Pubblichiamo intervento uscito su Economia e Politica. Ci sono inoltre alcuni video che segnalo. Questo intervento a Parma mi sembra abbastanza riuscito. Ci sono poi delle risposte a Wray sull'MMT, ma i video non hanno qualità eccelsa (qui il primo quesito, poi youtube vi segnala gli altri cinque).
Ritornare
a crescere stabilizzando il debito
Sergio Cesaratto
Nonostante l’esperienza di 6 anni di crisi e le
molte false promesse da parte dei governi che si sono succeduti non sembra vi
sia ancora piena consapevolezza nel dibattito politico della gravità della
situazione e della inadeguatezza delle politiche economiche proposte in piena
continuità con le passate e fallimentari ricette. Questo anche nella sinistra
che da anni è puntello, per forza o per amore, di queste politiche.
Nel recente DEF si ammette che la crescita
italiana sarà assai debole nel 2014 (punto otto si dice, per evitare di
anteporre la parola zero), peccando probabilmente di qualche ottimismo. Le
previsioni per gli anni successivi sono più rassicuranti (si sale dall’1,3% del
2015 all’1,9% del 2018), ma la giustificazione economica di tanto ottimismo è
ridotta al balbettio di una paginetta in cui non si dimostra da dove tale
ripresa dovrebbe provenire – a parte il generico richiamo a una generale
ripresa dell’economia globale. Né grandi rassicurazioni provengono dagli
effetti delle “riforme strutturali” illustrati nell’allegato Piano Nazionale di
Riforme che in un crescendo rossiniano mostra effetti cumulativi sul Pil in
aggiunta allo “scenario base” che vanno dal +0,8% nel 2015 sino al +2,4% nel
2018. Le stime degli effetti delle “riforme” sono ottenute con metodi piuttosto
opinabili e nella maggior parte dei casi le passate previsioni sono state non
solo smentite, ma rovesciate come dimostrato da un prezioso e certosino lavoro
condotto da Maurizio Zenezini dell’Università di Trieste pubblicato da Economia e società regionale (13/2
2013), una rivista legata all’IRES-CGIL veneta, dedicato a “Le riforme e
l’illusione della crescita”. Che riforme di impronta liberista generino
risultati sistematicamente deludenti non è sorprendente in quanto generalmente
volte a deprimere i salari, la domanda aggregata e la spinta delle imprese a
innovare, o semplicemente perché attribuiscono i mali dell’economia italiana a
feticci come il carico burocratico, pur importanti, ma non decisivi. Quando si
attribuisce un effetto cumulato sulla crescita al 2018 di quasi un punto
percentuale di Pil ciascuno a “liberalizazioni e semplificazioni” e al “Job
Act” siamo alla fede nella cabala. Sorprende di più la credulità mostrata dai
mass-media con cui vengono sistematicamente accolte le previsioni di ripresa
quando anche l’Ocse
ammette il sistematico errore di sopravalutazione
(ma guarda un po’ ) commesso negli anni recenti. Modelli in cui vengono trascurati
il ruolo della domanda aggregata e l’effetto nefasto delle “riforme”, oltre al
desiderio di compiacere i governi (a pensar male non si sbaglia), soggiacciono
a questi sistematici errori. Si osservi che anche se il DEF 2014 considera una
forchetta del +/- 0,5% nelle proprie stime di crescita, non abbiamo dubbi che
rebus sic stantibus, vale a dire senza un radicale ribaltamento delle politiche
di austerità, persino la previsione più negativa sia fuori dalla nostra
portata.
In questo quadro nessuno prende troppo sul serio
la prescrizione del Fiscal Compact della riduzione dal 2015 del rapporto fra
debito pubblico e Pil dal prossimo anno a colpi di un ventesimo all’anno della
quota eccedente il 60% (anche se i fantasiosi estensori del DEF e altri come
Bini-Smaghi danno a intendere che questo sia alla nostra portata, si veda Piga
al riguardo). Diversi economisti (per esempio qui)
hanno denunciato l’insostenibilità sociale degli avanzi primari (al netto della
spesa per interessi) necessari a realizzare quell’obiettivo pur assumendo tassi di crescita
positivi. La situazione potrebbe essere
persino peggiore una volta che si tenga più pienamente conto degli effetti
negativi di quegli avanzi sulla crescita. Un economista autorevole come Mario
Nuti ha al riguardo dimostrato come con moltiplicatori fiscali superiori
all’inverso del rapporto debito pubblico/Pil – una situazione molto probabile
in paesi ad elevato debito – politiche di consolidamento fiscale, dunque
surplus primari, avranno l’effetto di peggiorare il rapporto debito/Pil. Questo
proprio perché gli effetti negativi sul Pil (il denominatore) sono maggiori di
quelli “positivi” sul debito (il numeratore), come peraltro suggerisce
l’esperienza italiana di questi anni. (La dimostrazione, peraltro
semplicissima, si è avvalsa della consulenza di un economista matematico
d’eccezione come Giancarlo Gandolfo.) Il Fiscal Compact è dunque non solo inapplicabile
per la ferocia sociale che implicherebbe, ma è senza senso persino dal punto di
vista dell’obiettivo che si pone. Ma anche se inapplicato, purtuttavia esso
rimarrà come un monito a mantenere comunque le politiche di austerità tanto più
che, in via di principio, la sua violazione porta a sanzioni automatiche e
qualunque paese europeo potrebbe irrigidirsi in merito.
Reagendo a questo quadro, politici ed economisti
di sinistra hanno chiesto che il paese violi gli obiettivi di bilancio,
come peraltro viene concesso a Francia e Spagna, mentre altri (si veda qui
e qui)
hanno lodevolmente denunciato come basti poco alla Commissione per togliere la
giustificazione del ciclo negativo alle eventuali violazioni (anche se dalla
sua la Commissione ha il fatto innegabile che con la distruzione di capacità
produttiva una quota crescente della disoccupazione diventa da ciclica a
strutturale). L’intera politica di bilancio europea
andrebbe in realtà capovolta vincolando, nel
breve periodo, i saldi alla ripresa della crescita e dell’occupazione e non
a “stupide” regole, come le definì Prodi, anche se ciò comportasse un temporaneo
aumento del rapporto debito/Pil. In luogo del fiscal compact, la politica di
bilancio dovrebbe essere tuttavia ancorata all’obiettivo di medio periodo della stabilizzazione del rapporto debito/Pil, un’idea ispirata da Luigi Pasinetti, ripresa dall’Appello
degli economisti del 2006 e poi dal Documento
degli economisti del 2011. Nel medio periodo, infatti, la ripresa
della crescita, accompagnata da un’azione efficace della BCE intesa a far
scendere di più i tassi sul debito pubblico dei paesi “periferici”[1]
o da piani
volti a ristrutturare i debiti pubblici con il medesimo obiettivo (come il piano
Wyplosz), disavanzi pubblici primari e dunque politiche espansive sarebbero
compatibili con la stabilizzazione del suddetto rapporto.[2]
Sono idee ragionevoli che l’Italia dovrebbe far proprie nel semestre di
presidenza dell’UE.
La situazione sociale si sta facendo sempre più
grave, anche se spesso in maniera sottile. Il tessuto sociale regge per la resilienza
di milioni di redditi da lavoro dipendente e autonomo e pensioni che riescono
ad assicurare l’esistenza a milioni di disoccupati, inoccupati, esodati e cassintegrati
e relative famiglie di ogni fascia di età. Ma questa base reddituale si andrà
col tempo erodendo proprio per effetto delle politiche di “consolidamento
fiscale”, e con essa decenni di sviluppo civile del Paese. La sinistra non solo
è stata connivente con queste politiche, ma le ha gestite. Chi governa non si
illuda, potrà ammaliare l’opinione pubblica per un po’, ma non per molto a
lungo.
[1] Dopo l’OMT è
ormai nota l’efficacia di mere dichiarazioni della BCE in merito al livello dei
tassi di interesse.
[2] Una semplice
spiegazione analitica è la seguente. Banali passaggi aritmetici conducono alla
seguente relazione:
variazione rapporto debito pubblico/Pil = saldo pubblico primario + (g - i)(rapporto debito pubblico/Pil)
dove g è il tasso di crescita nominale e i il tasso di interesse medio sullo stock di titoli del debito. Il rapporto debito/Pil è stabile quando
variazione rapporto debito pubblico/Pil = saldo pubblico primario + (g - i)(rapporto debito pubblico/Pil)
dove g è il tasso di crescita nominale e i il tasso di interesse medio sullo stock di titoli del debito. Il rapporto debito/Pil è stabile quando
-saldo primario = (g - i)(rapporto debito/Pil).
Se g
> i, cioè se la crescita nominale del Pil supera il tasso di interesse, dunque il lato
di destra della relazione è positivo, vuol dire che affinché anche il lato di
sinistra lo sia (si noti che c’è un segno “meno”) il saldo deve essere
costituito da un disavanzo (sicché “meno per meno dà più” come chiunque ricorda
dalla scuola). Una preliminare ripresa della crescita che accresca g e una rapida diminuzione di i sono dunque passaggi chiave per
conciliare crescita e stabilizzazione nel medio periodo.
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