Intervista a Sergio Cesaratto di Fabio Cabrini su facciamo sinistra!
1. Prof.
Cesaratto, stiamo vivendo in una fase storica di grandi cambiamenti: prima il
Brexit, poi la vittoria di Donald Trump e ora, in sequenza, si terranno le
elezioni in Olanda, Francia e Germania che potrebbero modificare ulteriormente
lo scenario internazionale, in particolare quello dell'UE. A prescindere
dall'esito che uscirà dalle urne, è chiaro che i partiti pro-establishment sono
entrati in una profonda crisi specialmente quelli che fanno riferimento al PSE.
Non sarà mica che a ad essere le pallide fotocopie dell'originale, leggesi
"terza via" di Blair, si perde consenso?
La terza via si è rivelata per quel che era: una versione
neppure troppo mascherata del neo-liberismo. Un tempo la terza via era la
socialdemocrazia, fra socialismo reale e capitalismo liberista. Soprattutto nelle
sue versioni migliori come quella scandinava, quella terza via era, e rimane,
una cosa seria. L’ipotesi socialdemocratica si muove fra stati nazionali che
mantengono le leve della politica economica, del cui controllo le classi
lavoratrici si appropriano, e la cooperazione internazionale con un moderato
abbattimento dei vincoli al commercio estero. Questo aumentava comunque in
seguito alle politiche di crescita adottate nei diversi paesi (la Germania
anche allora andava a rimorchio, ma questa è un’altra storia). I controlli sui
movimenti di capitale bloccavano la finanza destabilizzante. La fine della sfida sovietica e
l’indisciplina sociale che risultò dalla piena occupazione fecero cambiare
orientamento al capitalismo. I Blair, i Veltroni, i Delors, i Prodi e D’Alema
pensarono di poter attenuare quei processi con un capitalismo compassionevole
(che tradotto significava ridurre lo stato sociale ai più sfortunati),
condividendo però in fondo la necessità di liberare le forze vive del
capitalismo dai lacci e lacciuoli della golden
age. Ha prevalso così un capitalismo basato sulla diseguaglianza e
sull’indebitamento privato, il tutto culminato nella crisi. L’Europa e l’euro
hanno costituito elementi della terza via blairiana. Il capitalismo non ha oggi
un modello, e questo è pericoloso. Prevale la disgregazione. Per contro noi non
si ha più un’alternativa socialista. Il dramma della sinistra è tutto qui. Il
capitalismo è sfasciato ma vivo – d’altronde l’instabilità è inerente a questa
forma economica. Ma senza un’idea di forma economica alternativa, quella che
c’è non può che prevalere.
2. La crisi
entro cui nostro malgrado siamo costretti a vivere, testimonia la fallacia
delle politiche economiche dominanti: né il TUS portato a zero dalla BCE,
e nemmeno lo strumento non convenzionale del QE, sono stati in grado di ridare
ossigeno alle economie della zona euro a conferma che una politica monetarie
espansiva, in assenza di una politica fiscale anch'essa espansiva, è il
classico elefante che partorisce un topolino. Sembrerebbe essere il migliore
spot a favore di chi sostiene che gli investimenti, il vero motore
dell'economia, dipendano dalla dinamica della domanda aggregata attesa, più che
dall'inconoscibile tasso d'interesse naturale.....
La politica monetaria fa quello che può, per questo sono
restio a prendermela con Draghi che resterà un grande banchiere centrale che ha
dovuto remare contro l’ottusità tedesca (si veda questa intervista a Issing). Ma senza la politica fiscale e
la redistribuzione del reddito a favore dei salari, misure che sostengono la
domanda aggregata, non c’è ripresa. Sono naturalmente misure da intraprendersi
a livello internazionale per i soliti problemi di vincolo estero. E’ vero poi
quanto si dice nella domanda, c’è un crescente riconoscimento di quanto
sostengono i migliori economisti eterodossi: gli investimenti dipendono dalla
domanda aggregata. Questo
ha per esempio recentemente affermato un importante economista legato alla alta
finanza, Steve Roach
(“Economists long ago settled the
debate over what drives business capital spending: factors affecting the cost
of capital (interest rates, taxes, and regulations) or those that influence
future demand. The demand-driven models - operating through so-called
“accelerator” effects - won hands down”). E’ interessante
come queste idee si affermino anche fra economisti conformisti, gli investimenti
dipendono dalla domanda e dunque serve la politica fiscale (Vox).
Ma è la solita logica del pescetto rosso del mio libro: l’economia
ortodossa ogni tanto riscopre cose già note (talvolta quelle giuste, altre
volte quelle sbagliate).
3. Nel suo ultimo
libro, "Sei
lezioni di economia", scrive "[...]l'euro è figlio di un
disegno svolto a smantellare il conflitto sociale e con esso ogni difesa del
lavoro, salari e stato sociale; che lo fa deprivando gli Stati nazionali delle
leve autonome della politica economica spostate presso entità sovranazionali,
fuori dalla portata del conflitto nazionale [...]. Vien da sé che un partito di
sinistra debba avere come suo primo punto del programma l'uscita dall'Ume....
Non ho molto da aggiungere al riguardo. Ma perché a
sinistra si strilla contro la delocalizzazione del capitale e si accetta la
delocalizzazione del proprio Stato nazionale? Che andiamo a votare a fare se i nostri
rispettivi governi sono privi delle leve della politica economica e
industriale? Circa l’euro, in genere i cambi fissi sono uno strumento
disciplinante per i salari poiché rendono incompatibili aumenti dei salari
nominali e reali con la competitività esterna. La rottura dell’euro, se e
quando avverrà, sarà un evento drammatico. Ma avverrà solo se uno o più popoli
la chiederanno. Sarà dunque un evento politico che chiederà risposte politiche,
e politica significa negoziazione e ricerca di nuovi assetti. I problemi li
conosciamo: ripristino dei sistemi di pagamento nel breve periodo e contenzioso
sui debiti esteri non ridenominabili nel lungo. Il pericolo è che la Germania
non voglia addivenire all’idea di soluzioni negoziate (ma del resto che fa, ci
manda i panzer?). Le sciocchezze sono di parlare di esplosioni dell’inflazione.
Ma se la rottura dell’euro avverrà, mica sarà colpa nostra perché abbiamo
denunciato l’assurdità dell’Europa monetaria (sulla base della teoria economica
standard, Mundell, Meade, Feldstein, mica qualche stravagante economista!). Sarà
il fallimento di quest’Europa, la sua insostenibilità politico-sociale, a
portare alla rottura, se vi porterà. Certo non attendetevi nulla di buono dalla
continuazione dello stato presente di cose. Pensate a cosa accadrà nei prossimi
mesi se Draghi dovesse dismettere il quantitive
easing! Altro che tagli dello 0,2%! Torneremo agli spread del 2012, Draghi
potrà utilizzare l’OMT, l’acquisto mirato di titoli italiani, ma esso implica
la Troika.
Anche il nuovo White
Paper di Junker intende riformare l’Europa coi pannicelli caldi. I Piani
Junker già li conosciamo per la loro inconsistenza. La verità è che l’Europa è
irriformabile, in primo luogo perché la Germania non rinuncia al proprio
modello mercantilista. Ma anche se lo facesse, non è e non sarà mai una unione
politica, e senza unione politica non si può avere unione fiscale e monetaria.
O forse sì, ma è quella attuale, ordo-liberista e anti-democratica. Da questo
punto di vista l’euro è un successo. Nel 1961 Mundell lo disse chiaramente:
questo tipo di unioni monetarie hanno un “deflationary bias”. Così si
prevedeva, così è stato, specie per il nostro paese. E Mundell è un fior di
conservatore (premio Nobel, se credete che questo qualifichi).
4. In molti,
specialmente a sinistra, sostengono che ritornare agli stati-nazione sarebbe
una sconfitta cocente anche per il mondo del lavoro, perché le sfide globali
non si possono affrontare chiudendosi nel proprio orticello. Cosa risponde a questa critica?
Lo chieda ai polacchi se intendono entrare nell’euro, o
ai coreani (del sud) se vogliono istituire una unione monetaria con Giappone o
Cina! Piccoli paesi se la possono cavare benissimo. Ma pensi se l’Italia, che
non ha nulla contro la Russia, avesse potuto evitare le sanzioni verso quel
paese! Un’altra cosa di cui noi ci dovremmo riappropriare è infatti la politica
estera, riprendendo la tradizionale cooperazione con i paesi del medio oriente
e nord-Africa. E ringraziare Hollande per il disastro libico, attuato anche in
funzione anti-italiana. Ma di che Europa parliamo?
5. Lei sostiene
essere illusorio immaginare un' evoluzione in chiave politica dell'UE e
quindi dovremmo augurarci che ogni paese, dopo essersi riappropriato della
propria sovranità monetaria, agisca col fine di costruire un'Europa
confederale. Due le critiche a tal riguardo: 1° una rottura della zona euro
porterebbe con ogni probabilità ad uno guerra commerciale senza quartiere fra i
paesi europei, quindi sarebbe preferibile non correre il rischio; 2° se un
governo decidesse di attuare politiche keynesiane potrebbe avere non
pochi problemi nella bilancia dei pagamenti se gli altri volessero continuare a
inseguire il rigore del neo-mercantilismo tedesco. Ricordiamo, a tal proposito,
la capriola di François Mitterrand all'inizio degli anni 80, salito con un
programma smaccatamente di sinistra per poi mettere in pratica una politica
fortemente neoliberista.
Ma perché un assetto senza l’euro dovrebbe condurre a
guerre commerciali? Le persone ragionevoli parlano di cambi fissi ma
aggiustabili fra paesi europei. Il problema del vincolo estero certamente
permane, e una certa flessibilità del cambio può agevolare ad affrontarlo. Un ripristino
di moderate e selettive misure protezionistiche è un’altra misura, in assenza
di una cooperazione dei partner, come accadde a Mitterrand. L’idea è che il
paese espansivo possa condurre le proprie politiche, senza ridurre le
importazioni dai partner, ma senza neppure che questi si avvantaggino per
esportare di più. Per esempio, se si fa una politica del trasporto pubblico,
nelle gare vanno privilegiati i produttori di automezzi o convogli ferroviari
nazionali. Era così sino a 25 anni fa!
6. Si parla spesso di uscita da destra e da sinistra dalla zona euro.
Potrebbe spiegarci le differenze più rilevanti?
In gran parte questa storia è dovuta a personaggi che per
pura visibilità individuale si sono voluti distinguere. La palese ricerca di
visibilità, anche attraverso slogan che scopiazzano cose ben note agli
economisti eterodossi e ai nostri maestri, è deplorevole. Personalmente ritengo
in generale la destra inaffidabile (a dir poco), politicamente e, naturalmente,
culturalmente. Né credo che essa evochi seriamente i temi qui discussi, se non
come slogan elettorali. Ve lo vedete Luca Zaia guidare il centro-destra contro
l’Europa? Per me il tema di riferirmi alla destra non si pone. Il problema è
che la sinistra prenda coscienza dell’anti-democraticità delle strategie
sovra-nazionali e di un internazionalismo utopistico (e spesso salottiero). Essa
si deve definire come alternativa allo stato presente: se tutto crolla, o il
paese rischiasse, come probabile, di trovarsi la troika, bene noi sinistra ci dobbiamo
essere pronti a rompere. Personalmente non seguiremo né chi guarda (forse per
disperazione) a destra, né gli affabulatori (quelli del “mi si nota di più
se…”). In termini più concreti, si dice che l’uscita da destra significa taglio
dei salari reali (in seguito alla svalutazione), e da sinistra tutela dei
salari. [Uscita da destra significherebbe, forse, anche favorire gli odiati (o
segretamente invidiati?) padroncini del nord-est, quasi non fossero una
ricchezza per il paese, e non certo responsabili della scomparsa della grande
impresa]. Una svalutazione potrebbe
realisticamente avere effetti negativi iniziali sui salari reali, la scommessa
è che riprenda l’occupazione e con essa i redditi delle famiglie. La
svalutazione è più democratica della deflazione interna e non deprime
necessariamente la domanda interna. Stante una necessaria difesa dei livelli
correnti per il ceti medio-bassi, i salari reali riprenderanno a crescere
quando, con l’aumento di domanda aggregata e investimenti la produttività riprenderà
ad aumentare.
7. Mario Draghi,
in risposta all'interrogazione presentata dagli europarlamentari Marco Valli e
Marco Zanni (M5S), ha dichiarato che se un paese uscisse dall'eurozona dovrebbe
regolare i crediti e le passività della sua Banca centrale nei confronti della
Bce, cioè il saldo Target2. Nello specifico, l'Italia ha un passivo di 359 miliardi.
Dal momento che i movimenti Target2 sono regolati da semplici scritture
contabili, non da contratti bilaterali di finanziamento, quello che dice Draghi
è vero oppure no?
Ho promesso da settimane un paper su Target 2, sto
aspettando alcuni commenti prima di licenziarlo. Da un punto di vista economico
i saldi Target 2 sono un debito per l’Italia. Quando paghiamo una importazione
dalla Germania trasferendo euro da Unicredit a Deutsche Bank, è la Bundesbank
che accredita la liquidità a DB, e lo fa in cambio di un credito Target 2: la
Buba paga per noi, in un certo senso, in cambio di una promessa di pagamento. Cose
simili accadono quando escono capitali dall’Italia. Se rompiamo, la Buba
pretenderà che la promessa venga esaudita o comunque non cancellata. Dopodiché
tutto si negozia! La rottura, se avverrà, sarà un fatto politico.
8. Luciano
Gallino, Biagio Bossone, Marco Cattaneo e Stefano Sylos Labini, hanno elaborato
una proposta per cercare di uscire dal circolo vizioso dell'austerità: i CFC,
ovvero uno sconto differito su tasse e tributi vari. Crede che possano rappresentare una valida
proposta?
Effettuare pagamenti fiscali con questi CFC (dei titoli
pubblici emessi dal Tesoro) è deficit
spending. E’ vero, assomigliano a moneta, possono circolare per i pagamenti
e sarebbero da tutti accettati perché impiegabili per pagare le imposte
(secondo l’ipotesi cartalista). E infatti la loro emissione assomiglia a spesa
pubblica in disavanzo finanziata dall’emissione di moneta (direttamente immessa
dal Tesoro). I proponenti dicono che nel lungo periodo non c’è disavanzo, in
quanto l’espansione farebbe accrescerebbe le entrate fiscali. Nulla da
obiettare, ma se la Commissione europea permette questa operazione, allora
permetterebbe direttamente una spesa in disavanzo (con una BCE a guardia dei
tassi, dunque che asseconda la politica fiscale). Insomma, si tratta di
proposte politicamente irrealistiche. (Trascuro qui la questione della
circolazione pratica di questi CFC, elettronica, cartacea, e il fatto che non
sarebbero comunque utilizzabili per i pagamento verso l’estero).
9. Anche Oscar
Lafontaine ha avanzato una proposta che ha suscitato un dibattito molto
intenso: in sintesi, prevederebbe il ritorno allo Sme. Cosa ne pensa?
Ragionevole. Si tratterebbe di disegnare un nuovo SME
meno Germano centrico e col controllo dei movimenti di capitale. Questo
consentirebbe ai singoli paesi una politica monetaria indipendente.
10. Vorrei
chiudere con la Grecia: l'ex Troika tornerà ad Atene per imporre nuove riforme
neoliberiste in ambito fiscale, previdenziale e del mercato del lavoro. Cosa dovrebbe fare Tsipras, secondo lei?
Ogni volta che la Grecia deve esborsare una tranche del
suo debito, se ne torna a parlare. Infatti il problema non è risolto, come
giustamente sostiene il FMI, che in tutta questa vicenda ha sorprendentemente
assolto alla funzione del saggio i cui consigli non sono ascoltati. In simili
crisi del debito estero, come ne vedemmo a decine fra gli anni ’80 e ’90 dello
scorso secolo, quando il FMI interveniva imponeva: (a) una ristrutturazione del
debito (parte condonato, parte allungato di scadenza a tassi più bassi), (b)
austerità fiscale attenuata, tuttavia, da (c) una svalutazione della moneta. La
Germania ha praticamente imposto solo le misure (b), con l’obiettivo di surplus
fiscali primari assurdi, che hanno devastato l’economia greca e il suo popolo
(ricordiamo che l’Europa pretenderebbe dall’Italia una riduzione del rapporto
debito su Pil al 60% in 20 anni, ciò che ci condurrebbe a una situazione
peggiore di quella greca. Tutto questo è scandaloso e basterebbe a discreditare
il raziocinio dell’Europa e l’idea di affidarle i nostro destini). Cosa poteva
fare Tsipras? Forse di andare a vedere le carte di Schauble, che aveva proposto
ad Atene una uscita assistita. Magari pretendendo che, una volta fuori, le
politiche venissero concordate col FMI e non con la Troika. E puntando a vivere
sui propri mezzi: non l’Albania comunista, ma Cuba sì – in fondo sono due paesi
che si assomigliano. Ma, ovviamente, è facile dire queste cose seduti sulla
poltrona di casa.
Mi può spiegare, prof, in cosa consiste, cosa si intende per "politica fiscale" di un paese?
RispondiEliminaGrazie
Una proposta di soluzione da parte di un movimento/forza politica progressista al problema della disoccupazione italiana potrebbe consistere in una forte spinta da parte dello Stato (sovrano a moneta sovrana dipendete dal Governo) a favore di investimenti pubblici. Non mi riferisco ad opere faraoniche, tipo ponte sullo stretto di Messina, ma a sistemazione degli edifici scolastici, ristrutturazione delle zone terremotate e di tutti gli edifici pubblici e privati rendendoli antisismici in zone a rischi terremoto, bonifica delle zone inquinate (Taranto, terra dei fuochi, SIN Caffaro), investimento nell'istruzione pubblica, nella sanità, nei trasporti pubblici, ecc. e non ultimo, Piani di lavoro Transitori a disposizione dei Comuni per chi è disoccupato o sotto-occupato, o magari è appena uscito di prigione. Il Reddito Universale o di Cittadinanza potrebbe essere dedicato a tutti quelli che non sono in grado di lavorare (persone con disabilità grave, malati cronici, invalidi, ecc.).Insomma un bel po' di soldi che risveglierebbero gli investimenti e la domanda aggregata e, di conseguenza, con una forte accelerata a favore dell'occupazione. Tutto questo sarebbe possibile, basterebbe vedere il debito pubblico, non per quello che ci hanno sempre raccontato, cioè come una malattia da combattere, ma come un'effettiva ricchezza per i cittadini.
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