Vaci dall'estero ha tradotto su nostro invito il saggio di Antonella Palumbo già pubblicato in inglese
Può accadere di nuovo? Sulla definizione del campo di battaglia per una rivoluzione teorica in economia
Antonella Palumbo
(Università di Roma 3)
Per la nostra serie ‘Experts on Trial’, Antonella Palumbo
sostiene la necessità di liberarsi di trite parole d'ordine 'scientifiche' che
mascherano in realtà scelte sociali e politiche.
In seguito al terremoto politico rappresentato dall'elezione
di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti e dal voto a favore della
Brexit, si va sviluppando un dibattito intorno all’idea che le élite politiche e intellettuali abbiano
perso la capacità di comprendere la direzione verso cui si muove la società, e
che il loro rapporto con quest'ultima sia inficiato da una crisi di
rappresentanza. I segnali di disagio e di insofferenza si moltiplicano, mentre
cresce il timore che le elezioni francesi e tedesche diano luogo a ulteriori
esiti traumatici.
I politici, ovviamente, sono i primi destinatari della disaffezione dell’opinione pubblica, che li considera sia incapaci di rendersi conto di quanto profondamente le trasformazioni economiche degli ultimi decenni abbiano inciso sulla vita quotidiana della gente comune, sia del tutto indifferenti alle sofferenze che ne derivano. Ma anche agli economisti si guarda con crescente scetticismo, visto che gran parte della professione si è mostrata più interessata a celebrare i vantaggi della globalizzazione che ad analizzare senza preconcetti le complesse trasformazioni che questa implicava ̶ e le loro conseguenze.
I politici, ovviamente, sono i primi destinatari della disaffezione dell’opinione pubblica, che li considera sia incapaci di rendersi conto di quanto profondamente le trasformazioni economiche degli ultimi decenni abbiano inciso sulla vita quotidiana della gente comune, sia del tutto indifferenti alle sofferenze che ne derivano. Ma anche agli economisti si guarda con crescente scetticismo, visto che gran parte della professione si è mostrata più interessata a celebrare i vantaggi della globalizzazione che ad analizzare senza preconcetti le complesse trasformazioni che questa implicava ̶ e le loro conseguenze.
Il ruolo degli esperti
Segnali di una simile diffidenza possono essere letti non
solo nel voto a favore della Brexit (nonostante le fosche previsioni della
maggior parte degli economisti in merito alle sue gravi conseguenze), ma anche,
ad esempio, nella ribellione contro l'euro, che si va diffondendo in quote
sempre maggiori dell'elettorato europeo.
L'opinione pubblica europea rappresenta tuttavia un caso interessante. Fino a tempi molto recenti, l’atteggiamento prevalente nei confronti degli economisti è stato infatti sostanzialmente di fiducia e rispetto, in contrasto con l'universale disprezzo per i politici. Si può addirittura affermare che una parte dell'élite intellettuale europea (con la complicità dei media) abbia di fatto contribuito, negli ultimi decenni, ad alimentare la sfiducia nella politica e nei politici, soprattutto nei paesi dell'Europa meridionale. Un esempio recente è rappresentato dalla spiegazione che gli economisti mainstream (e i giornalisti che hanno fatto loro eco) hanno offerto dell'improvviso aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato in Italia e in altri paesi europei nel 2010-2011, rinvenendone la causa nelle dimensioni stesse del debito pubblico. La colpa del peso del debito è stata quindi addossata sui politici corrotti, che non avrebbero dato ascolto alle analisi e alle ricette proposte dagli economisti (che prescrivevano invece l'austerità). In questa narrazione, i politici non sono solo stati dipinti come corrotti e interessati, ma anche come irresponsabili e inclini al populismo. Ai politici è stato dunque dato il ruolo dei ‘cattivi’, mentre gli economisti tendevano a rappresentarsi come gli autentici difensori dell'interesse generale. [1]
La visione dell'economista come arbitro politicamente imparziale dell'interesse generale rimane tuttora prevalente tra le élite europee (soprattutto in Germania), ed è profondamente radicata nel cosiddetto 'Brussels Consensus'. Essa ha anzi innervato la progettazione stessa di molte istituzioni europee, che limitano il potere discrezionale e subordinano le istanze politiche alle decisioni di organismi tecnici (come la Banca centrale europea) o a una serie di regole, le une e le altre conformi alle presunte superiori conoscenze degli economisti. Se oggi il consenso popolare sulla saggezza degli economisti vacilla, questo è dovuto al disagio sociale causato dalle politiche di austerità e dalla crescente diseguaglianza dei redditi e delle opportunità che ha caratterizzato questi decenni di globalizzazione - con la grande quantità di ‘perdenti’ che tende a produrre.
L'opinione pubblica europea rappresenta tuttavia un caso interessante. Fino a tempi molto recenti, l’atteggiamento prevalente nei confronti degli economisti è stato infatti sostanzialmente di fiducia e rispetto, in contrasto con l'universale disprezzo per i politici. Si può addirittura affermare che una parte dell'élite intellettuale europea (con la complicità dei media) abbia di fatto contribuito, negli ultimi decenni, ad alimentare la sfiducia nella politica e nei politici, soprattutto nei paesi dell'Europa meridionale. Un esempio recente è rappresentato dalla spiegazione che gli economisti mainstream (e i giornalisti che hanno fatto loro eco) hanno offerto dell'improvviso aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato in Italia e in altri paesi europei nel 2010-2011, rinvenendone la causa nelle dimensioni stesse del debito pubblico. La colpa del peso del debito è stata quindi addossata sui politici corrotti, che non avrebbero dato ascolto alle analisi e alle ricette proposte dagli economisti (che prescrivevano invece l'austerità). In questa narrazione, i politici non sono solo stati dipinti come corrotti e interessati, ma anche come irresponsabili e inclini al populismo. Ai politici è stato dunque dato il ruolo dei ‘cattivi’, mentre gli economisti tendevano a rappresentarsi come gli autentici difensori dell'interesse generale. [1]
La visione dell'economista come arbitro politicamente imparziale dell'interesse generale rimane tuttora prevalente tra le élite europee (soprattutto in Germania), ed è profondamente radicata nel cosiddetto 'Brussels Consensus'. Essa ha anzi innervato la progettazione stessa di molte istituzioni europee, che limitano il potere discrezionale e subordinano le istanze politiche alle decisioni di organismi tecnici (come la Banca centrale europea) o a una serie di regole, le une e le altre conformi alle presunte superiori conoscenze degli economisti. Se oggi il consenso popolare sulla saggezza degli economisti vacilla, questo è dovuto al disagio sociale causato dalle politiche di austerità e dalla crescente diseguaglianza dei redditi e delle opportunità che ha caratterizzato questi decenni di globalizzazione - con la grande quantità di ‘perdenti’ che tende a produrre.
La sfiducia nell'autorità degli esperti è venuta crescendo
lentamente. Già qualche anno fa, l'esplosione della grande crisi finanziaria
negli Stati Uniti e le sue conseguenze globali hanno iniziato a mettere a
repentaglio la reputazione degli economisti. Il fatto che la dimensione e la
profondità della crisi avessero colto di sorpresa la grande maggioranza degli
economisti, e che tanti di loro non avessero la minima idea di come
affrontarla, fu visto allora come una sorta di scandalo intellettuale. Nelle
università il disagio ha preso anche la forma di protesta aperta, come è
testimoniato da una serie di iniziative studentesche [2] e dalle discussioni
ancora in corso sulla necessità di introdurre percorsi formativi alternativi, discussioni
che hanno coinvolto anche molti studiosi di orientamento critico. [3] Allo
stesso tempo, per i settori più attivi e
informati dell’opinione pubblica è del tutto chiaro che il desiderio di un
cambiamento in politica implica anche un profondo ripensamento delle relazioni
economiche e un riequilibrio dei poteri economici (questi temi sono stati al
centro, per esempio, del movimento Occupy
e del movimento degli Indignados).
Sia che si tratti di critica consapevole che di più istintivo disagio, l’obiettivo è il corpus di dottrine economiche che sono alla base dell'ideologia neoliberista. Deregolamentazione dei mercati, riduzione delle tutele dei lavoratori, abolizione delle barriere commerciali, ridimensionamento dello stato sociale e riduzione della spesa pubblica, sono tutte ricette politiche che derivano dalla premessa teorica che il libero mercato possieda la capacità di autoregolarsi, e sia in grado di assicurare automaticamente risultati ottimali, mentre la regolamentazione e l'intervento dello Stato sarebbero inefficaci, distorsivi o anche peggio. La professione economica ha giocato un ruolo non secondario nel favorire l'adozione generalizzata di queste politiche, i cui effetti sono sempre più percepiti come fallimentari e creatori di divisioni e iniquità. Del resto, è piuttosto singolare che indicazioni politiche così specifiche e lineari derivino in genere da modelli estremamente astratti. Un'accusa spesso rivolta all'economia è che essa si occupa di un mondo immaginario, invece di studiare e spiegare i reali processi economici che incidono sulla vita delle persone.
Sia che si tratti di critica consapevole che di più istintivo disagio, l’obiettivo è il corpus di dottrine economiche che sono alla base dell'ideologia neoliberista. Deregolamentazione dei mercati, riduzione delle tutele dei lavoratori, abolizione delle barriere commerciali, ridimensionamento dello stato sociale e riduzione della spesa pubblica, sono tutte ricette politiche che derivano dalla premessa teorica che il libero mercato possieda la capacità di autoregolarsi, e sia in grado di assicurare automaticamente risultati ottimali, mentre la regolamentazione e l'intervento dello Stato sarebbero inefficaci, distorsivi o anche peggio. La professione economica ha giocato un ruolo non secondario nel favorire l'adozione generalizzata di queste politiche, i cui effetti sono sempre più percepiti come fallimentari e creatori di divisioni e iniquità. Del resto, è piuttosto singolare che indicazioni politiche così specifiche e lineari derivino in genere da modelli estremamente astratti. Un'accusa spesso rivolta all'economia è che essa si occupa di un mondo immaginario, invece di studiare e spiegare i reali processi economici che incidono sulla vita delle persone.
Tuttavia, se così tanti economisti negli ultimi quattro
decenni hanno abbracciato questo atteggiamento e questo punto di vista, sarebbe
ingiusto ritenere che ciò sia spiegabile (perlomeno interamente) in termini di
conformismo intellettuale o di servilismo nei confronti degli interessi dei
potenti. La convinzione neoliberista in merito alle virtù autoregolatrici del
mercato trova infatti giustificazioni teoriche profonde nel cuore stesso della
disciplina economica - è ciò che viene insegnato agli studenti in quasi tutti i
corsi introduttivi di economia.
Neoliberismo e teoria economica
Nonostante il disagio che esso ha prodotto sia all'interno che
all'esterno della professione economica, lo shock della crisi del 2007-2009 non
ha provocato alcun cambiamento radicale del paradigma teorico dominante né nel
campo della ricerca né dell'insegnamento. Ci sono state, è vero, riscoperte
pragmatiche delle politiche keynesiane (negli Stati Uniti più che in Europa),
mentre una certa attenzione, per un periodo di tempo limitato, è stata rivolta
agli economisti che avevano dubitato della solidità dei mercati finanziari e
pronosticato l'arrivo di importanti turbolenze. Ma il nucleo della teoria dominante
non è cambiato molto. Oggi, come negli ultimi decenni, prevale un’unica
struttura teorica di fondo, ben riconoscibile nonostante la grande pluralità di
teorie, modelli e campi specifici di applicazione che caratterizzano la
disciplina. Secondo questa impostazione, i problemi economici devono essere
analizzati in termini delle scelte massimizzanti di individui razionali, che
agiscono sulla base delle loro preferenze e delle loro risorse, interagendo nel
mercato con altri individui che, in base a diverse preferenze e risorse,
compiono scelte diverse. Questa interazione determina i prezzi di equilibrio,
intesi come prezzi che uguagliano la domanda e l'offerta di ogni bene e di ogni
fattore di produzione. Questa struttura di pensiero è così basilare, che di
solito non è riconosciuta come espressione di un particolare punto di vista, ma
identificata con il linguaggio economico tout
court. Perfino i modelli macroeconomici si basano oggi su questa visione,
che estrapola leggi economiche relative agli aggregati e le relative
prescrizioni di politica economica da ipotesi e analisi che riguardano il
comportamento individuale. [4]
Questa impostazione teorica, si sostiene, è abbastanza
generale e flessibile da consentire risultati diversi e diverse implicazioni
politiche, che possono essere ottenuti mediante opportune ipotesi quali, ad
esempio, mercati imperfetti o incompleti, vincoli di liquidità, o rigidità di
qualsiasi tipo. [5] In seguito alla crisi, infatti, in un numero crescente di
modelli sono stati presi in considerazione vari tipi di shock finanziari e
reali, e risultati non ottimali. Inoltre, alcuni temi, come la disuguaglianza,
hanno ricevuto più attenzione. [6] Ma tutto ciò non ha comportato un vero
cambiamento nel quadro teorico di riferimento.
In realtà, questa struttura teorica di base è meno flessibile e generale di quanto di solito la si dipinga. Una conseguenza rilevante del supporre che il comportamento economico sia il prodotto delle scelte massimizzanti di individui razionali (e liberi) è che la soluzione di mercato prevista dalla teoria risulta naturalmente dotata di proprietà ottimali. e’ del tutto logico assumere che gli agenti razionali scelgano la migliore allocazione possibile delle proprie risorse; se le forze di mercato sono libere di operare attraverso la flessibilità dei prezzi e dei tassi di remunerazione, ne segue che il sistema tende spontaneamente a raggiungere una soluzione complessivamente efficiente, il che implica anche assenza di spreco di risorse. Di conseguenza, qualsiasi risultato sub-ottimale, per esempio la presenza di disoccupazione involontaria, deve necessariamente essere spiegato con la presenza di ostacoli (come le imperfezioni e rigidità viste sopra), che frenano (o impediscono del tutto) l’azione dei meccanismi riequilibratori.
In ultima analisi, lo scopo della politica economica, secondo questo punto di vista, dovrebbe essere semplicemente quello di rimuovere tali ostacoli.
Dunque la fiducia nelle proprietà autoregolative del mercato è profondamente radicata nella teoria economica - perlomeno nell'impostazione teorica attualmente dominante.
In realtà, questa struttura teorica di base è meno flessibile e generale di quanto di solito la si dipinga. Una conseguenza rilevante del supporre che il comportamento economico sia il prodotto delle scelte massimizzanti di individui razionali (e liberi) è che la soluzione di mercato prevista dalla teoria risulta naturalmente dotata di proprietà ottimali. e’ del tutto logico assumere che gli agenti razionali scelgano la migliore allocazione possibile delle proprie risorse; se le forze di mercato sono libere di operare attraverso la flessibilità dei prezzi e dei tassi di remunerazione, ne segue che il sistema tende spontaneamente a raggiungere una soluzione complessivamente efficiente, il che implica anche assenza di spreco di risorse. Di conseguenza, qualsiasi risultato sub-ottimale, per esempio la presenza di disoccupazione involontaria, deve necessariamente essere spiegato con la presenza di ostacoli (come le imperfezioni e rigidità viste sopra), che frenano (o impediscono del tutto) l’azione dei meccanismi riequilibratori.
In ultima analisi, lo scopo della politica economica, secondo questo punto di vista, dovrebbe essere semplicemente quello di rimuovere tali ostacoli.
Dunque la fiducia nelle proprietà autoregolative del mercato è profondamente radicata nella teoria economica - perlomeno nell'impostazione teorica attualmente dominante.
Cambiamenti di paradigma nella teoria economica
Il quadro di riferimento concettuale appena descritto è
proprio della teoria neoclassica, l'approccio che ha dominato l'economia dagli
ultimi decenni del 19° secolo fino ad oggi. Come è noto, negli anni '30 Keynes mise
in discussione questa impostazione, mostrando la cronica tendenza della domanda
aggregata ad essere insufficiente ad assorbire la produzione di pieno impiego,
e quindi la necessità di investimenti pubblici che correggano i risultati non
ottimali del mercato.
L'impatto del keynesismo sulla professione economica e sulla politica economica fu così forte che esso divenne l’impostazione dominante nei decenni successivi, senza però soppiantare del tutto la teoria neoclassica. Questa, al contrario, continuò a predominare nel campo della microeconomia, mentre Keynes aveva concentrato l'attenzione sulle relazioni macroeconomiche, con la conseguenza che le due branche dell'economia spesso offrivano risultati divergenti (e persino contraddittori). Inoltre, le teorie di Keynes furono ben presto reinterpretate in direzione ‘imperfezionista’, di modo che, benché la sua tesi sulla tendenza sistematica alla disoccupazione e allo spreco di risorse fosse all’epoca generalmente accettata, questa fu però interpretata come il prodotto di rigidità, in particolare quella dei salari nominali. In questo modo la rivoluzione teorica di Keynes fu in parte depotenziata, mentre modelli ibridi hanno cercato in misura sempre maggiore di conciliare l'analisi keynesiana dei macro-aggregati con i fondamenti neoclassici, spesso giungendo alla conclusione che i meccanismi autoregolatori sarebbero stati comunque funzionanti nel lungo periodo.
Negli anni '60 e '70 il monetarismo ha duramente criticato questo compromessi teorici ed è riuscito a ristabilire il predominio della visione neoclassica, non solo nella parte più astratta della teoria, ma anche nei modelli e nelle politiche macroeconomiche, fondando così l’attuale consenso.
Lo sviluppo storico del pensiero economico mostra dunque non solo una successione di differenti paradigmi teorici dominanti (come accade in tutti i campi della conoscenza umana), ma anche, in questa successione, la temporanea scomparsa e il successivo riemergere di approcci precedentemente abbandonati. Può infatti accadere, nelle scienze sociali, che un particolare approccio teorico venga abbandonato non perché il progredire delle conoscenze lo abbia reso obsoleto, ma per altri motivi, quali le sue implicazioni politiche o la visione della società che esso comporta. Lo stesso approccio può così essere riscoperto in un diverso momento storico, quando il suo potenziale di analisi torna a essere apprezzato. Allo stesso tempo, data la ben nota impossibilità, in economia, di confermare o confutare una teoria attraverso esperimenti controllati, l’apparire di nuovi dati di fatto non è mai sufficiente, di per sé, a indurre un cambiamento nel paradigma intellettuale dominante.
Perfino quando i fatti sono molto difficili da conciliare con la teoria e sembrano porre ineludibili questioni teoriche, un buon teorico può sempre invocare la categoria dell'eccezione, oppure può sostenere che sono intervenuti altri fattori a modificare le condizioni osservate nella realtà rispetto alle ipotesi della teoria, spiegando così la mancanza di coerenza tra i fatti e le previsioni teoriche.
D'altra parte, un disagio diffuso verso lo stato attuale dell'economia, anche quando prende la forma di protesta cosciente e organizzata, può sì alimentare filoni di pensiero eterodossi, ma è generalmente considerato troppo ideologico per mettere seriamente in discussione il paradigma ‘scientifico’ dominante.
I cambiamenti di paradigma teorico avvengono, e sono sempre avvenuti, nei momenti in cui si manifestino contemporaneamente una percezione diffusa che la teoria dominante non sia in grado di affrontare quelli che sono sentiti come i problemi economici più urgenti dalla società e una proposta alternativa teorica che sorga all'interno dell'economia stessa - come è avvenuto sia per la rivoluzione keynesiana sia per quella monetarista.
Una prima implicazione di quanto detto è che l'economista critico non può contare sulla pura forza dei fatti per veder prevalere il suo punto di vista; ma dovrà combattere la battaglia teorica. Una seconda implicazione è che, nel ricercare nuovi paradigmi teorici che possano seriamente mettere in discussione il consenso attualmente prevalente in economia, non è improprio guardare alla storia passata della disciplina.
L'impatto del keynesismo sulla professione economica e sulla politica economica fu così forte che esso divenne l’impostazione dominante nei decenni successivi, senza però soppiantare del tutto la teoria neoclassica. Questa, al contrario, continuò a predominare nel campo della microeconomia, mentre Keynes aveva concentrato l'attenzione sulle relazioni macroeconomiche, con la conseguenza che le due branche dell'economia spesso offrivano risultati divergenti (e persino contraddittori). Inoltre, le teorie di Keynes furono ben presto reinterpretate in direzione ‘imperfezionista’, di modo che, benché la sua tesi sulla tendenza sistematica alla disoccupazione e allo spreco di risorse fosse all’epoca generalmente accettata, questa fu però interpretata come il prodotto di rigidità, in particolare quella dei salari nominali. In questo modo la rivoluzione teorica di Keynes fu in parte depotenziata, mentre modelli ibridi hanno cercato in misura sempre maggiore di conciliare l'analisi keynesiana dei macro-aggregati con i fondamenti neoclassici, spesso giungendo alla conclusione che i meccanismi autoregolatori sarebbero stati comunque funzionanti nel lungo periodo.
Negli anni '60 e '70 il monetarismo ha duramente criticato questo compromessi teorici ed è riuscito a ristabilire il predominio della visione neoclassica, non solo nella parte più astratta della teoria, ma anche nei modelli e nelle politiche macroeconomiche, fondando così l’attuale consenso.
Lo sviluppo storico del pensiero economico mostra dunque non solo una successione di differenti paradigmi teorici dominanti (come accade in tutti i campi della conoscenza umana), ma anche, in questa successione, la temporanea scomparsa e il successivo riemergere di approcci precedentemente abbandonati. Può infatti accadere, nelle scienze sociali, che un particolare approccio teorico venga abbandonato non perché il progredire delle conoscenze lo abbia reso obsoleto, ma per altri motivi, quali le sue implicazioni politiche o la visione della società che esso comporta. Lo stesso approccio può così essere riscoperto in un diverso momento storico, quando il suo potenziale di analisi torna a essere apprezzato. Allo stesso tempo, data la ben nota impossibilità, in economia, di confermare o confutare una teoria attraverso esperimenti controllati, l’apparire di nuovi dati di fatto non è mai sufficiente, di per sé, a indurre un cambiamento nel paradigma intellettuale dominante.
Perfino quando i fatti sono molto difficili da conciliare con la teoria e sembrano porre ineludibili questioni teoriche, un buon teorico può sempre invocare la categoria dell'eccezione, oppure può sostenere che sono intervenuti altri fattori a modificare le condizioni osservate nella realtà rispetto alle ipotesi della teoria, spiegando così la mancanza di coerenza tra i fatti e le previsioni teoriche.
D'altra parte, un disagio diffuso verso lo stato attuale dell'economia, anche quando prende la forma di protesta cosciente e organizzata, può sì alimentare filoni di pensiero eterodossi, ma è generalmente considerato troppo ideologico per mettere seriamente in discussione il paradigma ‘scientifico’ dominante.
I cambiamenti di paradigma teorico avvengono, e sono sempre avvenuti, nei momenti in cui si manifestino contemporaneamente una percezione diffusa che la teoria dominante non sia in grado di affrontare quelli che sono sentiti come i problemi economici più urgenti dalla società e una proposta alternativa teorica che sorga all'interno dell'economia stessa - come è avvenuto sia per la rivoluzione keynesiana sia per quella monetarista.
Una prima implicazione di quanto detto è che l'economista critico non può contare sulla pura forza dei fatti per veder prevalere il suo punto di vista; ma dovrà combattere la battaglia teorica. Una seconda implicazione è che, nel ricercare nuovi paradigmi teorici che possano seriamente mettere in discussione il consenso attualmente prevalente in economia, non è improprio guardare alla storia passata della disciplina.
In cerca di alternative
Perché avvenga un profondo cambiamento nella teoria
economica è necessario ricorrere a una struttura di pensiero radicalmente
diversa.
L'enfasi sulle preferenze e scelte individuali al centro del paradigma neoclassico riflette l'ambizione di quello che, negli ultimi decenni del 19° secolo, era un sistema di pensiero nuovo, che proponeva di basare la spiegazione dei fenomeni economici interamente sulle forze psichiche della mente umana, interpretandoli dunque come fenomeni naturali piuttosto che sociali. Insieme all'uso del linguaggio matematico (calcolo differenziale), questo implicò che l'economia politica ̶ che proprio in quell’epoca cambiava il suo nome in ‘scienza economica’ [7] ̶ poteva rivendicare uno status teorico analogo a quello delle scienze naturali. Oggetto di questa nuova scienza era il comportamento dell'individuo astratto e indifferenziato, che interagisce con altri individui nel mercato, anch’esso concepito in modo astratto. Questo implica una concezione astorica del processo economico, che inoltre è visto come lineare, cioè che procede dalle dotazioni dei fattori originari alla produzione, allo scambio e al consumo, con quest'ultimo visto come il fine ultimo dell'attività economica. [8] I prezzi di equilibrio garantiscono automaticamente l'equilibrio tra domanda e offerta sul mercato riflettendo in ultima analisi la scarsità relativa delle risorse; anche la distribuzione del reddito tra salari e profitti è governata dai meccanismi del mercato e riflette l'equilibrio naturale del sistema.
Questa concezione del processo economico, tuttavia, non è affatto l'unica possibile. In realtà, dal punto di vista storico, essa sostituì un approccio completamente diverso, quello dell'economia politica classica di Adam Smith e David Ricardo, che aveva avuto la sua maggiore fioritura fino ai primi decenni del 19° secolo.
Al centro del sistema di pensiero classico c'è la nozione di surplus, definito come quella parte del prodotto dell'economia che può essere liberamente destinata a qualsiasi uso (consumo, accumulazione o perfino spreco) senza pregiudicare la possibilità dell’economia di riprodursi. [9] La teoria classica della distribuzione analizza il modo in cui tale surplus è diviso tra i partecipanti alla produzione: si basa sull'idea che una variabile distributiva sia determinata, indipendentemente dall’altra, da regole sociali, mentre l’altra emerge residualmente. Gli economisti classici consideravano il salario reale la variabile distributiva indipendente, e generalmente lo concepivano come determinato dal livello delle sussistenze. Questa determinazione era il risultato del conflitto sociale e rifletteva lo squilibrio di potere tra le classi, che consentiva al profitto (e alla rendita) di appropriarsi dell'intero surplus. [10]
La teoria classica mette in luce così il carattere sociale (vale a dire, arbitrario) della distribuzione e la sua natura conflittuale. Storicamente, questa teoria della distribuzione era basata su una teoria del valore che concepiva il valore (prezzo relativo) della merce come indipendente dalla distribuzione stessa, e come determinato dalle condizioni tecniche di produzione. Di conseguenza, in contrasto con la teoria neoclassica, l'economia politica classica vede i prezzi relativi non come indici di scarsità, determinati dall'equilibrio tra domanda e offerta. Al contrario, i prezzi rappresentano il costo al quale un bene può essere prodotto.
La teoria classica concepisce il processo economico come circolare, piuttosto che lineare; l'accento è posto sulla produzione (e quindi sull'accumulazione e sullo sviluppo), piuttosto che sullo scambio. Il centro dell'analisi non è il comportamento dell'individuo astratto e indifferenziato, ma l'interazione tra individui, gruppi, classi sociali, che agiscono in un determinato contesto storico.
Le implicazioni di tutto questo sono meno astratte di quanto possa apparire a prima vista, se - seguendo il suggerimento di uno dei più grandi economisti del secolo scorso, Piero Sraffa - il nucleo analitico dell'economia politica classica viene preso come la base su cui fondare una visione teorica moderna del funzionamento del sistema economico. Il sistema dei prezzi relativi individuato nell'approccio classico dipende dalle condizioni tecniche e dalla regola distributiva socialmente determinata; esso assicura la compatibilità e la riproducibilità del sistema, ma non ha caratteristiche di ottimalità. [11] Questo significa che l'intervento pubblico non deve necessariamente essere visto come distorsivo di un equilibrio altrimenti ‘naturale’.
Allo stesso tempo, nell'approccio classico l'indipendenza tra i fattori che determinano i prezzi e quelli che determinano la quantità costituisce una struttura teorica ideale per riproporre l'intuizione fondamentale di Keynes riguardo alla potenziale pluralità di livelli di produzione che un sistema economico è in grado di raggiungere partendo da determinate risorse, e per fondare un'analisi dei processi di accumulazione e crescita nella quale non vi sia alcuna tendenza automatica alla piena occupazione. La rilevanza dei fattori sociali e storici, che secondo l'approccio classico sono determinanti essenziali delle grandezze economiche, implica anche che l'economia, se rifondata su basi classiche, non farebbe più un uso così massiccio del tipo di modelli astratti e astorici che attualmente dominano la disciplina.
L'enfasi sulle preferenze e scelte individuali al centro del paradigma neoclassico riflette l'ambizione di quello che, negli ultimi decenni del 19° secolo, era un sistema di pensiero nuovo, che proponeva di basare la spiegazione dei fenomeni economici interamente sulle forze psichiche della mente umana, interpretandoli dunque come fenomeni naturali piuttosto che sociali. Insieme all'uso del linguaggio matematico (calcolo differenziale), questo implicò che l'economia politica ̶ che proprio in quell’epoca cambiava il suo nome in ‘scienza economica’ [7] ̶ poteva rivendicare uno status teorico analogo a quello delle scienze naturali. Oggetto di questa nuova scienza era il comportamento dell'individuo astratto e indifferenziato, che interagisce con altri individui nel mercato, anch’esso concepito in modo astratto. Questo implica una concezione astorica del processo economico, che inoltre è visto come lineare, cioè che procede dalle dotazioni dei fattori originari alla produzione, allo scambio e al consumo, con quest'ultimo visto come il fine ultimo dell'attività economica. [8] I prezzi di equilibrio garantiscono automaticamente l'equilibrio tra domanda e offerta sul mercato riflettendo in ultima analisi la scarsità relativa delle risorse; anche la distribuzione del reddito tra salari e profitti è governata dai meccanismi del mercato e riflette l'equilibrio naturale del sistema.
Questa concezione del processo economico, tuttavia, non è affatto l'unica possibile. In realtà, dal punto di vista storico, essa sostituì un approccio completamente diverso, quello dell'economia politica classica di Adam Smith e David Ricardo, che aveva avuto la sua maggiore fioritura fino ai primi decenni del 19° secolo.
Al centro del sistema di pensiero classico c'è la nozione di surplus, definito come quella parte del prodotto dell'economia che può essere liberamente destinata a qualsiasi uso (consumo, accumulazione o perfino spreco) senza pregiudicare la possibilità dell’economia di riprodursi. [9] La teoria classica della distribuzione analizza il modo in cui tale surplus è diviso tra i partecipanti alla produzione: si basa sull'idea che una variabile distributiva sia determinata, indipendentemente dall’altra, da regole sociali, mentre l’altra emerge residualmente. Gli economisti classici consideravano il salario reale la variabile distributiva indipendente, e generalmente lo concepivano come determinato dal livello delle sussistenze. Questa determinazione era il risultato del conflitto sociale e rifletteva lo squilibrio di potere tra le classi, che consentiva al profitto (e alla rendita) di appropriarsi dell'intero surplus. [10]
La teoria classica mette in luce così il carattere sociale (vale a dire, arbitrario) della distribuzione e la sua natura conflittuale. Storicamente, questa teoria della distribuzione era basata su una teoria del valore che concepiva il valore (prezzo relativo) della merce come indipendente dalla distribuzione stessa, e come determinato dalle condizioni tecniche di produzione. Di conseguenza, in contrasto con la teoria neoclassica, l'economia politica classica vede i prezzi relativi non come indici di scarsità, determinati dall'equilibrio tra domanda e offerta. Al contrario, i prezzi rappresentano il costo al quale un bene può essere prodotto.
La teoria classica concepisce il processo economico come circolare, piuttosto che lineare; l'accento è posto sulla produzione (e quindi sull'accumulazione e sullo sviluppo), piuttosto che sullo scambio. Il centro dell'analisi non è il comportamento dell'individuo astratto e indifferenziato, ma l'interazione tra individui, gruppi, classi sociali, che agiscono in un determinato contesto storico.
Le implicazioni di tutto questo sono meno astratte di quanto possa apparire a prima vista, se - seguendo il suggerimento di uno dei più grandi economisti del secolo scorso, Piero Sraffa - il nucleo analitico dell'economia politica classica viene preso come la base su cui fondare una visione teorica moderna del funzionamento del sistema economico. Il sistema dei prezzi relativi individuato nell'approccio classico dipende dalle condizioni tecniche e dalla regola distributiva socialmente determinata; esso assicura la compatibilità e la riproducibilità del sistema, ma non ha caratteristiche di ottimalità. [11] Questo significa che l'intervento pubblico non deve necessariamente essere visto come distorsivo di un equilibrio altrimenti ‘naturale’.
Allo stesso tempo, nell'approccio classico l'indipendenza tra i fattori che determinano i prezzi e quelli che determinano la quantità costituisce una struttura teorica ideale per riproporre l'intuizione fondamentale di Keynes riguardo alla potenziale pluralità di livelli di produzione che un sistema economico è in grado di raggiungere partendo da determinate risorse, e per fondare un'analisi dei processi di accumulazione e crescita nella quale non vi sia alcuna tendenza automatica alla piena occupazione. La rilevanza dei fattori sociali e storici, che secondo l'approccio classico sono determinanti essenziali delle grandezze economiche, implica anche che l'economia, se rifondata su basi classiche, non farebbe più un uso così massiccio del tipo di modelli astratti e astorici che attualmente dominano la disciplina.
Nuove basi teoriche per la politica economica
Se si conviene che un cambiamento profondo e radicale del
paradigma teorico dominante sia auspicabile, quanto sopra discusso mostra che
tale cambiamento è anche possibile. Per quanto l'idea che la radice dei
fenomeni economici sia da cercare nelle libere scelte di individui
indipendenti, e che le grandezze economiche siano determinate dall'interazione
tra domanda e offerta, sia profondamente radicata nelle nostre abitudini di
pensiero, essa non rappresenta affatto l'unico modo di analizzare il
funzionamento interno del sistema economico. Sono esistiti ed esistono approcci
diversi, e ne possono essere concepiti di completamente nuovi, senza che si
debba dare per scontato che l'unica concezione ‘scientifica’ dell'economia sia
quella oggi dominante.
Ovviamente, una simile rivoluzione teorica non è facile da realizzare. A parte le difficoltà di conquistare la professione alle nuove modalità di pensiero (e al nuovo linguaggio che esse comportano), vi è la questione di quale capacità abbia qualsiasi paradigma alternativo di pensiero economico critico di fornire ai decisori di politica economica un insieme pienamente sviluppato di misure di politica atte ad affrontare i diversi problemi e le diverse circostanze.
Per quanto riguarda i principi generali, il paradigma alternativo ha un grande potenziale nel fornire solide basi teoriche per una politica economica attiva. Se il libero dispiegarsi delle forze del mercato non ottiene automaticamente alcun risultato ottimale, e se non vi è alcuna tendenza spontanea al pieno impiego, l'intervento pubblico è non solo possibile, ma anche desiderabile. Lo Stato può fornire la domanda necessaria per garantire la piena occupazione della forza lavoro; può guidare il processo di innovazione; può incentivare settori e prodotti specifici o disincentivare la produzione di particolari beni attraverso la tassazione e la regolamentazione; il tutto senza violare alcun presunto principio economico ‘naturale’.
Un'altra questione, tuttavia, è se un simile approccio alternativo sia in grado di fornire indicazioni politiche specifiche per affrontare i diversi problemi possibili. La questione ha sia una dimensione qualitativa sia una quantitativa. Dal primo punto di vista, la concezione del processo economico come profondamente influenzato dalle circostanze sociali e storiche e la visione conflittuale della distribuzione implicano la consapevolezza che qualsiasi decisione politica, in linea generale, favorisce alcuni gruppi danneggiandone altri, e che quindi è virtualmente impossibile definire oggettivamente qualsiasi sorta di interesse ‘collettivo’. Così, in aperto contrasto una visione ‘tecnocratica’, nessuna decisione politica può essere presa in nome di principi economici astratti, senza fare una scelta chiara su quali gruppi sociali favorire. Dal secondo punto di vista, la concezione del processo economico come influenzato da un insieme complesso di forze, tra cui i fattori sociali e storici, implica la difficoltà, se non l'impossibilità, di valutare con precisione l'effetto quantitativo di qualsiasi misura di politica (anche se, in generale, non il suo segno).
Quindi, rispetto alla visione della politica economica che deriva dalla teoria dominante, qualcosa si perde in termini di indicazioni chiare e ricette semplici. Allo stesso tempo, tuttavia, l'approccio critico consente di tenere nella dovuta considerazione le interrelazioni complesse che formano il sistema economico. Esso richiede una concezione ‘umile’ della politica economica - fatta di un continuo tentativo di ottenere il risultato socialmente desiderato, mettendo in conto la necessità di continui adeguamenti e correzioni delle misure scelte. Ciò che è importante è che un simile approccio apre la possibilità di considerare sia i risultati economici di un paese sia i loro effetti sociali (per esempio in termini di disuguaglianze) come l’esito di scelte sociali deliberate.
Tornando alla situazione politica attuale, e al possibile ruolo del pensiero economico critico nell'influenzare i cambiamenti che si stanno manifestando, è del tutto evidente che le difficoltà delle élite neoliberali non significano necessariamente il definitivo declino dell'ideologia neoliberista, né che le società stiano necessariamente scegliendo vie d'uscita dalla crisi che vadano in senso progressista. Tuttavia, il pensiero economico critico può svolgere un ruolo importante, sia nell'esporre le conclusioni ingiustificate e le false verità del pensiero dominante, sia nel fornire ai settori progressisti della società gli strumenti analitici necessari per comprendere le complessità della realtà e cercare di governarle.
Ovviamente, una simile rivoluzione teorica non è facile da realizzare. A parte le difficoltà di conquistare la professione alle nuove modalità di pensiero (e al nuovo linguaggio che esse comportano), vi è la questione di quale capacità abbia qualsiasi paradigma alternativo di pensiero economico critico di fornire ai decisori di politica economica un insieme pienamente sviluppato di misure di politica atte ad affrontare i diversi problemi e le diverse circostanze.
Per quanto riguarda i principi generali, il paradigma alternativo ha un grande potenziale nel fornire solide basi teoriche per una politica economica attiva. Se il libero dispiegarsi delle forze del mercato non ottiene automaticamente alcun risultato ottimale, e se non vi è alcuna tendenza spontanea al pieno impiego, l'intervento pubblico è non solo possibile, ma anche desiderabile. Lo Stato può fornire la domanda necessaria per garantire la piena occupazione della forza lavoro; può guidare il processo di innovazione; può incentivare settori e prodotti specifici o disincentivare la produzione di particolari beni attraverso la tassazione e la regolamentazione; il tutto senza violare alcun presunto principio economico ‘naturale’.
Un'altra questione, tuttavia, è se un simile approccio alternativo sia in grado di fornire indicazioni politiche specifiche per affrontare i diversi problemi possibili. La questione ha sia una dimensione qualitativa sia una quantitativa. Dal primo punto di vista, la concezione del processo economico come profondamente influenzato dalle circostanze sociali e storiche e la visione conflittuale della distribuzione implicano la consapevolezza che qualsiasi decisione politica, in linea generale, favorisce alcuni gruppi danneggiandone altri, e che quindi è virtualmente impossibile definire oggettivamente qualsiasi sorta di interesse ‘collettivo’. Così, in aperto contrasto una visione ‘tecnocratica’, nessuna decisione politica può essere presa in nome di principi economici astratti, senza fare una scelta chiara su quali gruppi sociali favorire. Dal secondo punto di vista, la concezione del processo economico come influenzato da un insieme complesso di forze, tra cui i fattori sociali e storici, implica la difficoltà, se non l'impossibilità, di valutare con precisione l'effetto quantitativo di qualsiasi misura di politica (anche se, in generale, non il suo segno).
Quindi, rispetto alla visione della politica economica che deriva dalla teoria dominante, qualcosa si perde in termini di indicazioni chiare e ricette semplici. Allo stesso tempo, tuttavia, l'approccio critico consente di tenere nella dovuta considerazione le interrelazioni complesse che formano il sistema economico. Esso richiede una concezione ‘umile’ della politica economica - fatta di un continuo tentativo di ottenere il risultato socialmente desiderato, mettendo in conto la necessità di continui adeguamenti e correzioni delle misure scelte. Ciò che è importante è che un simile approccio apre la possibilità di considerare sia i risultati economici di un paese sia i loro effetti sociali (per esempio in termini di disuguaglianze) come l’esito di scelte sociali deliberate.
Tornando alla situazione politica attuale, e al possibile ruolo del pensiero economico critico nell'influenzare i cambiamenti che si stanno manifestando, è del tutto evidente che le difficoltà delle élite neoliberali non significano necessariamente il definitivo declino dell'ideologia neoliberista, né che le società stiano necessariamente scegliendo vie d'uscita dalla crisi che vadano in senso progressista. Tuttavia, il pensiero economico critico può svolgere un ruolo importante, sia nell'esporre le conclusioni ingiustificate e le false verità del pensiero dominante, sia nel fornire ai settori progressisti della società gli strumenti analitici necessari per comprendere le complessità della realtà e cercare di governarle.
Riferimenti
Aspromourgos,
T. (2014), Thomas Piketty, the Future of Capitalism and the theory of
Distribution: a Review Essay, Centro
Sraffa Working Paper 7.
Garegnani,
P. (1987), Surplus Approach to Value and Distribution, in The New Palgrave: A Dictionary of Economics, (a cura di J.
Eatwell, M. Milgate e P. Newman), Palgrave Macmillan.
Kurz, H.D.
(1987), Capital Theory: Debates, in The New
Palgrave: A Dictionary of Economics, (a cura di J. Eatwell, M. Milgate e P.
Newman), Palgrave Macmillan.
Piketty, T.
(2014), Capital in the Twenty-First
Century, Harvard University Press.
Romer, P.
(2016), The Trouble With Macroeconomics, disponibile al link https://paulromer.net/wp-content/uploads/2016/09/WP-Trouble.pdf
Serrano, F.
e Melin, L.E. (2015), Political Aspects of Unemployment: Brazil's
Neoliberal U-Turn, disponibile al link http://www.excedente.org/artigos/political-aspects-of-unemployment-brazils-neoliberal-u-turn/
Sraffa, P.
(1960), Production of Commodities by
Means of Commodities, Cambridge University Press.
Stirati, A.
(2016), Piketty and the increasing concentration of wealth: some implications
of alternative theories of distribution and growth, Centro Sraffa Working Paper
18 .
Note
[1] Non sto sostenendo, naturalmente, che i politici siano
generalmente esenti da arrivismo e corruzione. La sistematica campagna
mediatica contro la classe politica nel suo insieme, tuttavia, spesso prende la
forma di un attacco indiscriminato contro l'intervento pubblico nell'economia
in quanto tale. Si veda l'illuminante analisi di Serrano e Melin (2015), relativa
al caso del Brasile.
[2] Come, ad esempio, la International
Student Initiative for Pluralist Economics e Rethinking Economics, che coinvolgono studenti di economia
provenienti da diversi paesi (v. https://www.theguardian.com/education/2014/may/04/economics-students-
overhaul-subject-teaching ).
[3] Come ad esempio il progetto CORE (v.
http://www.core-econ.org/).
[4] Anche se ci sono filoni di pensiero che mettono in
discussione la nozione tradizionale di razionalità e propongono una visione più
complessa del comportamento umano, il mainstream
teorico è interamente dominato dall'individualismo metodologico.
[5] I modelli macroeconomici sono attualmente dominati dai
cosiddetti ‘modelli di equilibrio generale dinamico stocastico', basati sulla
rappresentazione (mediante equazioni) di scelte individuali in condizioni di
incertezza. Data l'evidente difficoltà di rappresentare il comportamento di una
moltitudine di agenti diversi, i risultati macroeconomici in questi modelli
sono generalmente ottenuti in base a ipotesi semplificatrici alquanto eroiche,
come ad esempio l'esistenza di un singolo agente immortale (vedi la discussione
critica in Romer 2016). Nella versione cosiddetta ‘keynesiana’ di questi
modelli, alcuni tipi di rigidità o particolari valori di alcuni parametri
implicano il risultato che il sistema vada incontro a fluttuazioni non
ottimali.
[6] Si può forse sostenere che il diffuso interesse
suscitato dal libro di Piketty sia uno degli effetti della crisi. A parte la
novità del tema, però, il discorso di Piketty è interamente svolto nei termini
della teoria economica standard (vedi ad esempio Aspromourgos 2014, Stirati,
2016).
[7] [n.d.t.: ci si riferisce al passaggio da political economy a economics].
[8] Proprio questa concezione lineare del processo
economico, vale la pena notare, è alla base delle difficoltà analitiche che
minano la validità della teoria neoclassica da un punto di vista logico. Come è
noto, queste sono collegate alla impossibilità di un trattamento analitico
coerente del capitale, che la teoria neoclassica tende a considerare alla
stregua dei fattori originari di produzione, mentre esso è fatto di mezzi di
produzione a loro volta prodotti (il tema è stato ampiamente trattato nelle
controversie sul capitale degli anni ’60; si veda Kurz 1987, per una breve esposizione).
[9] Un’esposizione molto sintetica della teoria classica si
trova in Garegnani (1987).
[10] La sussistenza stessa aveva nell'analisi degli
economisti classici una determinazione storica, dato che la sua misura è
influenzata dalle norme e istituzioni sociali che concorrono a definire lo
standard di vita minimo in ogni specifico contesto storico. E’ opportuno
sottolineare che non solo l’esito del conflitto sociale può essere un salario
reale superiore al livello di sussistenza, ma anche che, analiticamente, è
possibile considerare il tasso di profitto come variabile indipendente e il
salario reale come residuo, come avviene ad esempio nel sistema di Sraffa
(1960).
[11] La soluzione di Sraffa al problema del valore implica,
a differenza che negli autori classici, una determinazione simultanea dei
prezzi relativi e della variabile distributiva residuale. Questa soluzione, che
dà coerenza analitica al sistema classico, conserva tuttavia la caratteristica
di base che la determinazione dei prezzi relativi avviene interamente in base
alle condizioni tecniche di produzione e alla regola sociale che governa la
distribuzione, senza alcun riferimento all’interazione tra domanda e offerta.
Sembra un'ottima sintesi dei primi capitoli del suo ultimo libro Prof. Ne conviene?
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