«Ricchi per caso», il capitalismo e le istituzioni inefficienti
Sergio Cesaratto
L’Italia si avvia alle elezioni senza che la politica
indichi una direzione per il Paese. Il volume “Ricchi per caso” (il mulino,
2017, 319 pp. 19€) indaga le ragioni profonde del drammatico passaggio storico,
fra benessere e declino, che l’Italia sta attraversando. Il lavoro è curato da
Paolo Di Martino (Università di Birmingham) e Michelangelo Vasta (Università di
Siena), primi inter pares in un
gruppo di storici economici (che include G. Cappelli, A. Colli, E. Felice, A.
Nuvolari e A. Rinaldi). Al centro vi sono le istituzioni socio-politiche che
costituiscono la sua costituzione reale – ostacolo ai nobili intenti della Costituzione
formale. Gli autori si rifanno a un filone della letteratura economica che identifica
nell’appropriatezza di regole e istituzioni, formali e informali, l’anima dello
sviluppo in un continuum fra società politica e società civile spesso
dimenticato da coloro che si scagliano contro la casta.
La letteratura economica sulle istituzioni non è senza
obiezioni. Rammento, ad esempio, l’accesa discussione su The New York Review of Books nel 2012 in cui Jared Diamond (il
famoso autore di “Armi, acciaio e malattie”) criticava Daron Acemoglu, uno dei
padri del moderno istituzionalismo, di aver trascurato le basi materiali
(l’esistenza di un sovrappiù) che presiedono all’emergere delle istituzioni.
Fra i molti pregi, un limite di “Ricchi per caso” è il mancato approfondimento
della varietà istituzionale nel nostro Paese quale spiegata dalle condizioni
materiali di produzione che si sono storicamente affermate nelle diverse aree –
conducendo, come argomentato nel volume, a istituzioni più “estrattive” nel
Mezzogiorno, in cui l’élite tende ad appropriarsi delle risorse, a fronte di
istituzioni più “inclusive” in Alta Italia. Le istituzioni una volta
stabilitesi predeterminano il futuro e possono anche “contaminare”, nel bene o
nel male, le istituzioni di altre regioni. Sono terreni su cui questo
contributo e la storia del nostro Paese sollecitano studi più approfonditi.
Il volume si concentra in particolare sull’appropriatezza
delle istituzioni formali di cui il Paese si è dotato in relazione
all’innovazione. Sottolineano gli autori come la capacità di innovare è il
minimo sindacale in un mondo capitalista dove si deve sempre correre per
rimanere allo stesso posto. Le classi dirigenti italiane, in particolare nella
fase post-unitaria, ebbero tuttavia scarsa consapevolezza dell’importanza
dell’istruzione di base, soprattutto per il riscatto del Sud, predeterminando
il permanere di forti divari. Anche la debolezza strutturale dell’apparato
manifatturiero italiano – con una sproporzione di piccole, medie e micro
imprese – è stata favorita da particolari istituzioni legislative e politiche.
L’ideologia dominante è stata spesso volta a favorire la piccola impresa. Il
diritto non ha sostenuto il rischio imprenditoriale, mentre la farraginosità di
norme e burocrazia ha favorito lo sviluppo di professioni “avventizie”, come i
commercialisti. La grande impresa ha privilegiato la protezione del mercato
interno allo sviluppo multinazionale.
Il volume è molto pessimista circa il futuro - il
titolo “Ricchi per caso” non è accompagnato da un punto di domanda - suggerendo
una casualità della crescita italiana nel dopoguerra, una deviazione fortuita
da un trend di crescita “lento” a cui siamo destinati a tornare. Sottolineando
al riguardo il ruolo delle istituzioni, il volume enfatizza soprattutto i
fattori che condizionano lo sviluppo dal “lato dell’offerta”, sebbene gli
autori prendano nettamente le distanze da coloro che attribuiscono ogni male
alle rigidità istituzionali nei mercati del lavoro o dei prodotti. Il focus
sull’offerta può nondimeno lasciare insoddisfatti coloro che assegnano al “lato
della domanda aggregata” un ruolo altrettanto decisivo. Se, ad esempio, istituzioni
appropriate costituiscono un presupposto per l’innovazione, la stagnazione
della produttività è anche spiegata da fattori di domanda e da scelte culminate
con la moneta unica. Essa non si è rivelata un canale efficiente per importare
istituzioni virtuose dall’estero, bensì un vincolo istituzionale allo sviluppo
democratico del Paese.
Il manifesto 14 ottobre 2017
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