Pubblichiamo la traccia della mia presentazione del libro a Roma in una splendida cornice. Grazie all'amico Alberto e ad Asimmetrie. Splendidi i/le ragazz* di L'intellettuale dissidente. A breve il video a cura di ByoBlu, grazie anche al loro.
Il libro nasce
da una conferenza a Friburgo, la patria dell’ordo-liberismo tedesco, in cui
cercavo di spiegare agli amici tedeschi che le responsabilità del mancato
funzionamento dell’euro, almeno dal nostro punto di vista, non erano imputabili
solo all’Italia, ma forse soprattutto alla Germania. In un certo senso questa è
un’affermazione contraddittoria, in quanto l’euro gli italiani se lo sono
cercato e hanno aiutato attivamente a disegnarlo. L’euro è il culmine, a ben
vedere, del nuovo regime di politica monetaria ispirato e impostato da
esponenti come Andreatta e la sua corte bolognese (Prodi, Onofri, Basevi fino a
Enrico Letta), con il contributo fattivo della Banca d’Italia post-Baffi e
della crescente influenza bocconiana. Cos’è questo nuovo regime?
Nel libro prendo
le mosse un pochino indietro, dal fallimento dell’Italia del miracolo economico
nell’incontrare le esigenze di giustizia distributiva e di modernizzazione del
Paese. Il tentativo riformista agli inizi degli anni sessanta ci fu, ma fallì
presto. Già nel 1963 si udì il “tintinnio di sciabole”, e le prime lotte
operaie furono stroncate con la stretta creditizia. Il conflitto riesplose
negli anni settanta governato in un qualche modo dal modello
inflazione/svalutazione e dall’espansione della spesa pubblica con il livello
del debito tenuto sotto controllo da tassi di interesse reali negativi. La
stabilità dei prezzi fu simbolo e vittima di un irrisolto conflitto
distributivo.
Attraverso lo
SME e poi col divorzio (il ben noto colpo di Stato bianco di Andreatta e Ciampi),
il nuovo regime intese porre disciplina al sistema. Il modello degli anni
ottanta fu però contraddittorio: il combinato disposto della perdita di
competitività esterna e del sostegno alla domanda interna da parte di governi che
avevano ancora in mente la crescita, e gli elevati tassi che ne conseguirono,
fece due vittime, in parte sovrapposte: il debito pubblico e il debito estero.
Negli anni
ottanta, dalla sconfitta operaia alla Fiat, il conflitto di classe, almeno
quello tradizionale operai-capitale era sedato; probabilmente non quello che
proviene dalla borghesia parassitaria. La svalutazione del 1992 fece, nelle
parole del prof. Paolo Onofri, “tirare il fiato” a un’economia esausta. La firma
del Trattato di Maastricht da parte di chi, come Guido Carli, aveva
consapevolezza piena delle conseguenze, diede la possibilità al “nuovo regime”
di riaggiustare il modello anni ottanta rendendolo coerente attraverso l’accoppiata
di disciplina esterna e, questa volta, anche interna. Dal 1991 la politica
fiscale si fa infatti coerente e restrittiva. Paradossalmente, la
liberalizzazione dei movimenti di capitale e gli elevati tassi di interesse
portarono il rapporto debito-Pil a esplodere ulteriormente nella prima metà
degli anni novanta. Solo con la prospettiva dell’adesione alla moneta unica i
tassi cominciano a diminuire e questo aiutò la riduzione di quel rapporto di
circa 25 punti percentuali. Vittime del combinato disposto di un tasso di
cambio che si fa progressivamente meno competitivo e della disciplina fiscale
sono la crescita e, in particolare, la crescita della produttività.
A differenza
delle storie che ci raccontano il dott. Carlo Cottarelli e la Banca d’Italia, è
nella macroeconomia, nella stagnazione della domanda aggregata, che vanno
trovati i semi della stagnazione italiana. Ma questo Aberto sono anni che cerca
di spiegarvelo. Anche oggi, senza una ripresa della domanda interna – e sperando
che con un euro competitivo quella esterna continui a tirare - non c’è speranza
di crescita. Poi si potrà e dovrà agire sull’offerta (cosa che costa soldi
poiché non si fanne lo nozze coi fichi secchi).
Una storia di
ieri? Forse sì, ma il messaggio per l’oggi che vorrei dare è che il Paese è
finito in questa, che ormai molti consideriamo una trappola, per un grave
fallimento istituzionale: aver cercato nella disciplina esterna il surrogato di
un compromesso sociale interno. Possiamo risalire alle responsabilità, se di
una borghesia assai poco illuminata o di un partito comunista non evoluto in
uno socialdemocratico, se non più tardi e in forma di farsa (il giovane Salvati
propendeva per la prima tesi, il Salvati maturo dà tutta la colpa al PCI). Certo
che oggi, se siamo da un lato consapevoli che il Paese ha pagato la disciplina
esterna immolando la crescita, il problema di un nuovo compromesso sociale si
continua a porre, e in una situazione in cui il tessuto sociale non è più
quello fordista, ma è più disperso e disarticolato. Ma il problema di un ridisegno
riformista del Paese continua a porsi. Qui lo spazio per la sinistra vi
sarebbe. Ma in primo luogo essa dovrebbe discutere delle sue gravi
responsabilità sul pregresso. E dovrebbe rimettere il proprio popolo al centro.
Mi sono
dilungato su questo proprio perché va mutata l’immagine che vuole noi critici
dell’euro solo volti a dare la colpa agli altri, all’euro e alla Germania in
particolare. Nel libro si spiega ancora una volta, naturalmente, come l’euro
sia stato costruito in violazione di quanto la teoria economica suggeriva – la
famosa teoria delle aree valutarie ottimali – ma perfettamente in omaggio alle
“nuove” teorie monetariste della necessità di “legarsi le mani” tempestivamente
messe a punto dagli economisti bocconiani. Così come si ripercorre la natura
del modello mercantilista tedesco che è il vero cancro della stabilità
economica europea e mondiale - come ben sintetizzano Guerrieri e Padoan in un
passo del 1986 che cito da qualche parte, e come la guerra commerciale con gli
USA in cui Berlino ci sta trascinando ulteriormente dimostra.
Nel libro denuncio
come la Germania abbia sempre guadagnato nell’euro: prima della crisi sia alimentando
le bolle immobiliari nella periferia europea che le spese governative greche alo
scopo di incrementare le proprie esportazioni intra-europee; successivamente
usufruendo nella crisi dell’euro debole per incrementare quelle extra-europee;
e poi godendo di tassi di interesse negativi sul proprio debito pubblico in
seguito alla fight to quality prima e
alle politiche accomodanti della BCE poi. Fight
to quality mentre il debito pubblico italiano veniva lasciato massacrare
dall’inerzia della BCE pre-Draghi, mentre la Germania aveva salvato nel 2008 le
proprie banche a suon di centinaia di miliardi di euro. Banche speculative e
protagoniste della famosa crisi americana dei “mutui subprime”, mentre si
vorrebbero ora massacrare le nostre banche, che fanno le banche.
Di esempi di
doppia morale nel libro ne ricordo svariati, dal condono del debito di guerra
tedesco a fronte della rigidità di Berlino verso i debito altrui. Naturalmente
la violazione del gioco più macroscopica è quella della regola che rende una
unione monetaria sostenibile: il Paese leader ha l’onore e l’onere di tirare la
carretta, sostenendo la propria domanda interna a costo di una inflazione
superiore alla media. Mundell nel 1961 predisse chiaramente che la Germania non
l’avrebbe mai fatto. Paolo Baffi lo capì, come capì che senza svalutazione
esterna, la svalutazione interna ci sarebbe costata cara, disoccupazione e
distruzione di capacità produttiva. Le due svalutazioni non sono equivalenti.
Un monetarista americano lo capisce benissimo. Un giornalista economico
italiano no.
Il punto finale
del libro riguarda, naturalmente, la domanda se le regole che l’Ume si è data
possono cambiare. Togliamoci in primo luogo di testa una volta per tutte che
un’Europa federale progressista sia possibile. I Paesi nordici non la vogliono
perché sanno che una maggioranza franco-meridionale imporrebbe loro
trasferimenti fiscali verso il sud. Hanno letto Hayek 1939. Bonino-Boldrini no,
evidentemente. E poi ve la immaginate la Merkel concedere qualcosa col fiato
sul collo dell’AFD e dei democristiani bavaresi (la stessa cosa vale nei
riguardi del tema immigrazione sui cui solo gli sciocchi possono pensare a una
solidarietà europea). Nel libro spiego
la mentalità iper-nazionalista degli economisti tedeschi, vere anime nere
dell’ideologia ordo-liberista che permea la mentalità dominante di quel Paese.
Noi sappiamo cosa dovremmo fare per sollevare l’Europa, afferma uno dei più
noti economisti tedeschi, ma non conviene alla Germania. Chiuso il discorso.
Sulle riforme
attualmente in discussione, Schauble col famoso non-paper si è fatto beffe
delle pur timide proposte di Macron (un irrilevante fondo europeo anticiclico).
Cosa vuole la Germania? Il loro ragionamento è semplice: la stabilità dell’euro
si basa sulla disciplina fiscale. Essa è assicurata dalla disciplina dei
mercati e dalle regole fiscali. Ambedue non avrebbero funzionato
efficientemente. La disciplina dei mercati, che si esplica attraverso i tassi
di interesse, va rafforzata minacciandoli che se essi non la esercitano, in
caso di salvataggi europei vi sarà una ristrutturazione dei debiti con tagli
dei crediti privati. Questo potrebbe portare (come già fece nell’ottobre 2010)
a un rialzo dei tassi sul nostro debito. Le regole di bilancio si vorrebbero
irrigidite nel senso di sottrarle al giudizio, considerato troppo politico,
della Commissione, e assegnate a un Fondo monetario europeo [a un rafforzato
EMS, il fondo salva-Stati, secondo le notizie dal vertice franco-tedesco del
19/6] con poteri estremamente intrusivi nei riguardi dei bilanci e delle prerogative
parlamentari nazionali [il vertice ha anche varato un piccolo budget
anti-ciclico, si tratta di cose ridicole di cui si parla nel libro e in altri
interventi]. Il veto italiano alle proposte sul debito dovrebbe costituire una
linea del Piave nazionale - ma il
manifesto ha goduto della fine del QE, dimostrando la pochezza, anzi la
bassezza anti-italiana di gran parte della sinistra. C’è qualcosa che potremmo
proporre di alternativo? Già dal 2010 con centinaia di economisti proponemmo
l’obiettivo della stabilizzazione del rapporto debito/Pil come target
plausibile. Con tassi di interesse sufficientemente bassi (il che richiede un
impegno europeo che è l’opposto del terrorismo appena esposto), questa
stabilizzazione è coerente con disavanzi primari, dunque con una politica
fiscale moderatamente espansiva. Naturalmente il tutto richiederebbe anche
politiche fiscali espansive in Germania (che invece persegue un avanzo fiscale)
volte anche a evitare il rafforzamento dell’euro e le guerre commerciali frutto
dei surplus commerciali tedeschi. Tutto questo è ragionevole, ma la ragione ha
cambiato casa e non risiede più in Europa dove è nata. Già nel recente passato
fu fatta sloggiare, con gli esiti che conosciamo.
Possibile
scontro con l‘Europa, dunque. Questo ci vedrà certamente dalla parte del
governo. La sinistra perderà un’altra occasione. Lo appoggeremo criticamente,
però, perché questo non è il nostro governo, portatore del riformismo sociale
che vorremmo.
Potrebbe essere utile linkare la dichiarazione di Mesenberg di Merkel e Macron del 16 giugno cui mi sembra il testo alluda.
RispondiEliminaArticolo condivisibile e scientificamente solido. Sul fatto quotidiano di oggi (mercoledì 27/6/18) il buon Feltri, tenta una sorta di riassunto delle posizioni in gioco (come se non vi fosse una verità, ma più posizioni possibili). E' un articolo imbarazzante, che dopo 10 anni, potrebbe trovare il sostegno solo del duo "Alesina, Giavazzi". Dato che è citato il suo lavoro, varebbe la pena una replica...
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