Pubblichiamo mio intervento su Economia e politica.
Il capitalismo fra la pentola delle bolle e
la brace della stagnazione
Sergio Cesaratto
Il presagio di
una tendenziale stagnazione del capitalismo è stata avanzato in un intervento
al FMI dall’eminente economista di Harvard ed ex segretario al Tesoro americano
Larry Summers. Il funesto vaticinio ha scatenato molti commenti nella blogsfera
internazionale ed è stato prontamente sottoscritto da Paul
Krugman nel suo popolare blog sul New
York Times e da Simon
Wren-Lewis, un altro influente blogger e macroeconomista a Oxford. In
sintesi Summers ha argomentato che il capitalismo può evitare una stagnazione
secolare solo se riesce a riprodurre bolle borsistiche o immobiliari simili a
quelle che l’hanno sostenuto nel recente passato, sfociate tuttavia nella crisi
finanziaria. Come in altre occasioni durante la crisi gli economisti mainstream si accorgono tardi e maldestramente
di ciò che gli economisti critici da sempre denunciano.
Per cominciare,
la discutibile spiegazione di Summers e colleghi della tendenziale stagnazione
secolare del capitalismo è che ciò sia attribuibile al calo demografico e
citano al riguardo un influente divulgatore di Keynes di prima generazione, Alvin
Hansen. Questi economisti, pur vagamente keynesiani, spiegano così le
tendenze secolari del capitalismo rifacendosi alla teoria neoclassica. E questa
teoria ritiene che l’economia cresca in piena occupazione al tasso di crescita
delle forze di lavoro purché i salari siano flessibili. Questo non appare
credibile per chi ritenga sbagliati i fondamenti teorici di quella tepria. Una
versione più keynesiana di questa tesi è che una popolazione crescente implichi
più domanda di abitazioni e beni di consumo. Ma anche qui non v’è una relazione
necessaria, sennò l’Africa sarebbe ricchissima.
Bizzarramente Summers
e colleghi attribuiscono al calo demografico anche la diminuzione del tasso di
interesse “naturale”, quello al quale la domanda aggregate sarebbe tale da
assicurare la massima occupazione compatibile con inflazione costante. Ma al di
là delle confusioni teoriche, comunque sorprendenti in star della teoria
dominante, la loro opinione è che il tasso di interesse “naturale” di
equilibrio sarebbe attualmente negativo, cosicché risparmiatori subirebbero una
perdita sui risparmi che li indurrebbe a consumare di più. Allo scopo di far
prevalere nei mercati tassi di interesse negativi, le banche centrali
dovrebbero dunque tenere i tassi di interesse nominali a zero cercando di generare inflazione o aspettative di
inflazione sì da scoraggiare l’accumulo di risparmi che, poco o nulla
remunerati, sarebbero erosi dall’aumento dei prezzi. Il risultato sarebbero
tassi di interesse reali negativi
(nominalmente si ottiene zero mentre l’inflazione mangia il capitale). Anche la BCE sta cercando timidamente
di farlo, ma con scarse probabilità di successo. Infatti difficilmente
l’inflazione può risvegliarsi se la spesa non riparte; ma consumi e
investimenti rimarranno depressi fin tanto che le aspettative sono di una
caduta e non di un aumento dei prezzi. Un cane che si morde la coda. Per questo
Krugman ritiene che un’aggressiva politica fiscale sia l’unica strada
percorribile, favorita peraltro dai bassi tassi a cui gli Stati potrebbero
indebitarsi se sostenuti dalle proprie banche centrali.
Che economisti
di questa rinomanza indichino nella deficienza della domanda aggregata di lungo
periodo la causa della tendenziale stagnazione del capitalismo è certamente apprezzabile.
Lo fanno coi mezzi che la loro povera dottrina gli fornisce. Che il problema
del capitalismo sia la domanda aggregata è invece pane quotidiano degli
economisti critici i più solidi dei quali si rifanno, per spiegarla, alla
teoria della distribuzione del reddito degli economisti Classici e di Marx. La
maggiore diseguaglianza distributiva aggrava, secondo questi economisti, la
deficienza di domanda aggregata. Infatti i capitalisti e i loro attaché non spendono per beni di lusso e
investimenti che parte del sovrappiù di cui si appropriano. Questa dimensione
sfugge quasi completamente a Summers e colleghi. E’in questo contesto che si
spiega invece bene il ruolo recente delle bolle finanziarie nello spingere le
classi lavoratrici a spendere di più in quanto i risparmi già accumulati –
tipicamente a fini pensionistici – si rivalutano rendendo superfluo ulteriore
risparmio. E si spiega anche il ruolo di forti stimoli all’indebitamento delle
famiglie per sostenere i consumi, incluso l’acquisto agevolato dell’abitazione
con conseguente sviluppo di bolle edilizie in cui l’aumento del valore delle
abitazioni funge da ulteriore stimolo a indebitamento e consumi.. Che il
capitalismo finisca per dover essere guidato da bolle speculative e indebitamento
di famiglie o di intere nazioni (in quest’ultimo
caso al servizio degli interessi mercantilisti delle élite di alcuni paesi come
la Germania), bolle e debiti che culminano in crisi finanziari, non è una
sorpresa per gli economisti critici. E’ il capitalismo, bellezza.
Sorpresi appaiono
invece Summers e compagni che la crescita pre-crisi guidata dal debito e dalle
bolle si sia svolta senza che l’inflazione abbia rialzato la testa (a parte,
ovviamente, l’inflazione nei valori borsistici). Per spiegarlo basterebbe
rifarsi a quello che Bellofiore e Halevi hanno definito la traumatizzazione del
lavoro, ovvero l’incapacità dei sindacati americani di sfruttare la crescita
per ottenere miglioramenti salariali in seguito alle bastonate subite a colpi
di disoccupazione e trasferimento in Asia delle produzioni durante gli anni
1980 e 1990. L’importazione di beni di consumo a basso costo dai paesi emergenti
ha fatto il resto. Summers e colleghi sono anche sorpresi della posizione
controcorrente della banca centrale svedese (quella che finanzia e assegna i
cosiddetti premi Nobel per l’economia) che mantiene i tassi di interesse
elevati pur in presenza di aspettative deflazionistiche, preoccupata che
politiche più espansive possano dare innesco a nuove bolle speculative, proprio
quello che le altre banche centrali sembrano desiderare. Al riguardo già Keynes
nella Teoria Generale criticò
Roberston per aver sostenuto l’idea che per assicurare la stabilità dei
prezzi si dovesse mortificare la ripresa attraverso più elevati tassi di
interesse, una posizione definita “pericolosa e immotivatamente disfattista”.
Summers e
compagni hanno dunque toccato un tasto dolente del capitalismo, la sua
necessità di far affidamento su meccanismi perversi per sostenere la domanda
aggregata. Questo conferma che il capitalismo è un sistema perverso. Lo è
fondamentalmente perché basato sulla diseguaglianza che deprime la domanda
aggregata producendo miseria a fronte del potenziale benessere (naturalmente ci
sono altri motivi etici, ecologici ecc. per cui il capitalismo è perverso, qui
ne evidenziamo uno). Anche noi economisti genuinamente keynesiani dovremmo
ricordarci che se, da un lato, ci si deve battere per un capitalismo più giusto
e dunque meglio funzionante, dall’altro è sulla prospettiva di un sistema più
razionale, quello socialista, che si dovrebbe ritornare con serietà a
riflettere.
Addendum: un'altro esempio di un economista che comincia dubitare nel lungo periodo Wickselliano è De Long, ma le vie d'uscita proposte sono deprimenti.
Addendum: un'altro esempio di un economista che comincia dubitare nel lungo periodo Wickselliano è De Long, ma le vie d'uscita proposte sono deprimenti.
Nessun commento:
Posta un commento