“Le ragioni dell’eguaglianza”, incontro pubblico a Roma lunedì 13 maggio 2013
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Il Dipartimento di Economia e Diritto della
Sapienza Università di Roma ha organizzato un incontro pubblico il 13 maggio
2013, dalle ore 15 alle ore 18.30, presso la Sala del Consiglio della Facoltà di
economia (Palazzina della Presidenza, secondo piano. Via del Castro Laurenziano
9).
La discussione, coordinata da Maurizio Franzini (direttore del Dipartimento), sarà introdotta dai contributi di Andrea Brandolini (Banca d'Italia), Daniele Checchi (Università Statale di Milano), Elena Granaglia (Università di Roma Tre), Massimo Mucchetti (senatore della Repubblica, Partito democratico).
Seguiranno gli interventi degli autori del volume: Nicola Acocella, Emilio Carnevali, Sergio Cesaratto, Paolo De Ioanna, Mauro Gallegati, Raffaello Lupi, Mario Pianta, Massimo Pivetti, Alessandro Roncaglia, Roberto Petrini, Michele Raitano, Pietro Reichlin.
La discussione, coordinata da Maurizio Franzini (direttore del Dipartimento), sarà introdotta dai contributi di Andrea Brandolini (Banca d'Italia), Daniele Checchi (Università Statale di Milano), Elena Granaglia (Università di Roma Tre), Massimo Mucchetti (senatore della Repubblica, Partito democratico).
Seguiranno gli interventi degli autori del volume: Nicola Acocella, Emilio Carnevali, Sergio Cesaratto, Paolo De Ioanna, Mauro Gallegati, Raffaello Lupi, Mario Pianta, Massimo Pivetti, Alessandro Roncaglia, Roberto Petrini, Michele Raitano, Pietro Reichlin.
Eguaglianza? Dipende
Dialogo fra Sergio Cesaratto e Pietro
Reichlin
Da Micromega
3/2013 pp. 99-116
MICROMEGA: Con lo scoppio della crisi economica nel 2008 ha riguadagnato
centralità anche in Occidente la questione sociale. Si è così ricominciato a
parlare di povertà, diseguaglianze, equità, tanto nell'analisi delle dinamiche
della crisi quanto in merito alle politiche necessarie a farvi fronte.
Non sempre però, anche all'interno del vasto
campo della sinistra, con le parole equità, giustizia sociale, eguaglianza ci
si riferisce a concetti condivisi “pacificamente” da tutti. Sono parole dal
significato estremamente vago e sfuggente, che è bene precisare.
Qualche mese fa è uscito un importante saggio
di Pietro Reichlin e Aldo Rustichini intitolato “Pensare la sinistra. Tra
equità e libertà” (Laterza) in cui i due autori, due economisti, si propongono
come primo obiettivo quello di “aggiornare e ridiscutere il concetto di
equità”.
Professor Reichlin, perché ritiene che la
sinistra sia legata ad una visione antiquata e ormai inservibile della realtà e
in che modo secondo lei si dovrebbe approdare ad un “cambio di paradigma”? Di
quali nuove idee avrebbe bisogno la sinistra oggi?
REICHLIN: Innanzitutto preciso che le idee contenute nel nostro saggio
non sono affatto nuove. Attingono ad una tradizione ormai consolidata, che è
quella del liberalismo di sinistra.
Il nostro punto di partenza è questo: un
concetto di equità che si focalizza principalmente sull’“uguaglianza dei
risultati” e fa leva su un modello molto invasivo di stato sociale, confligge
in primo luogo con un altro concetto molto importante, soprattutto nelle
società moderne: quello della libertà. Della libertà individuale e della
responsabilità.
Chiunque si metta a ragionare su cosa
determina una distribuzione equa delle risorse deve fare i conti con la
complessità legata alla diversità – umana, caratteriale, psicologica, - tra gli
individui. E la domanda che sorge è: cosa determina la soddisfazione di una
persona? Cos’è che per ciascuno di noi rappresenta l'idea di ”successo”? Cosa
ci gratifica? L’uguaglianza dei salari esaurisce ciò che noi pensiamo riguardo
ad una distribuzione equa delle risorse? Io ritengo di no, anche perché il
salario è solo uno dei fattori alla base della nostra soddisfazione: esistono
anche la posizione sociale raggiunta, la tipologia del lavoro, i riconoscimenti
non materiali, eccetera.
C’è poi un altro problema ancora più
importante. Un paternalismo eccessivo – connesso ad uno stato invasivo che
cerca di realizzare l'uguaglianza dei risultati - crea dipendenza. Gli
individui vengono deresponsabilizzati dall’obiettivo di produrre uno sforzo
adeguato per poter contribuire al benessere sociale, al prodotto collettivo. E
sono sopratutto coloro che hanno più capacità ad essere privati degli incentivi
dati dalla possibilità che i loro meriti siano premiati con un “trattamento”
differenziato rispetto ai meno meritevoli.
Pensiamo soltanto a quello che vediamo nei
telegiornali o nelle trasmissioni televisive quando si parla della disoccupazione
al Sud. È immancabile l'intervento di qualche cittadino intervistato che si
lamenta dicendo: “Lo Stato non mi dà lavoro”. Ecco, questo è il tipico esempio
di una cultura della dipendenza che nasce quando si deresponsabilizzano gli
individui e si perde di vista il problema degli incentivi che sono alla base
del successo di una società.
Ripeto: queste non sono scoperte di oggi.
Sono cose con le quali la sinistra già da tempo ha cominciato a fare i conti.
Basta guardare a come lo stato sociale viene ripensato nel Nord Europa, in
Svezia, nei paesi scandinavi, ma anche in Germania (come si vede non sto
parlando degli Stati Uniti). L’idea di
fondo è che lo stesso concetto di libertà è vuoto, se non è connesso a quello
della responsabilità. Da qui discende la necessità di sostituire una concezione
dell'equità fondata sull'“uguaglianza dei risultati” con una ispirata
all'“eguaglianza delle opportunità”.
Ma che cosa vuol dire nel concreto? Che gli
individui devono in larga parte sopportare le conseguenze delle loro stesse
scelte, anche se dovere dello stato è quello di rimuovere tutte le barriere che ostacolano la mobilità
sociale. Le istituzioni pubbliche devono promuovere quello che in inglese si
chiama level playing field: le
condizioni di partenza devono cioè essere uguali per tutti, così che gli
individui siano completamente assicurati rispetto ad eventi nei confronti dei
quali non sono responsabili.
CESARATTO: L’esposizione del professor Reichlin è stata molto limpida e mi
trova - come nelle attese - piuttosto in disaccordo. Ma questo disaccordo,
badiamo bene, non riguarda la cultura della responsabilità. Anch’io,
ovviamente, concordo sul fatto che le persone si devono comportare, dal punto
di vista individuale, in maniera responsabile. Né posso dissentire dal mio
interlocutore quando afferma che l’impegno va ricompensato in modo adeguato. E
quando sottolinea che il discorso deve andare al di là degli aspetti meramente
pecuniari. I professori universitari – per fare un esempio che coinvolge
direttamente entrambi - vivono del
proprio stipendio. Ma non è certo la ricompensa pecuniaria che rende attraente
questo lavoro, quanto piuttosto un tipo di soddisfazione direi “intellettuale”
e “morale”.
Tutte queste cose mi sembrano abbastanza
ovvie e sono d'accordo con quanto detto dal professor Reichlin.
Sono molto meno d'accordo, invece, quando
propone l'esempio del disoccupato del Mezzogiorno che si lamenta perché lo
Stato non gli dà lavoro. Intendiamoci: sono frasi che danno un po' fastidio
anche a me per il tipo di mentalità che rivelano. Ma qui si tratta di capire,
non di colpevolizzare.
Il fatto che questi cittadini richiedano con
forza un aiuto esterno è la causa oppure l'effetto della situazione di
depressione economica che caratterizza il Mezzogiorno?
Non è che esiste un gene meridionale della
dipendenza. Non è che i meridionali sono persone – per natura - meno
dotate o meno responsabili delle altre. Davvero si finirebbe per alimentare
intollerabili pregiudizi se si sostenesse questo. Il punto è che una certa
“cultura della dipendenza” affonda le proprie radici in problemi storici molto
antichi e complessi. Noi dovremmo
esaminare questi problemi e, se possibile, cercare di risolverli. Non puntare
il dito contro le conseguenze di quei problemi.
Stiamo attenti al moralismo. In questi casi,
è un atteggiamento intellettuale di serie B, se non di serie C.
REICHLIN: Sgombriamo subito il terreno da equivoci. Non credo affatto che
nel Sud ci sia un gene della dipendenza o cose così. Non scherziamo.
Io credo che la cultura della dipendenza sia
il prodotto di una ideologia, ma anche il risultato di un certo modo di
organizzare lo stato sociale, di una vecchia concezione dei diritti e della
giustizia.
L’eguaglianza delle opportunità viene spesso
guardata come un obiettivo minore o di compromesso, un traguardo talmente
modesto per il quale non varrebbe nemmeno la pena spendersi. Guardate che se
noi la prendessimo davvero sul serio essa comporterebbe cambiamenti
rivoluzionari. Significherebbe per prima cosa contrastare tutte quelle forme di
protezione di categorie sociali o professionali che incrostano la società
italiana e che rendono difficile anche la crescita e lo sviluppo, in primis del Mezzogiorno.
L’uguaglianza delle opportunità incarna una
versione molto avanzata del concetto di equità, perché significa consentire a
persone che nascono in famiglie svantaggiate di arrivare ad avere quello che
nell’attuale situazione non hanno.
Ma perché ciò sia possibile è necessario
ripensare lo stato sociale in Italia. La nostra spesa sociale è del tutto
sbilanciata in direzione della spesa pensionistica, che raggiunge il 14% del
Pil, contro una media degli altri paesi avanzati assai inferiore. Contemporaneamente
spendiamo molto poco per altre voci, come per esempio per le politiche attive
del lavoro, o per l’assicurazione contro la disoccupazione. E questo in virtù
di scelte fatte in forza di pressioni di determinati gruppi sociali. Ma
vogliamo domandarci se tali scelte contribuiscono ad aiutare le persone che
meritano veramente di essere aiutate?
L’idea stessa di universalizzare certe forme
di protezione in Italia sarebbe
rivoluzionaria, perché richiederebbe una riformulazione integrale del nostro
sistema di welfare.
Quindi, ci tengo a ribadirlo, non c'è nessuna
questione “antropologica” o tanto meno “genetica” nel Mezzogiorno. C'è un
grande problema politico ed economico che richiede interventi e soluzioni. Di
tutto ciò si dovrebbe discutere apertamente, anche a costo di entrare in
contrasto con alcune posizioni difese dai nostri sindacati.
CESARATTO: Quando sento certe argomentazioni, quando sento evocare – come
ha fatto prima Reichlin – la Svezia, i paesi scandinavi, la necessità di
seguire il loro esempio nel ripensare il welfare, confesso che mi viene da
domandarmi: ma dove vivono questi miei colleghi economisti? Dove lo vedono, in
Italia, questo stato sociale elefantiaco, invasivo, paternalista, che provvede
a tutto e quindi non incentiva gli individui a darsi da fare?
Il welfare in Italia è un colabrodo. Non
parliamo poi di quello che è stato l'impatto delle politiche di austerity su
servizi già ampiamente inadeguati. Le nostre scuole cadono a pezzi. Così come i
nostri ospedali. Forse il professor Reichlin dirà che ci sono delle
responsabilità individuali anche per questo, magari che è colpa dei professori
che rifiutano la valutazione.
A me sembra che prima di smantellarlo, prima
di diminuire una “invasività” che non esiste nella realtà, questo benedetto
stato sociale bisognerebbe costruirlo e farlo funzionare.
Mi sembra che qui sia il problema. Poi ci
possiamo dividere su come farlo funzionare, su quali debbano essere gli
strumenti tecnici più adatti. Non ho certamente problemi ad ammettere che
bisognerebbe usare anche un po’ di “frusta” - e di incentivi - con i dipendenti
pubblici, con i professori, con i medici, con chi si comporta da
lazzarone. Su questo siamo d’accordo. Ma
il punto è che qui non si tratta di smantellare, ma di far funzionare il
welfare. Per questo, rispetto a quel poco che c'è, io dico: guai a chi lo
tocca!
Vengo quindi al riferimento del professor
Reichlin alle «scelte fatte in forza di pressioni di determinati gruppi
sociali». Ci vedo un approccio profondamente antipopolare. Sembra voglia
instillare l'idea che è tutta la colpa è della classe lavoratrice, dei
sindacati, e magari di un Partito comunista e di una sinistra italiana che li
hanno appoggiati. I “gruppi sociali” di
cui Reichlin parla non sono altro che gli operai, i lavoratori. Gente che se n’è
andata in pensione dopo una vita di lavoro.
Reichlin crede che siamo in piena
occupazione. Io no. Questa, in ultima analisi, è la grande divergenza “teorica”
fra i nostri due approcci. Non bisogna perdere di vista questa differenza
perché se no non si coglie a pieno l'origine del nostro radicale disaccordo.
E allora: perché la spesa pensionistica è
elevata in Italia? Non perché paghiamo pensioni troppo elevate, né perché la
gente è andata in pensione troppo presto, ecc. La spesa pensionistica sul PIL è
elevata perché ci sono bassi tassi di attività [il rapporto fra persone che
lavorano o cercano attivamente lavoro e la popolazione in età lavorativa] e
quindi un inadeguato flusso contributivo (che è comunque sufficiente a
sostenere il fondo pensione per i lavoratori dipendenti; il quale, anzi, è in
sovrappiù). Con tassi di attività , con tassi di occupazione più elevati, con
un Pil più elevato, il peso della spesa pensionistica sul PIL stesso
diminuirebbe.
Continuiamo a colpevolizzare i lavoratori o i
cosiddetti “gruppi sociali”, ma i veri problemi sono altri.
REICHLIN: Io non voglio affatto smantellare lo stato sociale. Non
è questa la mia proposta. Il problema, piuttosto, è di riformarlo.
Cerchiamo di essere pratici. Noi abbiamo una
spesa sociale in proporzione al PIL che è in linea con quella degli altri paesi
europei. Però abbiamo uno squilibrio nella suddivisione delle voci. Circa il
50% della spesa è dedicato alle pensioni. Non mi pare sia una distribuzione
coerente con obiettivi di una maggiore equità sociale.
E perché la spesa pensionistica è così
elevata? Il professor Cesaratto sostiene che la spiegazione vada individuata
nei bassi tassi di attività. È una analisi, a mio avviso, molto debole e
parziale.
La ragione principale è che nel passato sono
state fatte delle promesse che lo Stato non era in grado di mantenere. Molte
persone sono andate in pensione molto ma molto presto. Troppo presto in
rapporto a ciò che le tendenze demografiche consentivano di fare. Inoltre, non
dobbiamo confondere la disoccupazione con la bassa partecipazione ala forza
lavoro. Un disoccupato è una persona ala ricerca di un lavoro, una persona
inattiva, invece, non cerca o ha spesso di cercare un lavoro. Noi dobbiamo fare
in modo che gli individui abbiano sufficienti incentivi per diventare attivi
sul mercato del lavoro, e penso soprattutto alle donne, ai giovani e alle
persone nella fascia di età tra i 55 e 65 anni. Nel nostro paese i tassi di
attività di queste categorie di cittadini sono eccessivamente bassi.
Io non voglio smantellare lo stato sociale,
bensì renderlo più equo ed efficiente. E allora cominciamo a domandarci che
cosa lo rende inefficiente, visto che possiamo concordare sul fatto che il
problema delle pensioni non è l'unico.
Per esempio, guardiamo alla scuola. Molto
spesso a sinistra si sostiene che i problemi della scuola derivano dalla
scarsità di fondi. Non è così. Molto più rilevanti sono i problemi di cattiva
organizzazione e di inefficienza.
Per la scuola primaria e secondaria l’Italia
è assolutamente in linea con la media europea (mi riferisco alla spesa per
unità di studente, che anzi ci vede leggermente al di sopra della media.
Diverso sarebbe il discorso per l'università, per la quale, in effetti,
spendiamo poco).
Aggiungo che mi sento anche un po' a disagio
quando mi si dice che io attribuisco tutte le colpe alla sinistra o alla classe
operaia. Il saggio che ho scritto insieme al professor Rustichini parla alla
sinistra, diciamo così, dall'interno. Noi ci sentiamo parte di questa
tradizione politica e sappiamo bene che molti dei problemi di questo paese sono
attribuibili a forze sociali alle quali la sinistra in passato si è opposta.
CESARATTO: Questa non è sinistra. Le posizioni che lei
sostiene – lo dico anche facendo riferimento al volume appena citato, che ho
naturalmente letto con molta attenzione – non sono di sinistra. Sono discorsi
da Tea Party americano. L'idea di
fondo è quella della povertà come colpa (e, simmetricamente, quella della
ricchezza come merito).
Riconosco che nei partiti della cosiddetta
“sinistra riformista” queste idee hanno fatto il bello e il cattivo tempo negli
ultimi 20 anni. Ma guardiamo anche a come sono finiti i protagonisti di quella
stagione. Nicola Rossi, l'economista consigliere di D'Alema quando per la prima
volta nella storia repubblicana un (ex) esponete del Partito comunista italiano
si insediava a Palazzo Chigi, ora è con
Montezemolo e con Monti. Il padre “nobile” di queste idee è Michele
Salvati, idee che identificano tutte le responsabilità nel Partito Comunista,
che di colpe ne ha molte - principalmente che l’unico riformismo che ha
espresso è quello liberista, un ossimoro -, ma le principali colpe sono -
diamine! – dell’inetta borghesia italiana.
Ora, essere di sinistra non significa affatto
sostenere che lo stato deve imporre per legge una assoluta uguaglianza. Per
l’amor del cielo, questa è una caricatura della sinistra! Ma non significa
nemmeno essere subalterni al pensiero dominante della destra.
In particolare, visto che siamo entrambi
economisti e possiamo ragionare attraverso le categorie della nostra
disciplina, secondo me essere di sinistra significa non credere alla teoria
economica neoclassica. Non per ideologia, naturalmente, ma perché è falsa. E
dunque non pensare che la povertà o la disoccupazione siano una colpa. Si
tratta di un distinguo analitico, teorico, ben più profondo delle chiacchiere
da salotto che possiamo fare su
“uguaglianza delle opportunità” vs “uguaglianza dei risultati”.
MICROMEGA: Due obiezioni molto “terra terra”, una per ciascuno degli
interlocutori. La prima chiama in causa il professor Reichlin.
Professore, lei dice che la sinistra deve
puntare esclusivamente all’uguaglianza delle opportunità, perché già solo
lavorare per questo obiettivo comporterebbe mettere in cantiere riforme davvero
radicali. Bene: facciamo conto che il signor Rossi sia un uomo al quale abbiamo
dato tutte le possibilità di studiare, di affermarsi, di fare carriera, ma è
oggettivamente poco dotato e anche un po' lazzarone. Insomma non ha acquisito
alcun “merito”. Il signor Rossi si ammala di cancro. Deve potersi curare? Anche
se non ha lavoro, reddito, assicurazione... anche se per tutta la sua vita non
ha avuto un atteggiamento “responsabile”? Insomma, esistono dei dritti che devono essere garantiti
“a prescindere”, dei diritti rispetto ai quali esiste una “uguaglianza dei
risultati”?
Per quanto riguarda invece il discorso del
professor Cesaratto, è vero che non siamo in Svezia. È vero che qui non c'è uno
stato sociale elefantiaco. Ma oltre alla Svezia e ai Paesi del Nord Europa nel
mondo esistono anche la Romania, la Turchia, la Cina, il Vietnam. Sono tutti
Paesi con i quali, in virtù della progressiva globalizzazione dei mercati,
siamo entrati in concorrenza diretta.
Siamo tutti d'accordo sul fatto che il
welfare sia una bella cosa. Ma possiamo ancora permettercelo? Possiamo ancora
mantenere livelli di tassazione così elevati? Non si pone forse, anche in
Italia, un problema di “sostenibilità” per uno stato sociale che abbiamo
comunque ereditato da anni in cui la pressione competitiva era molto meno
forte?
REICHLIN: Per prima cosa vorrei dire che il tentativo
del professor Cesaratto di attribuirmi l'opinione secondo cui la povertà
sarebbe un colpa mi sembra molto scorretto. Non l'ho mai sostenuto. Dove lo ha
letto? In quale mio articolo? In quale libro?
Cesaratto, che è un economista, dovrebbe
conoscere la differenza fra bassi tassi di attività e disoccupazione. E i bassi
tassi di attività sono legati anche alla scarsa presenza di incentivi. Chi non
lo riconosce, francamente, mi pare vada fuori strada nel tentativo di
analizzare i fenomeni dei quali ci stiamo occupando.
Dunque: la povertà non è una colpa. Lo so
bene. Questa semmai è la posizione della destra, non la mia posizione.
Ciò che io suggerisco sono una serie di
modifiche dello stato sociale al fine di renderlo più equo. E nell'ambito di
questo processo di riforma ritengo possano essere utili alcuni strumenti in
grado di accrescere il senso di
responsabilità dei singoli individui.
Naturalmente questo discorso pone problemi
molto seri, uno dei quali è stato ora sollevato dal nostro mediatore.
Il diritto alla cura è sacrosanto. Lungi da
me sostenere che la sanità debba essere privatizzata. Tutti vediamo che il
modello statunitense non funziona. Però, ancora una volta, facciamo attenzione:
nulla ci vieta di introdurre anche qui
dispositivi atti a correggere degenerazioni frutto della
deresponsabilizzazione delle persone. Per esempio, favorendo la
compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria. Sempre, naturalmente, in forme eque, cioè in
base alla capacità di contribuzione, e quindi al reddito.
È chiaro che se una persona, il famoso signor
Rossi di cui sopra, si ammala di cancro, deve essere curato. Tutti dobbiamo
avere diritto ad una assistenza sanitaria.
Ciò non toglie che la sanità deve essere
organizzata in modo efficiente. E per fare questo ci vogliono incentivi e
meccanismi di responsabilizzazione.
Si può benissimo dire che chi pone questi
problemi è di destra. Ma non mi pare un atteggiamento molto lungimirante. Significa
costruirsi un bel recinto e farsi la propria sinistra “su misura”, ignorando
tutto ciò che viene fatto fuori dall’Italia.
CESARATTO: A me non sembra affatto di aver deformato le
posizioni del professor Reichlin. La sua filosofia è esattamente quella che ho
precisato, incentrata sul moralismo e la colpevolizzazione.
Si è parlato di sanità. Bene: nel suo libro
Reichlin punta il dito contro certi stili di vita – ad esempio il fumo o
l'alcool – che sono dannosi per la salute e sui quali gli individui andrebbero
responsabilizzati. Ok, d'accordo. Ma vogliamo anche chiederci perché tali stili
di vita sono particolarmente diffusi in certi settori sociali e meno in altri?
L'atteggiamento moralistico non ci porta da
nessuna parte, come nel caso del meridionale che invoca l'aiuto dello stato per
la sua condizione di disoccupato.
Il punto vero è che le teorie economiche alle
quali si rifà il professor Reichlin sostengono fondamentalmente che
l'occupazione si crea dal lato dell’offerta. È l'offerta di lavoro, quella cioè
operata dai lavoratori che, appunto, si “offrono” sul mercato del lavoro, che
genera posti. Partendo da tale impostazione teorica è normale pensare che se
una persona “si dà da fare” prima o poi finirà per creare la propria
occupazione. E che dunque la disoccupazione è in qualche modo una colpa. I
bassi tassi di attività dipendono dalla mancanza di posti di lavoro, non dalla
mancanza di incentivi a lavorare come ritiene Reichlin.
Partendo invece da un approccio che molto
sommariamente potrei definire “keynesiano” (anche se la traiettoria di ricerca
di Keynes è stata condotta molto oltre dai suoi allievi) la disoccupazione ci
appare come un fatto fondamentalmente involontario. Sono le politiche
macroeconomiche – o le politiche di intervento strutturale, come quelle che ad
esempio servirebbero nel Mezzogiorno - che determinano i livelli di
occupazione.
Inoltre nella prospettiva teorica che io qui
mi sento di rappresentare è ben presente la consapevolezza di uno stretto
legame fra giustizia sociale e livelli di occupazione: una distribuzione del
reddito più egualitaria, più equa, sostiene i consumi, sostiene la domanda
aggregata e quindi lo sviluppo e l'occupazione.
Il punto di vista del professor Reichlin
elude completamente il problema della domanda aggregata, se non nel breve
periodo.
Per quanto concerne invece la domanda sulla
“concorrenza cinese” e sulla sostenibilità del nostro welfare è chiaro che
siamo di fronte a un grave problema cui è difficile far fronte. Ma se c’è un
dumping sociale da altri paesi lo si fronteggia come tale.
Al di là di tante letture edulcorate che in
questi anni sono andate per la maggiore, la globalizzazione è stato uno degli
strumenti attraverso i quali si è cercato di far arretrare gli avanzamenti
delle classi lavoratrici nei paesi occidentali. Tant’è che lo sviluppo
economico cinese è fondamentalmente dovuto agli investimenti esteri, oltre che
ad un forte ruolo guida dello Stato.
MICROMEGA: Per chiarirci: quando lei dice che se c'è un
fenomeno di dumping sociale “lo si fronteggia come tale” cosa intende
esattamente?
CESARATTO:
Si tratta di una questione
complessa. Senza dubbio la risposta non può essere solo quella protezionista.
Si dice spesso che la vera sfida è quella di fare prodotti migliori,
tecnologicamente più avanzati, per concorrere su segmenti alti del mercato.
Sarà anche una tesi scontata e abusata, ma oggettivamente la soluzione passa
anche per questa strada.
Purtroppo il nostro Paese non ha imboccato
questa direzione. E la più recente cura fondata sull'austerità non sarà certo
utile a migliorare le cose.
REICHLIN: Possiamo certamente discutere di keynesismo
e di teoria neoclassica. Ma io francamente credo che nel nostro dibattito
questa roba non c’entri nulla.
Posso concordare sul fatto che per far fronte
ad una recessione come quella che ci ha colpito possono essere utili manovre
espansive, stimoli alla domanda, e quant'altro.
Ma mi pare che siamo stati chiamati a
discutere sull'assetto generale del nostro sistema di welfare, sui limiti
strutturali che nel nostro Paese si frappongono alle politiche di equità.
E allora non possiamo ignorare il fatto che
noi abbiamo un problema storico di bassi tassi di attività. Un problema,
cioè, che non ha nulla a che fare con il ciclo economico.
CESARATTO: Professor Reichlin, mi può fare un esempio
di qualcosa che scoraggia una donna meridionale dal cercare lavoro?
REICHLIN: La tassazione, ad esempio. Il sistema
fiscale può scoraggiare l’offerta di lavoro. È un fenomeno abbastanza provato.
In ogni caso, lo ripeto, vorrei evitare di
perderci in astruse dispute sulle teorie economiche.
Cerchiamo di andare al sodo. E pensiamo alle
riforme del mercato del lavoro e del sistema di protezione contro i rischi di
disoccupazione promosse in Germania dal governo socialdemocratico di Gerhard
Schröder nella metà del decennio Duemila.
Se Cesaratto vuole - come mi sembra voglia
fare - mettere Schröder, e con lui tutta la socialdemocrazia tedesca, fuori dal
campo della sinistra può benissimo farlo. Sinceramente, però, mi pare una posizione
un po’ sterile.
Quelle riforme seguivano un ragionamento
identico a quello che ho cercato di accennare anche in questa sede. Per esempio
si constatava che l’eccesso di durata dei sussidi di disoccupazione incentivava
le persone a rimanere fuori per troppo tempo dal mercato del lavoro,
scoraggiava la ricerca di una nuova occupazione. E si è cercato di porvi
rimedio rimodulando le formule del vecchio sistema di welfare.
Riguardo alla globalizzazione io rifiuto
l’idea che questo fenomeno sia stato l’invenzione di non so quale spectre del capitalismo mondiale per
mettere in difficoltà la classe operaia occidentale.
Metterla su questo piano significherebbe
trascurare dati di fatto importanti. Innanzitutto questo processo ha consentito
a miliardi di persone – soprattutto in India e in Cina - di uscire dalla
povertà. Ha favorito la nascita di una classe media e di un benessere diffuso
in grandi zone del pianeta. A chi stanno a cuore i temi dell'equità e della
lotta alla povertà non dovrebbe sfuggire che un tale fenomeno è stato
largamente positivo, pur con tutti i problemi che ha comportato.
Certamente oggi i paesi occidentali si
trovano di fronte a sfide inedite. Non siamo più soli come nel dopoguerra,
quando i paesi di più antica tradizione industriale rappresentavano il 70-80%
del prodotto mondiale.
Ora dobbiamo fare i conti con popolazioni che
fino a poco tempo fa vivevano nell'assoluta miseria e che oggi competono con
noi nella produzione di merci per il mercato globale. Ma facciamo attenzione ad
attribuire a questo nuovo scenario tutte le colpe per il peggioramento della
condizione della classe lavoratrice in occidente.
La depressione dei salari dei lavoratori non
qualificati come conseguenza della
globalizzazione, ad esempio, è una dinamica tutt'altro che dimostrata nei più
recenti studi empirici.
E ancora: se noi guardiamo ai dati
sull’estensione del welfare, della spesa sociale nei paesi occidentali, vediamo
che essa non è affatto diminuita nei cosiddetti anni del trionfo del
“neoliberismo” (come viene spesso definita l'epoca inauguratasi negli anni
Ottanta). Quindi non è vero che la globalizzazione ha determinato un
ridimensionamento della spesa e dello stato sociale.
MICROMEGA: Professore, lei ha fatto riferimento a
Schröder. Ma potremmo citare anche
Blair, Clinton, e tanti altri. Queste idee sono egemoni da lungo tempo nella
sinistra riformista occidentale. Perché questo “vittimismo” quando se ne parla?
Perché insistere tanto sul fatto che la sinistra deve cambiare e si deve
svecchiare? La sinistra riformista,
anche in Italia, è forse molto più simile a come la descrive lei che a come la
vorrebbe Cesaratto. E infatti immagino che al professor Cesaratto l'attuale
sinistra non piaccia un granché.
REICHLIN: Ma è esattamente quello che ho detto prima.
Le nostre idee possono certamente essere criticate. Ma non sono affatto nuove e
non sono certo estranee al campo della sinistra.
L'Italia, tuttavia, presenta a mio avviso una
non invidiabile eccezionalità. Qui queste idee non si sono mai affermate davvero.
C'è stato un solo momento nella storia
recente nel quale è sembrato che potessero prendere piede. Durante il primo
Governo Prodi, quando la Commissione Onofri cominciò a mettere nero su bianco
una riforma dello stato sociale coerente con le idee maturate in quel periodo
all'interno delle formazioni del centrosinistra. Fu un tentativo coraggioso e
interessante, che conteneva molte delle sollecitazioni sulle quali mi sono
soffermato nei precedenti interventi.
Ma fallì miseramente. E perché fallì? Perché
il centrosinistra pian piano si rese conto che se voleva fare quel tipo di
riforme doveva modificare radicalmente buona parte dei meccanismi di protezione
sociale ereditati dal passato. Un esempio per tutti: il modo con il quale è
utilizzata la cassa integrazione in Italia. Abbiamo a che fare con un abuso
abnorme, perché va molto al di là dello scopo per il quale era stata pensata in
origine. In realtà serve spesso a mantenere posizioni, posti di lavoro, in
imprese che non hanno alcuna possibilità di riprendersi. Così si buttano via
risorse che invece potrebbero essere utilizzate per cercare di reinserire le
persone nel mercato del lavoro, in aziende più efficienti e competitive (e
dunque con più futuro).
Ecco, quando si auspicano riforme in linea
con idee che sono già largamente maggioritarie negli altri partiti di
ispirazione socialista e socialdemocratica in Europa, è necessario farsi carico
del peso di dover scontentare qualcuno. I cambiamenti non sono mai a costo
zero. La sinistra italiana ancora vi si oppone perché continua a essere
aggrappata a posizioni di conservazione.
CESARATTO: Delle volte a me sembra che il professor Reichlin dica un po’
tutto e il contrario di tutto. Dice che in Italia non c’è equità perché non c'è
protezione sociale. Poi dice che bisogna fare come in Germania, dove la
protezione c'era ma l'hanno ridotta. Ora: se in Italia non c'é, cosa diavolo
dobbiamo ridurre?
La cassa integrazione si può naturalmente
ridiscutere. Possiamo vedere se sia ancora uno strumento valido oppure no. Il
professor Reichlin insiste molto sulla riqualificazione professionale: vada a
fare questi discorsi nel Sulcis! Quale riqualificazione si può offrire in
quelle zone? Forse un corso di lingua tedesca, così che questi lavoratori
possano emigrare in Germania...
Lo stesso Reichlin dovrà ammettere che questa
cassa integrazione non è poi così pervasiva, nel senso che copre solo una parte
dei lavoratori italiani. Non mi pare costituire questo enorme disincentivo a
cercare una nuova occupazione o una nuova attività. E ritenere che imposte sul
salario sono troppo elevate disincentivino una donna meridionale a lavorare si
commenta da sé.
E qui ritorno a un nodo che a me pare
assolutamente centrale se volgiamo andare alla profondità dei problemi.
Noi vediamo e leggiamo la realtà attraverso
una determinata teoria. È un assunto elementare nella filosofia della scienza.
Il mondo del professor Reichlin è un mondo, lo ripeto, di piena occupazione. Un
mondo in cui se ci si dà sufficientemente da fare il mercato certamente
ricompenserà il nostro sforzo. Per cui la disoccupazione è una colpa, la
povertà è una colpa, e lo Stato, quando protegge le persone in difficoltà,
rischia di “impigrire” gli individui e di comprometterne l'intraprendenza.
A mio avviso la disoccupazione, invece, è un
problema assolutamente macroeconomico.
MICROMEGA: Professore, la vostra divergenza teorica è molto chiara e
difficilmente ricomponibile. Ma su alcune cose molto pratiche può esserci
accordo? Semplifico con uno slogan brutale – mi perdonerà il professor Reichlin
– le proposte che abbiamo appena sentito: no alla protezione del posto di
lavoro, sì alla tutela del lavoratore con sussidi di disoccupazione.
Condivide questo approccio?
CESARATTO: Le istituzioni si possono naturalmente cambiare e rendere
migliori. Ma se lei mi fa una domanda sull'“approccio” io dico che dobbiamo
evitare di puntare tutto su questa fantomatica responsabilità dell'individuo.
Bisogna discutere delle istituzioni collettive e dei comportamenti collettivi e
di ciò che li determina. Schröder non era di sinistra. Blair non era di
sinistra. E questo proprio per la filosofia di fondo che li ispirava. Potremmo
rubricarli più appropriatamente nel “conservatorismo compassionevole”.
Vogliamo parlare delle tanto universalmente elogiate
riforme di Schröder? Grazie ad esse la disuguaglianza in Germania è molto
cresciuta. E questo ha creato problemi all'intera Europa perché la maggiore
flessibilità e la compressione dei salari reali (cresciuti molto meno della
produttività) sono stati funzionali all'affermazione del modello mercantilista
tedesco. Non solo non erano cose di sinistra – cioè cose che rispondevano
all'esigenza di una maggiore equità e giustizia sociale – ma sono state riforme
dannose per il sistema economico europeo nel suo complesso. Hanno compresso la
domanda aggregata e la crescita e hanno esacerbato gli squilibri fra i vari
paesi dai quali ha avuto origine anche la recente crisi del debito.
La redistribuzione della ricchezza dal basso
verso l'alto non è solo ingiusta: danneggia l'economia perché danneggia i
consumi e, con essi, la crescita.
REICHLIN: Lascio al professor Cesaratto il privilegio di stabilire cosa sia di sinistra e cosa non lo
è.
Io rimango ancorato ai fatti. E i fatti mi
dicono che le riforme di Schröder in Germania hanno ridotto il tasso di
disoccupazione dal 10% al 6%. Hanno dato alla Germania le migliori performance
economiche degli ultimi trent’anni. La Germania - ricordiamolo un momento - era
considerata “il grande malato d’Europa” fino all’inizio del 2000. Ed ora è
sotto gli occhi di tutti il modo con cui ha assorbito lo choc recessivo del
2008: meglio di qualsiasi altro paese europeo.
E allora: questo ha determinato una maggiore
dispersione dei salari? La risposta è sì. Ha determinato, in effetti, una
maggiore dispersione dei salari. Forse sarebbe il caso che la sinistra
accettasse qualche prezzo da pagare in cambio di un dimezzamento della
disoccupazione e di un aumento sostanziale dei tassi di crescita.
CESARATTO: Va bene, la Germania fino agli anni 2000 inoltrati era il
“malato d'Europa”. Poi un po’ di crescita c’è stata. Ma è stata resa possibile
grazie alle importazioni degli altri, in virtù di quel meccanismo squilibrato
che ho appena citato. Lei sta proponendo il medesimo modello per tutti:
compressione dei salari ed esportazioni.
Benissimo. Però faccio una domanda banale: se
in tutta Europa, o addirittura in tutto il mondo, attuiamo queste medesime
politiche, dove andiamo a esportare? Su Marte?
Difficilmente tale modello – che potremmo definire
di “deflazione competitiva” - può essere un modello generalizzato di successo.
Ha creato un pochino di crescita in Germania. Ma nel 2010 l'economia tedesca ha
anche approfittato dell'indebolimento della moneta unica a causa dei problemi
degli altri. L’euro si è svalutato di un cospicuo 10% rispetto al dollaro e la
Germania ha cominciato a vendere molto di più spiazzando il Giappone in Cina.
Vedremo ora come andranno le cose con questa interminabile recessione nel
Vecchio Continente e con la guerra valutaria che pare si stia scatenando a
livello internazionale.
Certamente la Germania è una società molto
efficiente, è un’economia molto
dinamica. Se la passano molto meglio di noi. Ma l'impatto di una crisi di tali
proporzioni si fa – e si farà – sentire anche lì.
MICROMEGA: Dato che ci avviamo alle conclusioni, si potrebbe mettere sul
tavolo un altro tema fondamentale legato al welfare: la scuola.
Per la sinistra, storicamente, la scuola deve
essere gratuita per tutti...
REICHLIN: Il discorso sulla scuola e l'istruzione credo vada affrontato
facendo una distinzione di fondo.
Da una parte c'è la scuola primaria e
secondaria. Non credo che qui ci debba essere una diretta partecipazione degli
utenti ai costi del servizio, perché a questo livello l'istruzione ha degli
effetti esterni positivi di natura non soltanto economica. Ciò rende necessaria
e auspicabile la sua gratuità. Poi possiamo discutere sull'introduzione di una
maggiore autonomia nell’insegnamento e sulla promozione di una maggiore concorrenza
nell'offerta scolastica per sviluppare modelli più virtuosi. Ma la scuola
primaria e secondaria deve restare gratuita per tutti.
Diverso il discorso che va fatto per
l'università. I vantaggi economici che derivano dal conseguimento di un titolo
di studio universitario sono in larga parte vantaggi individuali.
In secondo luogo, dobbiamo porre con forza
una questione di pari opportunità. Prendiamo ad esempio un ragazzo che magari
viene da un paese di una provincia meridionale e che può essere tentato dall’idea di andare
all’università. Ciò che impedisce a questo ragazzo di andarci non è la retta
universitaria da mille o duemila euro, o addirittura cinquemila euro l'anno. Bensì l'enorme costo
dovuto al suo trasferimento (alloggio, vitto, ecc.). Per non parlare del “costo
opportunità” dovuto al fatto che questa persona dovrà entrare nel mondo del
lavoro in un periodo posticipato, molti anni dopo.
E allora io ritengo che per garantire alle
persone svantaggiate di accedere all’istruzione universitaria sia molto
importante estendere il “diritto allo studio”: più borse di studio (e più
consistenti), ma anche più prestiti di onore (cioè prestiti, garantiti dallo
Stato, che gli studenti possono contrarre e restituire successivamente,
condizionatamente alla condizione nel mercato del lavoro, cioè in proporzione
al reddito che si è effettivamente conseguito).
Tutto questo naturalmente comporta dei costi.
E dunque occorre trovare delle risorse. Ecco: queste risorse si possono
recuperare proprio da quegli studenti che invece si possono permettere di
andare all'università.
Ricordare un dato che è molto noto: nella
stragrande maggioranza i ragazzi che vanno all’università sono figli di
professionisti o di persone che appartengono a classi di reddito superiori.
Però l’università è quasi gratis per tutti. Ciò significa che i costi
sono ripartiti sulla fiscalità generale, cioè su tutta la popolazione. In altre
parole i genitori dei ragazzi che non accedono all’università contribuiscono
alle spese universitarie anche dei figli dei ricchi.
Sarebbe più giusto se le famiglie più agiate
contribuissero di più, e direttamente, all’istruzione dei propri figli.
MICROMEGA: Questo comporterebbe, per chiarirci, un aumento delle rette
rispetto a quelle attuali…
REICHLIN: Un aumento modulato delle rette, in proporzione al
reddito, alla capacità di spesa delle famiglie, compensato da un’estensione
molto maggiore delle borse di studio.
MICROMEGA: Anche adesso, però, le rette sono proporzionali al reddito.
REICHLIN: Sì, ma sono molto basse. Teniamo conto che la spesa per
studente nell’università italiana si aggira introno ai 7-8 mila euro. E
mediamente le rette sono collocate fra i mille e i duemila euro.
CESARATTO: Io non ho obiezioni “di principio” su questo. Se si tratta di
correggere un’iniquità che in parte c’è nel sistema delle rette universitarie,
discutiamone pure. Purtroppo in questo Paese dobbiamo anche fare i conti con
l’inefficienza del sistema fiscale, con l’evasione. Anche se fosse istituita
una maggiore progressività nelle rette non è detto che faremmo davvero pagare
ai più ricchi i costi maggiori. In Italia di ricchi ce ne sono pochissimi, da
un punto di vista fiscale.
Però questo è un problema tecnico e non una
obiezione di principio al ragionamento. E sinceramente sento di condividere la
denuncia del professor Reichlin sul fatto che siamo in una situazione di
ingiustizia se il figlio dell’avvocato benestante o del notaio paga quasi
quanto il figlio dell’impiegato o dell’operaio.
Se però affrontiamo il discorso degli incentivi
allo studio non possiamo scinderlo da quello dell'occupazione.
Io simpatizzo molto con la vecchia idea
marxista dell’“esercito industriale di riserva”: il capitalismo funziona bene
solo con un pool di disoccupati a disposizione e là dove il capitalismo vuole
cambiare le cose a suo favore aumenta la consistenza di questo pool. Il
professor Reichlin la riterrà una idea obsoleta, ma è ciò che insegniamo anche
oggi nelle università con la “curva di Phillips”: non è molto differente, in
fondo.
Io mi concentro su questi aspetti perché una
disoccupazione così elevata come quella che abbiamo in Italia ha un effetto
devastante anche sul sistema dell’istruzione. Se i ragazzi avessero più lavoro
magari non rimarrebbero parcheggiati per anni, senza costrutto e prospettive,
nelle università (quelli meno motivati a studiare, intendo, andrebbero a
lavorare, poi magari ci ripenserebbero). Le università sarebbero liberate da
questa zavorra di costi e sarebbero senza dubbio più efficienti.
Il problema, ancora una volta, è quello di
creare posti di lavoro. E per farlo bisogna mettere in campo le giuste
politiche economiche.
REICHLIN: Le persone che hanno un titolo di studio elevato hanno
innanzitutto una minore probabilità di essere disoccupate. Uno dei dati più
eclatanti dell’economia italiana è il basso livello di istruzione della forza
lavoro. È un elemento che ci crea tantissimi problemi di competitività e di
modello produttivo, se vogliamo ricollegarci al discorso di prima sulla
globalizzazione e le sfide che essa ci presenta.
Abbiamo una necessità impellente di aumentare
il livello di istruzione dei cittadini italiani, ma soprattutto di aumentarne la
qualità, che è troppo bassa.
Per quanto concerne il discorso più generale
sul welfare concludo ribadendo che la percentuale di spesa sociale rispetto al
PIL in Italia, inclusa l’istruzione, è più o meno in linea con quella degli
altri paesi europei. Possiamo anche scordarci che questo livello di spesa possa
essere aumentato nei prossimi anni. E allora dobbiamo fare un po' di ordine,
ripensare ad alcune formule e modelli per la fornitura di determinati servizi.
Io credo che la sinistra debba cominciare a
ipotizzare che una parte di questi servizi, inclusa l’istruzione, debba essere
a carico degli stessi utenti. Dobbiamo avviare forme di compartecipazione che
garantiscano il massimo di equità e il massimo di esenzione per i cittadini che
si trovano in una posizione più svantaggiata.
Nei prossimi anni ci giocheremo tutto intorno
a questi problemi: pensare che possiamo mantenere lo stesso livello di spesa
per le pensioni, ma anche aumentare la spesa per la sanità, aumentare la spesa
per l’istruzione e magari anche introdurre il salario di cittadinanza – che
pare andare molto di moda adesso - è una pia illusione.
La sinistra deve cominciare a utilizzare un
linguaggio di verità nei confronti degli elettori e del popolo italiano.
Facendo, contemporaneamente, un ragionamento di carattere “culturale”.
Ora mi si accuserà di essere un moralista, ma
io penso che bisognerà cominciare a dire a tutti – e alle famiglie in primo
luogo - che la spesa per l’istruzione è una spesa importante. Io vedo genitori che comprano la macchina ai
figli, magari li mandano in vacanza alle Maldive, ma poi si scandalizzano se
viene chiesto loro di spendere qualche soldo in più per l'istruzione.
Ecco, le priorità vanno riformulate anche
promuovendo un rinnovamento della mentalità, un cambiamento di natura morale
e culturale.
CESARATTO: Il professor Reichlin dice: la sinistra deve fare un discorso
di verità alla gente; i soldi sono di meno, ce ne saranno sempre di meno, e
quindi si tratta di ristrutturare quello che c’è, rendendolo più efficiente.
Sull'efficienza secondo me possiamo trovarci
perfettamente d'accordo. Quando delle persone ragionevoli si mettono a tavolino
per cercare soluzioni concrete secondo me non è difficile trovare dei punti di
convergenza (almeno per quel che riguarda le persone di questo consesso).
Rifiuto invece la logica secondo la quale le
risorse non ci saranno e non possono aumentare. Potrebbero benissimo aumentare
se le politiche fossero completamente diverse da quelle attuali.
Naturalmente nessuno ha la bacchetta magica.
Però l'austerità che abbiamo subito negli ultimi anni non è affatto funzionale
a ristrutturare in meglio lo stato sociale. Stiamo semplicemente andando verso
un declino sempre più accelerato. Cosa vogliamo riformare in questa situazione?
Chi va a chiedere un prestito di onore con questi tassi di disoccupazione?
Tantissime cose vanno fatte e sicuramente su
molte potremmo anche trovare un accordo.
Ma se un'accusa io mi sento di formulare alla
sinistra italiana è quella di essere stata, in passato, molto, troppo,
sensibile alle sirene delle tesi riproposte qui dal professor Reichlin.
Oggi ci vuole più attenzione alla crescita.
Da un punto di vista – diciamo così – keynesiano - ci vuole un radicale
cambiamento delle politiche macroeconomiche in Europa per rilanciare la domanda
aggregata, l'occupazione, lo sviluppo.
Di questo dovrebbe occuparsi la sinistra.
(a cura di Emilio Carnevali)
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