(Mi scuso anche che la formattazione da word a blogspot in parte salta per cui risultano più caratteri).
Fra Marx
e List: sinistra, nazione e solidarietà internazionale
Sergio
Cesaratto*
Proletari di
tutti i paesi, unitevi! (K.Marx, F.Engels 1948)
…fra
l’individuo e l’umanità si colloca la nazione
(F.List 1972: 193)
Abstract. In questo breve saggio esaminiamo l’importanza attribuita da Friedrich
List allo Stato nazionale nell’emancipazione economica di un paese a fronte
della visione cosmopolita del
capitalismo e degli interessi dei lavoratori che Marx gli contrappone.
Rifacendoci a uno spunto di Massimo Pivetti sosteniamo che lo Stato nazionale
sia lo spazio più prossimo in cui una classe lavoratrice nazionale può
legittimamente sperare di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza. Nell'aver
sostenuto lo svuotamento della sovranità nazionale in nome di un europeismo
tanto ingenuo quanto superficiale, la sinistra ha contribuito a far mancare a
sé stessa e ai propri ceti di riferimento il terreno su cui espletare
efficacemente l’azione politica contribuendo in tal modo allo sbandamento
democratico del paese.
Introduzione
Se il tema che ci siamo assegnati è da un lato un classico della
riflessione politica della sinistra, dall’altro esso continua a essere un
argomento imbarazzante. La teoria marxista e gli ideali del socialismo ci
portano, infatti, verso un giudizio piuttosto liquidatorio, sia storico che
politico, dell’idea di nazione. La problematica nazionale pur tuttavia
testardamente continua a riemergere. Vengono qui presentate alcune riflessioni
del tutto inadeguate rispetto a una letteratura immensa (marxista, sociologica,
politica ecc.) e solamente volte a porre alcuni termini di un dibattito che è
molto attuale in una fase in cui la sinistra italiana guarda con sospetto alle
critiche di “eccesso di europeismo” e di mancata valorizzazione degli interessi
nazionali nelle scelte politiche prevalenti. Ça va sans dire che tali interessi nazionali non vanno assolutamente confusi con ideali di
sopraffazione di altri paesi: siamo qui interessati al nazionalismo economico
come spazio di democrazia sociale, non ad altri significati. Anche un
approfondimento delle origini dell’“eccesso di europeismo” e della
marginalizzazione dell’idea di interesse nazionale, in particolare nella
sinistra italiana, esce dalle nostre capacità analitiche. La sinistra è in questo
probabilmente parte di una storia culturale del nostro paese in cui l’identità
nazionale è debole e frazionata per cui l’avvento di un papa straniero è visto
come salvifico e portatore di una capacità di governo che il paese appare
incapace di darsi. Concluderemo che lo svuotamento della sovranità nazionale in
nome di “ideali” sovranazionali e di un papa straniero (l’Europa)
disinteressato ai nostri destini sta comportando, novello 8 settembre, lo
sfaldamento del già fragile tessuto socio-politico del paese.
Va infine qui ricordato che i termini nazione e Stato, com’è noto, non
coincidono. Nazione è inoltre un termine per certi versi sfuggente, ma
sufficientemente definito per i nostri scopi per esempio come “complesso delle
persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale
unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità
politica”.[1] Gli
Stati possono essere sovranazionali, ma ciò è spesso fucina di guerre civili
dovute proprio al conflitto fra le differenti etnie per il controllo
dell’apparato pubblico, o per costituire entità statuali indipendenti, se ciò è
possibile. Si parla di Stati nazionali quando essi o sono sufficientemente
omogenei etnicamente, o presentano una consolidata convivenza fra le etnie.
1. Marx e List
Il locus classicus dove le
concezioni cosmopolite del marxismo e quelle del nazionalismo (economico) si
confrontano è nella controversia – purtroppo non “live” - fra List (1789-1846)
e Marx (1818-83).[2] L’opera più importante di
List è del 1841. Marx ne scrive un commento nel 1845 risultato inedito sino al
1971.
Com’è noto List contrappone l’economia politica o nazionale all’economia
cosmopolitica o universale. La prima
muove “dal concetto e dalla natura della nazionalità, [e] insegna come una
determinata nazione, nelle attuali condizioni mondiali e nelle sue speciali
condizioni nazionali, può mantenere e migliorare le sue condizioni economiche”;
mentre la seconda (definita la “scuola”) “parte dal presupposto che tutte le
nazioni del mondo formino un’unica società, vivente in un regime di pace
perpetua” (List 1841 [1972]: 151-2). Per List la seconda condizione è
idealmente desiderabile, ma la scuola confonde “come effettivamente esistente
uno stato di cose che ancora deve realizzarsi” (ibid: 154). Infatti “nelle
attuali condizioni mondiali, la libertà commerciale universale non porterebbe
ad una repubblica universale, ma all’universale soggezione delle nazioni meno
progredite alla supremazia della potenza preponderante nell’industria, nel
commercio e nella navigazione” (ibid: 155). List considera dunque la teoria di
Smith dei vantaggi del libero commercio internazionale un “regresso …per
gettare polvere negli occhi alle altre nazioni in vantaggio dell’Inghilterra”
(ibid: 28), un “cavallo di Troia …per indurci ad abbattere con le nostre stesse
mani le mura che ci proteggono” (ibid: 35).[3]
Le prescrizioni dell’economia politica nazionale non si limitano per List
al protezionismo (ibid: 159; 169-72 e passim), ma riguardano la visione dello
sviluppo economico nazionale come un interesse pubblico al quale l’interesse
privato è soggiogato: “soltanto là dove l’interesse privato è stato subordinato
all’interesse pubblico e dove molte generazioni hanno avuto di mira un unico e
medesimo scopo, le nazioni hanno raggiunto uno sviluppo armonico delle loro
forze produttive” (ibid: 184). La concezione di
Adam Smith – il campione della scuola a cui List si contrappone –
secondo cui la società è la somma degli interessi individuali, regolati dalla
mano invisibile della concorrenza, è per List assolutamente limitativa: “E’
forse nella natura dell’individuo – egli si domanda – preoccuparsi dei bisogni
delle generazioni future, come fanno invece per natura la nazione e lo stato?”
(ibid: 185-86). Caratteristica del mio sistema, scrive List, “è di essere un
edificio basato sull’idea di nazione come intermediaria fra individuo e
umanità” (ibid: 29). Va osservato come, tuttavia, il nazionalismo di List sia
assolutamente democratico e come egli non rinunci all’obiettivo cosmopolita
fra nazioni giunte a un medesimo grado di sviluppo. In questo, come alla
priorità attribuita allo sviluppo industriale, egli si differenzia dagli ideali
nazionalistici dei romantici tedeschi (Szporluk 1988: 101-9, 117-18).
Le concezioni di List apparirono a Marx come mere mistificazioni
ideologiche, falsa coscienza, al pari della religione, o al massimo ideologie
volte a mascherare gli interessi della borghesia tedesca. Nel suo commento a
List, Marx (1845) rifiuta le sue concezioni in una maniera efficacemente
riassunta da Szporluk (1988: 4-5):
Marx
claimed that his theory, while the result of his own intellectual endeavour,
was also the reflection of objectively working historical forces and would
therefore be carried out as a predestined outcome of historical development.
Marx further thought that the proletariat was that ‘material force’ whose
historical task was to realise his philosophy. When one bears all of this in
mind, it is easy to see why Marx found the theories of List, particularly his
view of history and his program for the future, not only objectionable but
aberrant … It was axiomatic to Marx that industrial progress intensified and
sharpened the antagonism between the bourgeoisie and the proletariat, an
antagonism that would in the immediate future explode in a violent revolution.
List, in the meantime, preached class cooperation and solidarity in the
building of a nation's power. Marx thought that the Industrial Revolution, and
the concomitant rule of the bourgeoisie, promoted the unification of the world
and obliterated national differences. (Communism, he thought, would abolish
nations themselves.) List claimed that the same phenomenon, the Industrial
Revolution, intensified national differences and exacerbated conflicts among nations.
While Marx saw the necessity of workers uniting across nations against the
bourgeoisie, List called for the unification of all segments of a nation
against other nations.[4]
Marx vede in List un arretramento rispetto all’economia politica classica
(Szporluk 1988: 37) e lo accusa (con la borghesia tedesca) di appellarsi ad
argomenti “spiritualisti” (la nazione) a fronte di quelli “profane”
dell’economia classica:
[List]
creates for himself an “idealising” political economy, which has nothing in
common with profane French and English political economy, in order to justify
to himself and the world that he, too, wants to become wealthy. (Marx 1845: 3).
Marx (1845: 4)[5] si fa così beffe della de-costruzione che List fa della teoria di Smith
dei vantaggi del libero commercio quale sostegno alle convenienze commerciali
dell’Inghilterra:
Since his
own work (theory) conceals a secret aim, he suspects secret aims everywhere.
Being a true German philistine, Herr List, instead of studying real history,
looks for the secret, bad aims of individuals, and, owing to his cunning, he is
very well able to discover them (puzzle them out). He makes great discoveries, such as that Adam
Smith wanted to deceive the world by his theory….
La posizione di Marx appare tuttavia curiosa proprio dal punto di vista
della critica marxista alle ideologie, ma chiaramente Marx ritiene che Smith
stia mettendo in luce l’aspetto cosmopolita e liberatorio del capitalismo
globale che attraverso il libero commercio si diffonde e impone le sue leggi,
ed attraverso questo getta i semi – il conflitto di classe – della sua
dissoluzione. Sebbene vantaggioso per l’Inghilterra, questo paese è il tramite
attraverso cui la forza devastante ma rinnovatrice del capitalismo si fa
strada. Il nazionalismo col suo tentativo di cooptare le classi lavoratrici
attorno a obiettivi particolari costituirebbe dunque un rallentamento del
processo di liberazione dell’umanità. Marx vede dunque nell’individualismo smithiano una lettura materialista del capitalismo di
cui, evidentemente, la ricerca del massimo profitto individuale è l’essenza. Ma
invece di contestare questo, List contesterebbe la sua espressione teorica in
Smith:
It can
never occur to Herr List that the real organisation of society is a soulless
materialism, an individual spiritualism, individualism. It can never occur to him that
the political economists have only given this social state of affairs a
corresponding theoretical expression. Otherwise, he would have to direct his
criticism against the present organisation of society instead of against the political
economists. (Marx 1845: 18).
E’ chiaro che da un punto di vista metodologico sia List che Marx sono
critici dell’individualismo smithiano come elemento costitutivo dell’analisi
politico-sociale, l’idea che si possa capire la società muovendo dalla
considerazione dell’individuo isolato. Ma mentre per List l’elemento sociale a
cui l’individuo fa naturalmente riferimento è la nazione, per Marx è la classe.
Per Marx, tuttavia, che gli economisti classici abbiano enfatizzato l’elemento
individualistico (le “robinsonate”) non solo dei capitalisti, in perenne lotta
fra loro, ma anche dei singoli lavoratori che si presentano in un certo senso
nudi e isolati nel mercato del lavoro, non è un peccato, neppure veniale, in
quanto mette in luce la cruda spoliazione che il capitalismo fa dei precedenti
legami religiosi o feudali.[6] Marx imputa a List di non
aver compreso questa natura del capitalismo - che a loro modo Smith e Ricardo
avevano invece inteso sebbene si debba andare oltre la loro analisi nello
smascherare il carattere puramente formale dell’uguaglianza degli individui nel
mercato - in nome di un’appartenenza nazionale che il capitalismo e la crudeltà
del libero commercio si erano appunto incaricati di spazzar via come falsa
coscienza.
In questo senso Marx ritiene non-ideologica la difesa di Smith del laissez faire, mentre vede come
mistificatoria e ipocrita l’idealizzazione dell’elemento nazionale in List
volta a mascherare gli interessi della borghesia tedesca:
The bourgeois [Bürger] wants
to become rich, to make money; but at the same time he must come to terms with
the present idealism of the German public and with his own conscience.
Therefore he tries to prove that he does not strive for unrighteous material
goods, but for a spiritual
essence, for
an infinite productive
force, instead of bad, finite exchange values.(1845: 16, corsivo nell’originale).
We German bourgeois do not want
to be exploited by the English bourgeois in the way that you German
proletarians are exploited by us and that we exploit one another. We do not
want to subject ourselves to the same laws of exchange value as those to which
we subject you. We do not want any longer to recognise outside the country the
economic laws which we recognise inside the country (ibid: 22).
However much the individual
bourgeois fights against the others, as a class the bourgeois have a common
interest, and this community of interest, which is directed against the
proletariat inside the country, is directed against the bourgeois of other
nations outside the country. This
the bourgeois calls his nationality. (ibid: 23).
Per Marx, dunque, il luogo in cui si fa la storia è quello del conflitto
fra le classi sociali, e tale conflitto è sovranazionale in quanto né gli
interessi del capitale né quelli del lavoro hanno una dimensione nazionale:
The
nationality of the worker is neither French, nor English, nor German, it is
labour, free slavery, self-huckstering. His government is neither French, nor English, nor German, it is capital. His native air is neither French, nor German, nor English, it is factory air.” (1845: 22, corsivi nell’originale).
labour, free slavery, self-huckstering. His government is neither French, nor English, nor German, it is capital. His native air is neither French, nor German, nor English, it is factory air.” (1845: 22, corsivi nell’originale).
In questo
senso l’idea di nazione è una “aberrazione”, falsa coscienza al pari della
religione
Di qui i famosi passi in cui Marx, tre anni più tardi, si esprime a
difesa del commercio internazionale. Dopo aver spezzato una lancia a
giustificazione del protezionismo – forse più di quanto avesse fatto nel saggio
del 1845, Marx (1948) si lancia nei
passi finali del discorso a favore del libero commercio individuando nel
protezionismo un rallentamento al pieno disvelarsi della crudeltà del
capitalismo:
the protectionist system is
nothing but a means of establishing large-scale industry in any given country,
that is to say, of making it dependent upon the world market, and from the
moment that dependence upon the world market is established, there is already
more or less dependence upon free trade. Besides this, the protective system
helps to develop free trade competition within a country. Hence we see that in
countries where the bourgeoisie is beginning to make itself felt as a class, in
Germany for example, it makes great efforts to obtain protective duties. They
serve the bourgeoisie as weapons against feudalism and absolute government, as
a means for the concentration of its own powers and for the realization of free
trade within the same country.
But, in
general, the protective system of our day is conservative, while the free trade
system is destructive. It breaks up old nationalities and pushes the antagonism
of the proletariat and the bourgeoisie to the extreme point. In a word, the
free trade system hastens the social revolution. It is in this revolutionary
sense alone, gentlemen, that I vote in favor of free trade.
Marx sembra fondamentalmente ritenere che non sia necessario per
ciascun paese raggiungere determinate fasi di sviluppo:
To hold that every nation goes
through this development internally would be as absurd as the idea that every
nation is bound to go through the political development of France or the
philosophical development of Germany. What the nations have done as nations,
they have done for human society; their whole value consists only in the fact
that each single nation has accomplished for the benefit of other nations one
of the main historical aspects (one of the main determinations) in the
framework of which mankind has accomplished its development, and therefore
after industry in England, politics in France and philosophy in Germany have been
developed, they have been developed for the world, and their world-historic
significance, as also that of these nations, has thereby come to an end. (1845: 23).
Questo appare un passaggio chiave per spiegare perché Marx vede non
necessario lo sviluppo dei capitalismi nazionali (Szporluk (1988:32).
2. Lo stato come playing field
Cimentiamoci a questo punto a enumerare i termini della questione fra
Marx e List.
- Marx si affida all’idea che la forza liberatrice del capitalismo si
sarebbe diffusa dall’Inghilterra ai paesi in ritardo economico senza la
necessità per questi ultimi di ripercorrere tutte le tappe dello sviluppo
capitalistico. Per Marx non è necessario che tutti i paesi raggiungano un
medesimo grado di sviluppo perché il conflitto fra lavoro e capitali si
dispieghi; evidentemente ritiene che esista una solidarietà potenziale – se non
deviata, appunto, da sordità nazionalistiche – della classe operaia dei centri
nevralgici del capitalismo verso i lavoratori della “periferia”.
In via ideale Marx non ha torto. La critica che gli si può forse muovere
è di sopravvalutare la spinta emancipatrice globale che poteva provenire da una
singola classe operaia vittoriosa – tanto più se nel suo cammino tale classe
lavoratrice finisce per cedere alle lusinghe del proprio capitalismo nel
condividere almeno parte dei frutti della posizione di leadership economica.
Una prospettiva più concreta appare invece quella di guardare con favore allo
sviluppo capitalistico nazionale, e dunque delle classi operaie nazionali, nel
maggior numero possibile di paesi, e su questa base porre in termini più solidi
la questione dell’internazionalismo della classe lavoratrice. Per parafrasare
List, fra le classi sociali e l’umanità vi sarebbe lo Stato-nazione. List dà
l’idea di maggiore concretezza anche dal punto di vista dei movimenti operai
nazionali in luogo dell’astrattezza un po’ utopica di Marx (ovvio, in List non
vi sono le classi sociali e questo è un limite tradizionale in un economista
borghese).
- Marx
sottovaluta il ruolo dello Stato nello sviluppo economico che è invece il tema
decisivo per List. Per quest’ultimo lo Stato è l’unico organismo in grado di
mobilitare le risorse necessarie allo sviluppo economico nei paesi in ritardo.
Per List l’individualismo e il libero commercio smithiani sono argomenti
pretestuosi a vantaggio dell’Inghilterra. Per Marx sono invece indicativi della
forza selvaggia, ma liberatrice, del capitalismo. E’ come se Marx fosse caduto
nella trappola tesagli da Adam Smith. Alla luce della storia economica, anche
della recente affermazione del capitalismo globale in particolare in Asia, si
vede infatti come il nazionalismo economico sia stato necessario proprio per
l’affermazione di quel capitalismo globale che Marx vede come forza
potenzialmente liberatrice.
- Marx
sembra vedere poco il ruolo che lo Stato-nazionale svolge come il playing field più prossimo con riguardo
al controllo e distribuzione di potere e risorse sia fra le classi sociali,
all’interno, che nei confronti di altre etnie o Stati nazionali.[7] Il
cammino di emancipazione della classe lavoratrice non può dunque che cominciare
nel farsi Stato della loro unità di aggregazione più prossima costituita dalla
comunità etnica di appartenenza intesa come un’aggregazione di individui che
insiste su un ammontare di risorse.[8] L’appartenenza alla
nazione non esclude l’esistenza di un conflitto distributivo al suo interno,
anzi in un certo senso lo presuppone, come diremo.
In questa chiave si può dunque concludere che sebbene gli interessi della
classe lavoratrice per la giustizia sociale non coincidano necessariamente con
gli “interessi della nazione” – tanto meno in contrapposizione a quelli di
un’altra nazione -, lo Stato nazionale costituisce il playing field in cui si articola la battaglia per la giustizia ed
in questo senso l’autonomia nazionale è un obiettivo per la classe lavoratrice.[9]
Ma può esistere anche un interesse sovranazionale, un playing field globale? Vi possono
certamente essere notevoli convergenze fra governi progressisti, basti pensare
al Keynesismo internazionale (che è una necessità per la crescita comune), ma
la sinistra dovrebbe essere gelosa della garanzia ai singoli popoli che solo
può provenire dalla perdurante esistenza di Stati nazionali sovrani. Un
principio di sussidiarietà nella cooperazione internazionale, o meglio un
principio alla Gugliemo Tell di gelosia
della propria autonomia nazionale dovrebbe essere fatto proprio dalla sinistra.
3. L’europeismo come errore
storico della sinistra
Massimo Pivetti lucidamente individua nello svuotamento delle sovranità
nazionali lo strumento con cui si è esplicitato in Europa l’attacco ai diritti
sociali:
mentre in
Inghilterra e negli Stati Uniti l’attacco alle conquiste del lavoro dipendente
e alle sue condizioni materiali di vita è avvenuto apertamente e frontalmente
tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, nell’Europa
continentale esso si è sviluppato in modo più graduale e indiretto, passando
per il progressivo svuotamento delle sovranità nazionali (Pivetti 2011:
45)
In questo modo alle classi lavoratrici nazionali è
stato sottratto il playing field:
Riformismo e
sociademocrazia… sono inconcepibili se alla forza del denaro non può essere
contrapposta quella dello Stato – dunque se viene meno la sovranità dello
Stato-nazione in campo economico ed essa non è sostituita da nuove forme di
potere politico sovranazionale, capaci di regolare i processi produttivi e
distributivi. Questo è proprio quello che è avvenuto con la costituzione
dell’Unione Europea e dell’Eurosistema al suo interno (ibid: 46)
Le classi lavoratrici sono state dunque private della possibilità di
condizionare le leve produttive e distributive nazionali e in particolare la
politica monetaria che è tratto decisivo della sovranità nazionale in quanto da
essa dipende il potere ultimo di spesa dello Stato e la possibilità di regolare
i rapporti di cambio con le altre monete. In tal modo non solo la democrazia
economica interna ne esce mortificata, ma si trova anche ad essere alla mercé di interessi nazionali stranieri. Questo è naturalmente dovuto al fatto
che
[n]essun
processo di unificazione politica e di connessa centralizzazione dell’intera politica economica – finalizzata
al sostegno della crescita dell’Unione nel suo complesso e al contenimento
delle diseguaglianze al suo interno – ha accompagnato, compensandola, la
perdita di sovranità subita da ciascuno Stato membro. (ibid: 46).
Non sorprende dunque la crisi della democrazia che alcuni paesi europei
vivono, intesa come senso di impotenza che la politica trasmette ai propri
cittadini. Questo senso di impotenza nulla ha a che vedere (se non in
superficie) con scandali e ruberie, ma con l’impossibilità dei politici
democraticamente eletti di poter seriamente affrontare i grandi problemi, anche
se lo volessero, una volta privi degli strumenti sovrani per farlo. Ecco
l’origine dell’anti-politica. Conclude Pivetti:
Supponiamo
allora che in un contesto così poco promettente vi sia un paese intenzionato, o
costretto, a fare i conti con gravi problemi di coesione sociale e/o
territoriale. Non mi sembra che tale paese avrebbe oggi un’alternativa
credibile rispetto a quella di cercare di recuperare la propria sovranità in
campo economico e, con essa, la capacità di contenere le divisioni sociali e territoriali
esistenti al suo interno (ibid: 57).
Ecco dunque il tragico errore che la sinistra italiana ha compiuto negli
ultimi trent’anni: quello della resa all’Europa della sovranità nazionale.
Ancora Pivetti:
Il problema
è che da parte della sinistra e dei sindacati dei lavoratori non vi è stata in
Italia nel corso degli ultimi trent’anni alcuna riflessione sul processo di
ridimensionamento dei poteri dello Stato-nazione nel controllo dell’attività
economica come possibile base di un processo di crisi della nostra unità
nazionale. Nella sinistra continua a prevalere l’idea che non vi sia alcuna
alternativa al continuare ad assumere fino in fondo l’orizzonte politico
dell’Europa, coûte que
coûte. Si ragiona come se
l’influenza esercitata nell’ultimo trentennio da monetarismo e neoliberismo sul
progetto d’integrazione europeo potrebbe dopo tutto finire per dissolversi;
dall’Europa dei vincoli si potrebbe finire per passare all’Europa della
crescita e l’integrazione monetaria potrebbe dopo tutto finire per tradursi
effettivamente in vera e propria integrazione politica. Eppure, i continui
allargamenti dei ‘confini europei’ dovrebbero aver reso a tutti evidente come
quello dell’unificazione politica sia sempre stato solo uno specchietto per le
allodole, avente lo scopo di facilitare l’accettazione da parte dei popoli
europei degli svantaggi derivanti dalla rinuncia alla sovranità monetaria e a
buona parte di quella fiscale da parte dei rispettivi governi. E poi …la
reazione dei governi alla crisi economico-finanziaria ha reso evidente che
perfino un semplice coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio,
finalizzato alla difesa dei redditi e dell’occupazione, è di fatto fuori gioco
in Europa” (ibid: 58).
Eppure
versioni “di sinistra” dell’europeismo sopravvivono in (rari) economisti
radicali secondo i quali:
Più facile,
senz’altro, sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un
ritorno all’economia nazionale … Quello di
cui vi sarebbe bisogno sono piuttosto lotte coordinate e proposte politiche
uniche della sinistra su scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e
dei soggetti sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente
organizzata e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del
disegno della moneta unica ... (Bellofiore e Garibaldo 2013)
“Lotte
transazionali” dunque. A me sembra che tale volonteroso internazionalismo
pan-europeo faccia da contraltare all’europeismo volenteroso di alcuni
economisti vicini al PD (Cesaratto 2013B): entrambi utopistici e forse
pericolosi proprio in quanto disconoscono
il ruolo di tutela degli spazi democratici costituito dalla piena sovranità
nazionale. Tuttavia la riconquista dello spazio di democrazia economica
nazionale – che faccia da base naturalmente a una libera cooperazione
internazionale in particolare in Europa – è assai difficile allo stato di cose
presenti, e non si è lontani dal vero se si ammette che le prospettive di crescita e giustizia sociale nel
nostro paese sono in una trappola esiziale, quella della moneta unica
(Cesaratto e Pivetti 2012). Ma che salto intellettuale e politico se la
sinistra lo cominciasse a capire![10]
Una veloce incursione nella letteratura “mainstream” sull’origine
dell’appartenenza etnica porta a individuare alcune posizioni più influenti (in
particolare Caselli & Coleman e Alesina & Spolaore). Caselli e Coleman
(2006) mettono in luce come i tratti distintivi delle etnie (lingua, colore)
permettono di escludere altri gruppi dall’accesso alle risorse controllate da
un gruppo etnico: “if the population is ethnically heterogeneous, coalitions can
be formed along ethnic lines, and ethnic identity can therefore be used as a
marker to recognize potential infiltrators. By
lowering the cost of enforcing membership in the winning coalition, ethnic
diversity makes it less susceptible to ex-post infiltration by members of the
losing one. Hence, from the perspective of a “strong” ethnic group, i.e. a
group that is likely to prevail in a conflict, a bid for a country’s resources
is an ex-ante more profitable proposition than it would be for an equally
strong group of agents in an ethnically homogeneous country. Without the
distinguishing marks of ethnicity, this group would be porous and more subject
to infiltration. Ceteris paribus, then, we should observe more conflict over
resources in ethnically heterogeneous societies, which is the fact we set out to
explain. …An important implication of this idea is that not all ethnic
distinctions are equally effective ways of enforcing
coalition membership. … one key piece of information is the distance among the
potential contenders. Virtually all of the empirical work on conflict stresses
the relative size of the groups present in a country’s territory. As we discuss
below, size does play an important role in our theory. One of our
contributions, however, is to stress that a second dimension, distance, or the
cost of distinguishing members from non-members of the dominant group, is also
critical. …
our theory of conflict among geographically separated groups is isomorphic to
our theory of ethnically distant groups, and one may therefore be able to use
our model, together with the
relevant state variables
as explained in the next paragraph, to explain changes over time in the
intensity of inter-regional (and perhaps even international) conflict.” (2006: 1-2).
Michalopoulos
enfatizza invece il ruolo di fattori oggettivi nel determinare le distinzioni
etniche, in particolare l’omogeneità geografica del territorio; su questa causa
possono successivamente intervenire altri fattori storici quali l’invasione di
popolazioni straniere, per esempio il colonialismo: “the analysis shows that
contemporary ethnic diversity displays a natural component and a man-made one. The natural component is
driven by the diversity in land quality and elevation across regions, whereas
the man-made one captures the idiosyncratic state histories of existing
countries, reflecting primarily their colonial experience. The evidence supports
the proposed theory according to which, heterogeneous land endowments generated
region specific human capital, limiting population mobility and leading to the
formation of localized ethnicities and languages.” (2008: 1).
L’analisi di Alesina e Spolaore (1995) è volta a stabilire il numero e
dimensione ottimi delle nazioni attraverso un’analisi dei benefici apportati da
una più grande dimensione del paese e i
costi attribuiti a una maggiore eterogeneità in grandi popolazioni. I
benefici sono attribuiti alle economie di scala nella produzione dei beni
pubblici – benefici moderati dal manifestarsi di fenomeni di congestione e
difficoltà di coordinamento quando la dimensione si faccia troppo ampia. Per
contro il costo di aggregati troppo ampi è nella più grande “distanza media
culturale o delle preferenze fra gli individui …In piccoli, relativamente più
omogenei paesi, le scelte pubbliche sono più vicine alle preferenze dei singoli
individui che in paesi più grandi e più eterogenei” (1: 4-5). In altri lavori
Alesina sostiene che l’omogeneità etnica favorisce la condivisione di beni
pubblici e forme di redistribuzione del reddito (per cui l’eterogeneità etnica
indebolisce il consenso allo stato sociale) (Alesina et al. 2001). La tesi è
provocatoria, ma è una sfida al facile multiculturalismo della sinistra.
Riferimenti
, B. (2001) Why Doesn't
the United States Have a European-Style Welfare State?. Brookings Paper on Economics Activity Fall: 187-278
Alesina, A.
e Spolaore,
E. (1995) On the Number and Size of Nations, NBER WP n. 5050, http://www.nber.org/papers/w5050 (pubblicato in Quarterly Journal
of Economics, 1997;112:1027-56).
Bellofiore, R. e Garibaldo, F.
(2013) Euro al capolinea? http://www.sinistrainrete.info/europa/3076-riccardo-bellofiore-francesco-garibaldo-euro-al-capolinea.html
Caselli, F. e Coleman, W.J.
II (2006), On the Theory of Ethnic Conflict,
http://www.nber.org/papers/w12125
Cesaratto, S. (2007A), The
Classical ‘Surplus’ Approach and the Theory of the Welfare State and Public
Pensions, in: G.Chiodi e L.Ditta (a cura di), Sraffa or An Alternative
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Szporluk, R. (1988) Communism and Nationalism: Karl Marx Versus Friedrich List, Oxford: Oxford University Press.
*
Professore ordinario di Economia della crescita e dello sviluppo e di Politica
monetaria e fiscale nell'Unione Monetaria Europea. Dipartimento di Economia
Politica e Statistica (DEPS), Università di Siena. e-mail: Sergio.Cesaratto@unisi.it;
web page: http://www.econ-pol.unisi.it/cesaratto/; blog: http://politicaeconomiablog.blogspot.com/. Questo contributo ha lo scopo di aprire una
riflessione su argomenti assai delicati, per cui i commenti sono benvenuti.
Ringrazio Giancarlo Bergamini per avermi aiutato a migliorare l’esposizione.
Questa versione 8 gennaio 2014.
[1]
http://www.treccani.it/enciclopedia/nazione/
[2]
Curiosamente nel 1841 a List fu offerta la direzione della Rheinische Zeitung che dovette rifiutare per motivi di salute. Marx ne
prese il posto.
[3]
V. anche Joan Robinson (1966). Una discussione delle teorie di List nel
dibattito sulle teorie del commercio internazionale alla luce della critica
Sraffiana e del Realismo Politico è in Cesaratto (2013)
[4]
Come rassegne del dibattito marxista sul nazionalismo si vedano l’ottimo volume
di Szporluk (1988), la cui prima parte è dedicata al confronto
Marx-List e che è utile anche per verificare l’evoluzione del pensiero di Marx di
cui non si rende certo giustizia in questo contributo; e il libro di Gallissot
(1979) dedicato al dibattito nel movimento socialista. Questo si è
costantemente trovato di fronte all’intreccio di questioni nazionali e lotta
per il socialismo, dalla questione irlandese all’intreccio di etnie nell’Europa
dell’est e in Russia, dalle le scelte drammatiche a fronte del primo conflitto
mondiale all’intreccio della lotta anti-colonialista con quella per il
socialismo. Il dibattito ha sempre visto da un lato posizioni in un certo senso
più vicine a quelle di Marx volte a ritenere fuorviante il nazionalismo, da
tollerare al massimo come elemento tattico, e quelle di chi al nazionalismo
assegnava un significato liberatorio più pregnante.
[5]
Citazioni e riferimenti di pagina dall’edizione on line delle opere di
Marx-Engels.
[6] I passi di Marx dell’Introduzione all’economia politica del 1857 sono ben noti: “In this [civil] society of free competition, the individual appears detached from the natural bonds etc. which in earlier historical periods make him the accessory of a definite and limited human conglomerate. Smith and Ricardo still stand with both feet on the shoulders of the eighteenth-century prophets, in whose imaginations this eighteenth-century individual – the product on one side of the dissolution of the feudal forms of society, on the other side of the new forces of production developed since the sixteenth century – appears as an ideal, whose existence they project into the past.” L'individuo isolato e astoricizzato da cui muovono Smith e Ricardo non è mai esistito, naturalmente (“Production by an isolated individual outside society … is as much of an absurdity as is the development of language without individuals living together and talking to each other”), ma è il prototipo dell’individuo della società borghese che si vuole spiegare e nella quale, appunto, i contratti si svolgono (apparentemente) tra individui liberi.
[7] In
Cesaratto (2007 A/B) ho analizzato il ruolo dello Stato nella distribuzione del
reddito alla luce del dibattito marxista e dei contributi di alcuni studiosi
socialdemocratici scandinavi.
[8]
Questo non esclude che più etnie possano allearsi nel costituire uno Stato
nazionale con eguali diritti.
[9] La
necessità del consenso della classe lavoratrice alla costruzione dello Stato
nazionale ha storicamente portato le borghesie nazionali a prendere
l’iniziativa nella creazione delle istituzioni dello stato sociale. Il caso di
scuola è quello della Germania di Bismarck.
[10] Si veda al riguardo anche
quanto Marcello De Cecco (2013) ha recentemente scritto: “Di fronte al
perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di
soluzioni innovative suggerite dai teorici agli attori politici, la tendenza
più forte sembra purtroppo essere quella a ricorrere a vecchie soluzioni che,
a lungo tempo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure
affrettate e pesanti perché prese in ritardo e senza accordo anche tra paesi
appartenenti a unioni di Stati, come i paesi europei. Nazionalismo,
protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. Averle
screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse
di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione
internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda
esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo, mentre ora ci si trova
a prenderle velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi
che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di
precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale con conseguenze
economiche e politiche simili a quelle che indussero le due guerre mondiali e
il marasma degli anni venti e trenta del Novecento.”
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