Pagina uno ha pubblicato una mia intervista sul libro. Qui la bozza finale inviata. Free download della bella rivista. Se potete, sostenete la versione cartacea.
“Chi non rispetta le regole? Italia e Germania, le doppie
morali dell'euro”
Sergio Cesaratto (intervistato da Giovanna Cracco)
Partiamo dall'inizio: l'Italia è tra i Paesi fondatori
dell'Unione europea, e ne ha promosso e seguito l'intero percorso, dalla Ceca
alla Cee, dall'entrata nello Sme all'Atto Unico Europeo nel 1986. Approdare a
Maastricht nel 1992 e alla moneta unica era quindi in qualche modo già scritto
nella strada intrapresa, eppure non c'è dubbio che legarsi ai cosiddetti
“vincoli esterni”, in tema di bilancio pubblico e politica monetaria, è stato
un 'salto di qualità', se così possiamo definirlo, importante rispetto al far
parte solo di un mercato comune, come era l'Unione disegnata fino a quel
momento dai Trattati sottoscritti. Perché i governi italiani hanno deciso di farlo?
Tu individui nel libro ragioni sociali ed economiche...
R. In Italia il conflitto sociale esplose nel 1962-63, poi
con maggiore virulenza nel 1969, per poi continuare per tutti gli anni Settanta
– non entriamo in questa sede nelle cause di tale conflitto, o apriremmo una
parentesi troppo estesa. Frutto dell'elevato conflitto salariale e degli shock
petroliferi, l'inflazione aumentò; la svalutazione della lira consentiva
tuttavia all'Italia di difendere la competitività esterna. Aumentarono la spesa
sociale volta ad attenuare il conflitto e il sostegno alle imprese, ma non
l'imposizione fiscale. Il debito pubblico italiano ne risultò accresciuto, ma
la Banca d'Italia non faceva mancare il suo sostegno stampando moneta (nulla di
male, a mio avviso), per cui i conti erano sotto controllo. L'europeismo
italiano si spiega in grande misura come la ricerca di qualcosa che ponesse
ordine nelle nostre vicende, e in particolare arginasse il conflitto sociale e
la tentazione dei governanti di regolare questo conflitto con la spesa
pubblica. Gli accordi di cambio – al di là delle chiacchiere degli economisti –
hanno infatti il precipuo scopo di portare disciplina sociale: il conflitto
sociale genera inflazione e quest'ultima perdita di competitività; la
svalutazione del cambio fa recuperare la competitività; se quest'ultima
possibilità viene meno, si tagliano le ali al conflitto sociale. A essere benevoli, i padri dello Sme prima e dell’euro
dopo (dunque Andreatta e la sua corte di professori bolognesi, e gli uomini di
Bankitalia post-Baffi come Ciampi e Padoa-Schioppa) ritenevano che fuori dai
vincoli europei l’Italia non si sarebbe disciplinata da sola.
Nei fatti l’autoimposto vincolo esterno, se da un lato ha
certamente disciplinato il lavoro (e dagli anni Novanta la spesa pubblica), ha
dall’altro condotto il Paese in una 'stagnazione secolare'. Più precisamente,
negli anni Ottanta il vincolo estero ha determinato l’aumento del rapporto
debito pubblico/Pil. Questo per tre fattori: 1) gli elevati tassi di interesse
necessari per 'tenere il cambio', cioè per attirare capitali esteri in presenza
di disavanzi delle partite correnti (disavanzi dovuti, appunto, dal cambio
sopravvalutato); 2) l’incidenza negativa che la perdita di competitività
esterna ebbe sulla domanda aggregata e le entrate fiscali; 3) la reazione dei
governi nel periodo 1979-1991 volta a sostenere la domanda interna a fronte,
appunto, di questa incidenza negativa. Dal 1992 con Maastricht l’orientamento
fiscale si fa molto restrittivo e con lo scemare degli effetti positivi della
svalutazione del 1992-3 il debito pubblico esplode di nuovo, anche per il
completamento della liberalizzazione dei movimenti di capitale, conclusa nel
1990. L’epoca dell’euro comincia nel 1995, con il vantaggio di tassi di interesse
più bassi, certo, ma con una lenta perdita di competitività e una politica
fiscale restrittiva. Se il rapporto debito/Pil diminuisce, dal 1995 la
produttività stagna. Senza crescita della domanda, infatti, le imprese non
investono e non innovano. C’erano alternative? Difficile dirlo. Ma impariamo
però la lezione. Come intuì Paolo Baffi, l’idea di raddrizzare il Paese coi
tassi fissi non era un’idea feconda. I tassi di cambio fissi sono una gabbia al
conflitto sociale, al punto che eminenti economisti 'borghesi' li hanno visti
come incompatibili con la democrazia.
L'eurozona è in crisi, e su questo non c'è dubbio. È
iniziata nel 2007/2008, con l'esplosione della bolla finanziaria dei subprime
statunitensi, il fallimento della Lehman Brothers e tutto quello che ne è
seguito. È stata una crisi che ha investito l'intero globo, in dinamiche e
tempi differenti, vero è però che se esaminiamo i fondamentali di diversi Paesi
l'inversione di tendenza e l'uscita dalla crisi si è iniziata a registrare –
giusto a livello di dati economici, l'impoverimento della popolazione è altra
cosa. Eppure alcuni Stati europei, i cosiddetti Paesi periferici, tra cui
l'Italia, arrancano. C'è evidentemente un problema strutturale
nell'architettura del sistema della moneta unica. Tu parli di “violazione delle
corrette regole del gioco” da parte della Germania, non solo delle regole
scritte nei Trattati ma anche di quelle non scritte ma riconosciute dalla
disciplina economica come necessarie per il funzionamento di un sistema a cambi
fissi quale è l'euro, e affermi che il modello tedesco è incompatibile con
queste regole. Che regole ha violato e continua a violare la Germania?
R. Il termine “regole del gioco” fu coniato per il gold
standard (il sistema aureo in cui le valute erano convertibili in
oro a un tasso prefissato, e avevano dunque rapporti di cambio fissi fra di
loro), un sistema a cui Michael Bordo e altri hanno assimilato l’euro. L’idea
era che il Paese in surplus commerciale, accumulando oro (o monete convertibili
in oro) avrebbe dovuto lasciar correre l’inflazione perdendo competitività e
aggiustando così i conti con l’estero. Questo avrebbe consentito ai Paesi
deficitari di incorrere in una minore deflazione. Insomma l’aggiustamento
sarebbe dovuto ricadere su entrambe le parti. Questo non accadde, e infatti nel
corso degli anni Venti e Trenta il gold standard fu abbandonato in
quanto apportava un’impronta deflazionistica in una economia globale già in
crisi. Questa descrizione dei meccanismi di aggiustamento è un po’ scolastica.
In termini più concreti, l’economia in surplus deve effettuare politiche
economiche espansive: esattamente l’opposto di quanto ora accade con la
Germania e le sue politiche mercantiliste, che ha un avanzo spropositato e
adotta una politica fiscale restrittiva con un surplus di bilancio.
Sintetizzando, la Germania viola queste due 'regole' base: ha da anni un avanzo
commerciale ben superiore al 6% fissato dal Six
Pack, una normativa europea; si rifiuta di interrompere la moderazione
salariale per rilanciare la domanda interna, e quindi aumentare le
importazioni, e in tal modo viola di fatto anche due regole non scritte: quella
della convergenza, nella zona euro, di tassi di inflazione vicini al 2%, e
quella di mantenere la crescita dei salari nominali in linea con la
produttività
Chiaramente la Germania si muove all'interno dell'unione
monetaria proteggendo i propri interessi economici; nel sottotitolo del libro,
però, tu parli di “doppia morale”, scomodando quindi un concetto, quello di
moralità, che generalmente ha ben poco a che fare con l'economia. A meno che
non si parli di ordoliberismo, un pensiero economico nato, non a caso, a
Friburgo, e infatti ne parli...
R. Sì, chiaramente mi riferisco all’ordoliberismo, un'ideologia (stento a chiamare economia questo accrocco di chiacchiere) che permea il modo di pensare
delle élite tedesche. Il pensiero ordoliberista si è fatto portatore in
economia di un giudizio morale attraverso il 'principio di responsabilità' e il
conseguente concetto di 'colpa', e tutto ciò che non è pareggio di bilancio è
divenuto immorale, il debito è immorale ecc. Ma come al solito il moralista è
il peggior peccatore. Lo Stato tedesco ha aiutato con centinaia di miliardi le
banche tedesche, e le grandi banche di quel Paese sono banche speculative ed
erano in crisi perché protagoniste del tracollo finanziario americano; alla Germania fu in parte condonato e in parte
dilazionato il debito di guerra, ma non altrettanta benevolenza Berlino ha
mostrato con la Grecia. E dalla crisi la Germania a stra-guadagnato: dall’euro
debole, che ha favorito ancora di più le sue esportazioni, alla fuga dei
capitali dai Paesi periferici verso i suoi titoli di Stato, con enormi risparmi
di spesa per interessi – è stato calcolato che tra il 2010 e il 2015 lo Stato
tedesco si è finanziato risparmiano interessi per 100 miliardi, pari al 3% del
Pil! – m ). Il danno e la beffa per noi!
Nel libro affermi che “l'unione monetaria è basata su
principi antidemocratici che vedono la prevalenza della flessibilità dei
mercati sui principi di democrazia sociale”, e che “la fine della sovranità
economica è la fine della democrazia”. Non è semplice per un cittadino che non
mastichi di economia capire perché la sovranità monetaria e una banca centrale
che dialoghi con la politica siano condizioni indispensabili per l'esistenza
della democrazia in un Paese. Ce lo spieghi?
R La democrazia consiste nel decidere sui diritti civili e
sulla politica economica. La politica economica si basa su tre elementi:
politica fiscale, politica monetaria e politica del cambio. Tutti e tre ci sono
ora sottratti da istituzioni sovranazionali. Ma in Europa non esiste un
interesse sovranazionale comune. In ogni caso il nostro voto riguarda ora i
soli diritti civili. È una
menomazione esiziale della democrazia. La sinistra europeista e cosmopolita non
lo capisce, ritiene che l’internazionalismo sia non avere Patria. Può anche
averlo detto qualche padre del socialismo, ma è sbagliato, come ben sapevano
Togliatti o Lelio Basso. Internazionalismo significa battersi per la libertà
dei popoli, per la loro libertà di decidere il proprio destino. Senza uno Stato
nazionale scompare la lotta di classe. Tutta questa operazione di smantellamento
dell’autonomia democratica è legata al disegno dell’autoimposto vincolo estero
di cui abbiamo detto sopra. Questo vale anche per la difesa del senso di
cultura e comunità nazionale senza la quale non c’è spirito di appartenenza
civile e democratico. La sinistra ha purtroppo lasciato alla destra queste
bandiere. E la destra tale rimane, per cui io non mi fido.
Non hai certo la sfera di cristallo, ma una domanda sul
“che fare?” è d'obbligo. Stanti gli attuali rapporti di forza l'unione monetaria
non può cambiare – anzi, la discussione attuale sulla riforma delle regole, il
cosiddetto Maastricht 2, va in direzione ancora peggiore in termini di perdita
di sovranità economica. Siamo in una situazione di stallo, e il fatto che non
esistano regole per l'uscita dall'euro mette tutti i Paesi di fronte a un salto
nel vuoto nel caso di eurexit o di rottura del sistema euro, eventualità da non
escludere nel caso esploda una nuova crisi finanziaria – che ci sarà prima o
poi, perché l'economia insegna che sono cicliche. Cosa è ragionevole ipotizzare
che comporterebbe per l'Italia l'uscita dall'euro?
R: Le prospettive di riforma progressista dell’eurozona sono
nere. La logica tedesca è solo quella di darci in pasto ai mercati affinché ci
discipliniamo (come se fossimo davvero indisciplinati!). Buone le proposte del
documento del prof. Paolo Savona, ma che si limitano a chiedere una commissione
di studio e, si sa, una commissione di studio non la si nega a nessuno.
Nel caso di una crisi finanziaria e di attacco dei mercati
al debito pubblico italiano le ipotesi sono: a) Troika (ops! Ci scusi signor
Tsipras, istituzioni) più un nuovo Monti (è già pronto da tempo: Enrico Letta
con magari Draghi presidente della Repubblica); b) uscita.
L’uscita implica problemi formidabili sia nel breve che nel
lungo periodo. Molto dipende se ci sono o meno ritorsioni europee. In sintesi,
nel breve periodo gli 'amici' europei ci possono staccare la spina di Target 2,
il sistema elettronico dei pagamenti su cui viaggiano le nostre operazioni
bancarie. Sarebbe la paralisi, ma anche un atto di guerra nei nostri confronti.
Nel medio periodo c’è il problema del debito estero non ridenominabile in
nuove-lire (incluso parte del debito pubblico e i saldi Target 2). Si tratta di
aprire negoziati. Meno preoccupante è il fronte svalutazione/inflazione, sui
cui si esercitano i catastrofisti più sciocchi. La svalutazione di cui ha
bisogno la lira sarebbe limitata. L’inflazione deve essere tenuta sotto
controllo da una rigida politica dei redditi (il caro amico Giorgio Cremaschi
se ne faccia una ragione). I salari aumenteranno con la ripresa della
produttività. Importante è che con gli spazi dateci dalla svalutazione, si
possa fare una espansione fiscale tale da far riprendere subito occupazione e
produttività. Ma, ripeto, il punto chiave è l’atteggiamento di Francia e
Germania.
Paginauno n. 59 - ottobre/novembre 2018 - anno XII
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