L’amaro greco
Sergio Cesaratto
Questo giovedì scade la tranche di 460 milioni di euro che
la Grecia deve al Fondo Monetario Internazionale. Dopo aver affermato che tale
pagamento era alternativo alla erogazione di salari pubblici e pensioni, il
governo greco ha successivamente confermato il rispetto della scadenza e, del
resto, mai nessun paese ha mancato un pagamento al Fondo. Altri pagamenti
incombono inesorabili da maggio in poi, mentre l’Europa non concede l’ultima
tranche di 7,2 miliardi dei prestiti concessi nel 2012, non fidandosi della
lista di riforme proposta da Tsipras. E comprensibilmente in questa situazione,
il governo greco non riesce sempre a offrire un messaggio coerente.
Fra qualche anno gli storici economici registreranno freddamente
la crisi greca come l’ennesimo caso di un paese in ritardo economico vittima
dell’indebitamento estero, facilitato da quella forma estrema di gold standard che è un’unione monetaria.
Come ben messo in luce da un recente paper
di due prestigiosi storici economici, Bordo
e James (www.voxeu.org),
corollari di queste vicende sono il foraggiamento alla corruzione che proviene
dalla fase di afflusso dei capitali stranieri, e l’emergere dopo la crisi
debitoria di una opposizione “populista” che rivendica la sovranità nazionale a
fronte delle misure vessatorie dei creditori. E probabilmente la crisi greca
sarà ricordata come l’ennesima comprova della fredda visione che della storia
ebbe Tucidide, quella esemplificata nel discorso degli Ateniesi ai Melii:
prostratevi a noi vincitori e non fate discorsi retorici sulla morale umana; se
foste al nostro posto vi comportereste come noi ci comportiamo con voi. Questi
sono discorsi duri per una sinistra che preferisce crogiolarsi fra Bella ciao e
allegre brigate. Ma se questo è il sottofondo storico di ciò che sta accadendo,
che cosa possiamo imparare e, soprattutto, sperare di poter fare?
La principale conclusione è la fine di ogni illusione
europeista, per chi ancora la stesse coltivando. L’Europa non concederà nulla o
quasi alle richieste greche. Piuttosto la lascerà tentare l’avventura
dell’uscita dall’euro per mostrare qual è il destino sciagurato che attende chi
tentasse di mettere in discussione la dittatura europea. Una Grexit potrebbe
tuttavia lasciare l’Europa più sconquassata e acrimoniosa. Le opinioni
pubbliche su cui verranno fatti ricadere i costi del default greco verranno
scatenate contro quel paese, ma sarà purtroppo difficile che italiani e
spagnoli comincino a domandarsi perché hanno dovuto prima finanziare la
restituzione greca dei debiti verso le banche francesi e tedesche, per vedersi
poi defalcare i crediti verso quel paese, vedendo così i propri conti pubblici
peggiorare e subire ulteriore austerità. Difficilmente si chiederanno perché la
Germania non paga lei per i crediti ora inesigibili che ha concesso (spesso via
Francia) per sostenere le proprie esportazioni,
fedele al proprio modello mercantilista basato sul “vendor financing”
fatto, peraltro, anche di corruzione.
L’illusione europeista cade non perché vi sono governi
conservatori al potere o per un generico strapotere finanziario neoliberista (che
vorrà dire?), ma perché l’Europa è il combinato (a) del disegno del capitalismo
nazionale e globale volto a sottrarre alle classi lavoratrici il terreno
naturale entro cui battersi, vale a dire lo Stato nazionale sovrano; e (b) della
presenza dominante di una potenza mercantilista disinteressata al sostegno
della domanda interna, che anzi va compressa per dar spazio alle esportazioni –
presenza quest’ultima che differenzia l’Europa dagli Stati Uniti oltre, naturalmente,
al peccato originale dell’assenza di una profonda solidarietà politica fra
Stati e popoli europei. L’europeismo è un ideale di influenti e spesso
interessate élite liberali, liberal-socialiste e radicali che credono siano i
vantaggi economici dei liberi mercati a creare la solidarietà politica, o di sprovvedute
e utopistiche frange di sinistra.
Certamente la crisi europea, e quella greca in particolare,
potevano (e potrebbero ancora) essere trattate in maniera decisamente più
progressista dall’Europa, anche per il doveroso riconoscimento politico che le
colpe non sono solo dei debitori ma anche e soprattutto dei creditori. La BCE
sarebbe stata infatti in grado di “stoppare” la crisi fiscale nel 2010-11, ma
in cambio di un drammatico accentramento e rigoroso controllo delle finanze
pubbliche nazionali a Bruxelles, con la creazione al contempo di un bilancio
federale che cooperasse con la politica monetaria nel sostenere la ripresa. In
quest’ambito espansivo i paesi più disastrati avrebbero potuto usufruire di
“piani Marshall” di aiuti straordinari. Per capire quanto questo sia
impensabile nell’Europa reale, basti andare a leggersi le note preparate lo scorso febbraio da Juncker,
Dijsselblom e Draghi per avviare una “better economic governance”
dell’Euroarea. Un testo che, if anything,
accentua il soffocante abbraccio di Bruxelles fatto di austerità e
contro-riforme. Le analoghe note preparate da Van Rompuy,
Juncker e Draghi nel novembre 2011 “for a deep and genuine EMU”, in cui si
proponeva un miserrimo fondo di disoccupazione europeo a cui i paesi colti da
un ciclo negativo avrebbero potuto attingere, appaiono oggi come ultra-Keynesiane
(e tali dovettero apparire ai tedeschi
che infatti le respinsero prontamente).
In questo quadro, se all’Italia rimane la scelta di
perseguire un modello di “mercantilismo povero”, secondo la fortunata
espressione di Leonello Tronti, alla Grecia neppure quello. Non va infatti
dimenticato che l’economia greca – come quella portoghese e per molti versi
anche quella spagnola - è un’economia dal debole settore esportatore, in cui
anche un minimo di crescita economica richiede aiuti esteri, pubblici o privati
e, nella cruda realtà corrente, di aiuti pubblici l’Europa non ne vuole più
dare. L’Europa sa che la Grecia non potrà mai restituire l’enorme debito estero
(221 miliardi di euro a fronte di un Pil di 180), e ha infatti già dal 2012 dilazionato
i tempi della restituzione e diminuito significativamente i tassi che Atene
paga. E’ pronta certamente a fare ulteriori concessioni, nei fatti venendo
incontro al programma di Syriza, se non di una cancellazione, perlomeno di una
ulteriore ristrutturazione del debito. Ma lo farà solo se la Grecia si porrà in
condizioni di non chiedere più una lira di aiuto, dunque un avanzo primario nei
conti pubblici e un pareggio dei conti con l’estero. E qui non si fida di
generiche promesse sul controllo dei conti pubblici ma, ahi loro, vuole vedere
il sangue dei tagli. La verità tragica è che Syriza desiderava contrattare una
diminuzione del surplus pubblico primario dal 4,5% all’1,5% per fare un po’ di
espansione, ma allo stato attuale dei fatti persino l’1,2% appare una chimera
che comporterà la continuazione sostanziale dell’austerità.
La lezione per Podemos è drammatica e a tutti noi non rimane
che consumare i frutti amari del sacrificio di Syriza, in un certo senso non
inutile agli occhi cinici della storia se avrà finalmente svelato che un’”Altra
Europa” non c’è. C’è solo “Questa Europa” che ha trascinato un piccolo e povero
paese nel debito, e ora lo punisce. Questa constatazione non risolve,
naturalmente, il nostro dramma politico, ma ci pone di fronte al compimento il
disegno europeo di svuotamento della democrazia sostanziale: per quali
obiettivi batterci se la politica non si decide più entro i confini nazionali,
mentre nella dimensione europea i movimenti che pure avessero accesso al governo possono essere facilmente
abbattuti uno alla volta? Proprio la storica fragilità economica della Grecia, stretta
fra il chinare la testa o un rifiuto temerario di abbassarla, la rende l’esempio
più semplice da additare a chi azzardasse una sfida all’Europa. Una Grexit
potrebbe portare sconquassi, ma in quest’Europa reazionaria, a meno di reazioni
inaspettate delle opinioni pubbliche, l’esito più probabile è un giro di vite sui
conti pubblici di cui incolpare i greci.
La contestualizzazione storica ci porta infine a ricordare
come il caso italiano sia diverso da quello greco (e spagnolo). L’Italia è un
gigante regionale ammalato. Gigante lo diventò 60 anni fa con un lontano
miracolo economico, ma presto si ammalò di un irrisolto conflitto capitale-
lavoro generato dall’incapacità della borghesia di guidare un processo
riformatore che andasse incontro alle istanze del lavoro, modernizzando il
paese. Dismesse le bombe, la borghesia trovò infine nell’Europa il vincolo alle
istanze del mondo del lavoro, prima con lo SME e poi con l’euro. Ciò che
differenzia il caso italiano da quello greco (e spagnolo) è che un’Italia
politicamente più matura potrebbe navigare meglio fuori dall’euro, essendo il
suo debito estero assolutamente più basso in termini di Pil e potendo fare
affidamento su una reazione positiva delle esportazioni a un cambio più
competitivo. Ciò detto, anche il nostro paese è mutatis mutandis nella gabbia
europea, stretto fra un declino certo e un’uscita per ostacolare la quale sono
stati già predisposti lacci e laccioli (su cui torneremo).
PS Antonella Stirati mi ha chiesto delucidazioni sul sgg passo: “La verità tragica è che Syriza desiderava contrattare una diminuzione del surplus pubblico primario dal 4,5% all’1,5% per fare un po’ di espansione, ma allo stato attuale dei fatti persino l’1,2% appare una chimera che comporterà la continuazione sostanziale dell’austerità.” Ma, intendo semplicemente dire che c’è poco da contrattare con la Troika una diminuzione del Target dal 4,5% all’1,5%, come se il 4,5% fosse a portata di mano. Non lo è o era manco col cannocchiale. Dati alla mano, a questo punto la Troika sarebbe ben felice che la Grecia realizzasse l’1,5%, il che richiederà comunque altra austerità. Scambiare per una vittoria (come fa Galbraight) la riduzione del surplus primario all'1,5% è come scambiare per vittoria il fatto che l'Italia ancora non ottempera al fiscal compact, ovvero alla riduzione del rapporto debito/Pil al 60% in vent'anni. E' chiaro che certi obiettivi sono talmente assurdi che manco la Troika te li chiede. Syriza pensava anche di poter mettere le mani su 11 miliardi che l’Europa aveva dato come fondo di emergenza per le banche, denari che le sono stati prontamente sottratti senza che potesse obiettare. Questa è la cruda realtà.Che fare poi non lo so. La testimonianza è qualcosa che facciamo per la nostra coscenza e per tener viva la fiaccola, ma la storia guardiamola in faccia.
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