro la “rendita finanziaria”, non certo
contro il capitalismo.
Ebbene,
a leggere attentamente Come si esce dalla
crisi si ha talvolta l’impressione di non essersi poi allontanati troppo da
quella litania. Il nemico è sempre la rendita finanziaria, ora ribattezzata
“finanza ipertrofica”. Il capitale finanziario è responsabile dell’aumento
delle disuguaglianze e dell’esplosione della crisi, dell’impotenza dei governi,
dell’inefficacia delle politiche fiscali, dell’impossibilità di attuare
politiche keynesiane per la piena occupazione etc. etc.
Esemplare
il capitolo scritto da Tricarico, il quale ci spiega che oggi “Keynes non
basta” in quanto il libero movimento dei capitali finanziari rende inefficace
ogni politica monetaria espansiva, anzi, la rende “controproducente, poiché la
liquidità, per altro già in eccesso sul pianeta, tenderebbe a spostarsi dove è
possibile un’accumulazione con ritorni maggiori”. Giusto. Tricarico ha ragione,
e la sua analisi non fa una pecca. Ma è parziale: guarda solo una faccia della
medaglia. L’altra faccia è la politica fiscale. È a questa che Keynes
attribuisce la maggiore efficacia del management macroeconomico, non alla
politica monetaria. La vera ragione per cui le armi keynesiane sono oggi
spuntate è che in una piccola economia aperta ogni politica fiscale espansiva
crea occupazione più all’estero che all’interno e aggrava il deficit del conto
corrente, facendo così aumentare il debito estero (pubblico e/o privato), a
meno che non sia protetta da un cambio sottovalutato, come in Germania. Inoltre
il libero movimento dei capitali non riguarda solo gli investimenti di
portafoglio, quelli praticati dalle imprese finanziarie con finalità
speculative, riguarda anche gli investimenti diretti esteri, quelli reali,
quelli che si risolvono in processi di delocalizzazione. Ne deriva che una
politica keynesiana espansiva che fa aumentare l’occupazione, anche se di poco,
fa crescere i salari e il costo del lavoro e quindi spinge le imprese a
delocalizzare.
Più
in generale pare che alcuni autori non abbiano capito bene qual è il nocciolo
del problema, non abbiano compreso che le difficoltà fondamentali non sono
quelle causate dal capitale finanziario e dagli investimenti di portafoglio. E
ha ragione Bersani quando osserva: “appare poco corretto attribuire l’attuale crisi
alla finanza; quest’ultima è stata invece la leva che ha permesso al modello
capitalistico di posticipare di altri trent’anni la propria crisi, consentendo
nel frattempo la realizzazione di enormi profitti”. Ha ragione se intende dire
che le cause di fondo della crisi sono reali e non monetarie, e attengono agli
effetti della globalizzazione produttiva e commerciale sulla crescita e la
distribuzione del reddito nei paesi avanzati.
Tuttavia
non c’è dubbio che la finanza speculativa ha dato il suo contributo all’innesco
e all’esasperazione della crisi in corso, come di tutte le crisi della
globalizzazione già negli anni ’90. E ha certamente contribuito anche
all’aumento della concentrazione della ricchezza. Ma il primum movens della globalizzazione contemporanea e delle tendenze
depressive in cui si trovano intrappolate le economie avanzate è il capitale
industriale. I primi attori dei processi di delocalizzazione e di
redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale e dal Sud al Nord del mondo
sono le imprese multinazionali manifatturiere. Se non si capisce questo, non si
riesce a individuare il vero nemico, non si riesce a cogliere il senso della
spietata lotta di classe che è oggi in corso nel mondo. E quindi si continua a
riproporre la litania riformista del contrasto alla rendita finanziaria, invece
che la guerra contro il capitale. E si rischia di proporre un programma
politico che, per quanto molto avanzato, non va al cuore del problema.
Peraltro
ci sono proposte in questo libro che non sono realizzabili se non si supera il
modo di produzione capitalistico. Ad esempio si auspica la decrescita,
presumibilmente felice. Ma come si fa a riassorbire la disoccupazione se il PIL
non cresce? Semplice: riduzione dell’orario lavorativo (a salari invariati). C’è
qualcuno che pensa che una cosa del genere sia possibile finché la produzione è
dominata dall’impresa capitalistica? Poiché l’obiettivo della produzione è la
massimizzazione dei profitti, e visto che il costo del lavoro assorbe una parte
consistente del valore aggiunto, l’impresa cerca di minimizzare i costi
allungando la giornata lavorativa e intensificando lo sfruttamento. Se il PIL
cresce meno della produttività del lavoro, la conseguenza è che aumenta la
disoccupazione e la miseria. Insomma nel capitalismo la decrescita è
necessariamente infelice per le classi subalterne, per la stragrande
maggioranza della popolazione.
Per
fortuna ci sono i capitoli di Malabarba,Viale e Gesualdi che elevano le
ambizioni politiche delle proposte. Tutti e tre questi capitoli infatti vanno
oltre la critica al capitale finanziario, tutti e tre pongono un problema di
“cambiamento di paradigma”, tutti e tre contribuiscono a configurare un sistema economico alternativo al
capitalismo e farci capire che oggi si può realmente uscire dalla crisi solo se
si è capaci di mettere in campo l’avvio di un processo di superamento del modo
di produzione capitalistico. Certo, anche loro si sono lasciati un po’
condizionare dalla timidezza politica attacchina. E sembra che anche loro, come
tutti gli altri autori, abbiano paura di usare le parole giuste. In tutto il
libro non ho trovato mai una frase che parlasse apertamente di lotta di classe
o di socialismo. E la parola “rivoluzione” compare solo accompagnata da
aggettivi alla vaselina: “culturale”, “copernicana”…
Infine
c’è un problema di strategia, che è forse il più importante. Siamo sicuri che
basterà gettare dei granelli di sabbia per far inceppare la macchina del
capitale globale, per fermare la valanga di macigni scatenata negli ultimi
trent’anni dalle imprese multinazionali, dai grandi organismi economici
internazionali e dalle classi politiche nazionali? Eppure in nessun paese come
in Italia è diventata chiara l’inefficacia della strategia del granello di
sabbia. Qui importiamo beni made in Italy prodotti in Polonia e Cina, e molte
fabbriche chiudono una dopo l’altra non perché producono in perdita ma perché
guadagnano meno profitti di quanti ne ottengono delocalizzando. Qui da noi
neanche decine di milioni di granelli di sabbia sono riuscite (con i referendum
sul finanziamento pubblico ai partiti e sull’acqua, ad esempio) a indurre la
classe politica a servire il popolo invece che il capitale e se stessa. C’è
qualcuno che pensa di poter realizzare le riforme proposte nel libro senza una
rivoluzione che, tanto per cominciare, mandi a casa tutta l’attuale classe
politica berlurenziana?
Insomma,
cari compagni attacchini, permettetemi di dirvelo con le parole del Divin
Marchese: “Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani!”
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