La sinistra e
l’economia: da Sraffa e Keynes alla riforma del MES.
Professor
Cesaratto, entriamo subito nel vivo, ovvero l’attuale questione del Mes , il
fondo salva Stati. Anzitutto, per i profani in materia di economia, può
spiegare cos’è il Mes e come funziona
questo meccanismo applicato all’economia europea?
Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche fondo
salva-Stati, fu creato nel 2011. Interviene a finanziare uno Stato quando per
quest’ultimo non ha più senso finanziarsi sui mercati a causa di tassi di
interesse troppo alti. Semplificando, quando i sottoscrittori del debito
pubblico non rinnovano i prestiti, non trovando altri acquirenti a tassi
ragionevoli, il Paese non può restituire i prestiti in scadenza ed è in
default. Il MES interverrebbe prestando quattrini al Paese, probabilmente in
combinazione con la BCE che a sua volta comprerebbe titoli di Stato sotto il
cappello dell’OMT (Outright Monetary
Transactions), il programma annunciato da Draghi nel luglio 2012 nel famoso
discorso in cui disse che la BCE avrebbe fatto tutto quanto necessario
(“whatever it takes”) per preservare l’euro. L'aiuto di Draghi era subordinato
a prestiti MES, e questi ultimi a un “memorandum of understanding”, un impegno
del Paese a perseguire politiche di aggiustamento fiscale (leggi: austerità).
Il MES ha un capitale fornito dai Paesi dell’eurozona (80 miliardi), e in caso
di prestiti si può finanziare emettendo titoli.
La
riforma del Mes dovrebbe avvenire entro fine anno. Nel sistema economico
italiano sale la preoccupazione per questa riforma. Se, come prevedibile, verrà
attuata,come prima risposta le banche italiane smetterebbero di acquistare
titoli nazionali?
Il presidente dell’Associazione bancaria italiana
(ABI) Patuelli ha detto di sì.
Per
quale ragione?
Nel nuovo-MES si allude
alla “ristrutturazione del debito” nel caso lo staff del MES non reputi il
debito di quel Paese sostenibile. Ristrutturazione significa che i detentori
dei titoli di Stato potrebbero vederne allungate le scadenze, o abbassato il
rendimento, o infine addirittura vedere tagliato parte del loro credito (haircut).
Se
si arrivasse a questo, quali saranno le conseguenze più pesanti sull’economia nazionale?
Tutti ricordano cosa accadde quando Merkel e Sarkozy, nell’autunno
2010 annunciarono che da quel momento i prestatori agli Stati in default
avrebbero subito perdite - tanto nel maggio le banche tedesche e francesi che
avevano prestato quattrini alla Grecia erano state già messe in sicurezza (anche
coi nostri soldi) quindi al riparo da un haircut.
Secondo molti osservatori, fu proprio questo annuncio a innescare la crisi di
sfiducia verso i titoli italiani e spagnoli, ciò che ci costrinse all’emissioni
di titoli a tassi esorbitanti, che ancora paghiamo. Ora si rischia di allarmare
nuovamente i mercati. Le banche italiane e straniere
ci penserebbero due volte ad acquistare titoli di un Paese chè potrebbe
essere assoggettato a ristrutturazione del debito. Di qui i timori del
governatore di Bankitalia Ignazio Visco, di Patuelli e dell’on. Giampaolo Galli
e di tanti altri. Una ristrutturazione del debito
colpirebbe duramente le banche e i risparmiatori. E’ una strategia folle.
Ma qual è il
giudizio politico?
Da tempo la Germania vuole sottrarre il giudizio sul rispetto
delle regole fiscali alla giurisdizione della Commissione, essendo quest’ultima
troppo sensibile agli equilibri politici (per esempio, non giudicando troppo
severamente governi italiani considerati “amici”). Al MES verrebbero attribuito
poteri molto forti. Sotto mentite spoglie è il Fondo monetario europeo
desiderato da tempo dalla Germania. Insomma l’Europa, invece di trasmettere
fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi a sostenerli attraverso bassi tassi
di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerli nel baratro. È una
strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde per costringerli
a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo quanto tale “risanamento”
sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in Germania ed Olanda,
chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità verso i
Paesi debitori.
I filo-europeisti
governativi hanno però negato che nel nuovo Trattato si parli di
“ristrutturazione del debito”.
In una sorta di preambolo al Trattato si dice: “(12B) in
circostanze eccezionali una forma adeguata e proporzionata di coinvolgimento
dei privati, in linea con le pratiche del Fondo Monetario Internazionale, verrà
presa in considerazione nei casi in cui il sostegno alla stabilità [del debito]
è concesso accompagnato da condizionalità nella forma di programmi di
aggiustamento macroeconomico”). Per coinvolgimento del settore privato (Private
sector involvement) si intende ristrutturazione del debito. Quest’ultimo non è
automatico, questo va riconosciuto, ma è fra le opzioni possibili.
Nell’articolato poi il punto non viene ripreso, ma nell’Annesso III dove si
specificano le condizioni di accesso agli aiuti si menziona la clausola della
sostenibilità del debito (senza entrare nei dettagli).
Pierre
Moscovici, al termine del suo mandato come responsabile dell’economia in Ue,
manda due messaggi importanti all’Italia. Se la riforma si blocca salta il sostegno
alle banche. La frontiera è l’euro e il sovranismo deve arretrare. Che ne pensa?
Il nuovo-MES contempla la possibilità per questa
agenzia europea di fungere da garanzia di ultima istanza nel caso di
ristrutturazione delle banche europee. Ma ad essere nei guai sono soprattutto
le banche tedesche, e il messaggio è a Berlino che dovrebbe essere indirizzato.
C’è in verità una seconda discussione in corso e che riguarda l’assicurazione
europea sui depositi bancari sotto i 100 mila euro. Questi sono oggi assicurati
a livello nazionale, ma una vera sicurezza può solo provenire da una
assicurazione europea (come negli Stati Uniti). L’Italia sta bloccando un
accordo in questa direzione in quanto la Germania la subordina a un’altra
misura destabilizzante per il nostro debito pubblico, ovvero che le banche
italiane si liberino di buona parte dei 400 miliardi di titoli di Stato che
hanno in pancia. Anche in questo caso l’Europa proibisce e non costruisce, come
si è espresso il governatore Visco a proposito del MES. Circa euro e
sovranismo, beh forse il quesito lo dovrei porre io a lei! Sarebbe bene che la
sinistra si chiarisse le idee sull’Europa decidendo se davvero la considera la
nuova frontiera dell’internazionalismo, oppure se intende privilegiare i
problemi delle nostre masse popolari. Per gente come Moscovici l’Europa è la
frontiera del liberismo, e la rivendicazione di spazi nazionali ne è la
negazione. La sinistra italiana da che parte sta?
Philip
Lane, economista Bce, afferma “ l’economia cresce meno velocemente di quanto
sperassimo”. Assicurando però che nell’Eurozona non sono previste recessioni
Lei come vede e prevede la situazione odierna e per il 2020?
La fase di rallentamento dell’economia mondiale sta
già aggravando le nostre prospettive, e l’Europa a guida tedesca non sta
facendo nulla per prepararsi. Con la fine del mandato di Draghi non c’è più la
certezza di una guida adeguata alla BCE – Christine Lagarde ha dichiarato una
continuità, ma chissà! La Germania prosegue sul cammino del rigore fiscale per
sé e per gli altri. Una politica industriale europea non c’è (se non accordi
franco-tedeschi che lasciano da parte gli altri). Se a questo aggiungiamo il
disastro della nostra classe politica, inclusa l’assenza di una sinistra
all’altezza dei problemi del nostro paese, le prospettive sono preoccupanti.
In
questa ottica le scelte dei governi
dovranno puntare alla flessibilità sul deficit o maggiormente a riforme
strutturali ?
Riforme strutturali significa più laissez-faire. Non
siamo più ai tempi del PCI quando aveva un altro significato. Flessibilità
fiscale significa poco per l’Italia (a parte gli “zero virgola”) in quanto la
leva fiscale dovrebbe essere impiegata in primo luogo dai Paesi che hanno
spazio per espandere la spesa pubblica, Germania in primis - che ha conti in
ordine non tanto per proprie virtù, ma per le disgrazie altrui per cui gli
investitori si sono buttati sui titoli di Stato tedeschi sicché Berlino paga da
anni tassi negativi. Un’espansione fiscale in un Paese solo è impossibile, non
tanto per i parametri di Maastricht, ma soprattutto perché i mercati ci
farebbero a pezzi. In ambito europeo, se Germania che espandesse, se la BCE che
continuasse nella politica di acquisto dei titoli pubblici e, soprattutto, se
si adottassero forme di europeizzazione del debito, uno spazio fiscale si
aprirebbe anche per noi. Se, se , se…
Professore,
un’ultima domanda sulla riforma del Mes. Per quali motivi si dovrebbero accettare
ipotetici strumenti di sostegno che in realtà sembrano penalizzare ancor di più
le economie degli Stati. Lo Stato
spende per gli interessi del debito il doppio di quanto spende per investimenti
pubblici. Il Mes non sembra essere un meccanismo che facilita il rientro
del debito, ma al contrario questi strumenti di assistenza finanziaria
potrebbero facilitare invece una nuova crisi del debito.
L’abbiamo detto: l’Europa,
invece di trasmettere fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi attraverso
bassi tassi di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerci nel
baratro. È una strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde
per costringerli a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo come
tale “risanamento” sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in
Germania, chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità
verso i Paesi debitori.
Nel caso di un’effettiva ristrutturazione del debito, questo
colpirebbe le banche, in particolare quelle italiane che sono forti detentrici
di nostri titoli di Stato. Cosa accadrebbe nel caso di una ristrutturazione del
debito italiano? Interverrebbe lo stesso nuovo-MES dotato ora di potere diretto
di prestare quattrini alle banche? Ma che pasticcio è?
Il debito pubblico italiano sarebbe perfettamente sostenibile con
bassi tassi di interesse e una politica fiscale europea che sostenesse la
crescita. Come ha proposto il prof. Paolo Savona, il MES dovrebbe essere
utilizzato per “europeizzare” una parte del debito pubblico dei paesi europei.
Il MES lo potrebbe fare emettendo titoli a tassi bassissimi (dato che ha una
garanzia europea) e finanziando così l’acquisto di titoli di Stato Europei. I
titoli emessi dal MES costituirebbero quel safe asset, quel titolo
europeo ritenuto sicuro, molto gradito agli investitori internazionali e alle
banche europee. Invece di riformare la propria assurda costituzione economica, l’Europa
ne accentua invece i tratti più oppressivi. Il governo italiano farebbe bene a
non firmare per il nuovo-MES, chiedendo un periodo di riflessione su tutto
l’impianto economico dell’Eurozona. A
proposito: chi lo spiega alle “sardine”?
Passiamo
alla sua ultima opera, di cui è disponibile da pochi giorni la seconda
edizione. Parliamo di “Sei lezioni di economia - Conoscenze necessarie per
capire la crisi più lunga (e come uscirne)” (Diarkos). Perché leggerlo?
La prima edizione delle Sei
lezioni ha avuto un ottimo riscontro (e la nuova edizione è già in ristampa
mentre le edizioni in spagnolo ed inglese sono in preparazione, quest’ultima
col colosso Springer) perché mostra come esistano diverse teorie economiche le
quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di
come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del
libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai
grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John
Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e
quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla
fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla
critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero
Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La
figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino a quelli
colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi
come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa,
personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a
Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che
negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della
teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del
marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La
controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese
e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti
della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo
Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti. Garegnani fu l’allievo prediletto di
Sraffa ed è stato il mio maestro. A lui devo la chiarezza concettuale delle Sei lezioni che credo sia ciò che ha
colpito di più i lettori.
Semplificando molto, la teoria classica aveva al suo centro il concetto
di sovrappiù sociale. Questo è definito come ciò che rimane del prodotto
sociale una volta tolte le sussistenze per i lavoratori. Questo semplice
concetto ci dà la chiave per ricostruire il funzionamento delle diverse
“formazioni economiche” pre-capitalistiche, dall’economia neolitica alle
civiltà antiche e successivamente al feudalesimo. A seconda delle diverse
condizioni geografiche e storico-istituzionali diverse sono infatti state le
modalità con cui le classi dominanti si sono appropriate de sovrappiù sociale.
Non è un caso che tale concetto sia ampiamente utilizzato negli studi
archeologici delle civiltà antiche e nell’antropologia.
La teoria economica marginalista ha invece al suo centro l’idea che il
laissez faire conduca a una distribuzione del reddito fra i “fattori
produttivi” (come lavoro, capitale e terra) in cui ciascuno ottiene una fetta
di torta commisurata all’apporto di quel fattore alla produzione sociale. A
ciascuno il suo, insomma. Il punto è che, come Sraffa dimostra, nella
dimostrazione analitica di tali conclusioni essa compie gravi errori che ne
inficiano i risultati. In aggiunta, Keynes dimostra come non sia vero come
preteso da questa teoria che tutto ciò che si produce è venduto, ma che il
capitalismo soffre di carenza di domanda aggregata. Tale carenza è da porsi in
relazione proprio con la diseguale distribuzione del reddito che caratterizza
anche il capitalismo. Chi ha i denti non ha il pane… come si usa dire.
L’economia è alla portata di tutti, con un po’ di sforzo. Purtroppo
anche a sinistra prevale la pigrizia mentale. Altri temi che si prestano a più
facili passioni prevalgono nel sentire comune. Basti guardare al fenomeno delle
“sardine” dove prevale il generico, o addirittura si fa di quella europea la
propria bandiera. Dunque si sventola uno dei simboli del liberismo. Oppure si
guardi a Pancho Pardi, il nonno
delle “sardine”, che in una trasmissione Rai a cui partecipavo ha detto che lui
di economia non capisce nulla. Ma allora come ha fatto a fare politica? Questi
sono i nostri leader e leaderini? Beh, le “Sei lezioni” sono state scritte
anche per voi, soprattutto per voi. Ma c’è da mettere assieme Vangelo e
Gramsci: serve la buona volontà.
Lei
sostiene, nella prefazione del saggio, che la crisi europea e le motivazioni,
che descrive ampliamente, hanno stimolato l’interesse di molti giovani che si
sono avvicinati alle teorie economiche per capirne le ragioni. Sostiene anche
che c’è stata una riscoperta di massa del pensiero di Keynes, di cui lei sembra
essere grande fautore. E’ così?
Sì, moltissima gente, giovani in particolare, si sono
avvicinati all’economia per capire ciò che stava accadendo. Ma le “Sei lezioni”
hanno aperto la mente anche a tanti giovani che studiano economia in università
dove il pluralismo delle idee è scomparso. Dopo i capitoli più “teorici”
dedicati, rispettivamente, ai classici e Marx, ai marginalisti e a Keynes, il
libro scivola verso i problemi della politica economica per arrivare a spiegare
la crisi europea e, soprattutto, i misteri della politica monetaria (nella
nuova edizione ho aggiornato l’esposizione e corretto qualche errore). Prevale
naturalmente un pessimismo circa la riformabilità dell’Europa. Un pessimismo
motivato, naturalmente, e con il quale non mi risulta che la sinistra abbia
fatto i conti sino in fondo. (A mitigare il pessimismo, il libro cerca di
essere anche divertente, e anche questo è stato apprezzato).
Lei
vede quindi il pensiero e le teorie keynesiane più utili e applicabili di
quelle marxiste, ad esempio riguardo la legge basata sul valore/lavoro che lei
considera sbagliata?
Assolutamente no. Nel libro più che Keynes è centrale
la teoria del sovrappiù che Marx riprende dagli economisti classici. La teoria del
valore-lavoro è una particolare formulazione della teoria del sovrappiù che
Ricardo e poi Marx adottarono per affrontare alcuni problemi analitici ben
spiegati nel libro. Purtroppo entrambi si avvidero che tale soluzione non
funzionava. Marx si indirizzò lungo un percorso che poi Sraffa, in grande
misura autonomamente, portò a compimento. La teoria di Keynes è complementare a
quella del sovrappiù. Essa va però liberata dai retaggi marginalisti, e anche
qui l’opera di Sraffa-Garegnani ci è essenziale. Nella nuova edizione ne parlo
con un po’ più di dettaglio.
In quanto a Keynes, è un personaggio che non è mai
stato troppo popolare in Italia, tanto meno a sinistra. Il PCI non è mai stato
né Keynesiano, né Sraffiano. Ma sul PCI e l’economia credo abbia detto già
tutto Leonardo Paggi (I comunisti
italiani e il riformismo, Einaudi 1986, scritto con M. D’Angelillo). Lo
considero una bibbia. Anche da una seria riflessione sugli errori economici del
PCI si dovrebbe ripartire (errori che sono poi errori politici di fondo).
Concluderei
con una domanda che le può risultare provocatoria, ma utile a capire una
definita posizione che ha preso il suo collega Bagnai, addirittura nelle fila
della Lega. Posizione che più sovranista non si può. Lei scrive che “la
sinistra se l’è lasciato sfuggire”. A cosa è dovuto questo suo ‘j’accuse’ verso
la sinistra radicale che già è in sofferenza di suo. Non le sembra un tantino
ingenerosa questa sua affermazione?
La sinistra radicale è in crisi precisamente perché si
lascia sfuggire economisti dello spessore di Alberto Bagnai. Non sembra che,
peraltro, presti grande ascolto a voci ben ferme a sinistra come Antonella
Stirati, Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacché o Sergio Cesaratto, si parva
licet. Naturalmente la crisi della sinistra ha radici profondissime che io vedo
nel fallimento del socialismo reale e nel conseguente scatenamento del
capitalismo globale. Quest’ultimo ha comportato sia il decentramento del
capitale in zone periferiche, ma anche l’incremento dei flussi migratori. Questi
fenomeni hanno comportato un enorme allargamento dell’esercito industriale di
riserva a livello globale che ha annichilito la forza contrattuale del
movimento operaio. La socialdemocrazia, a sua volta, non ha saputo o voluto
opporsi. Ripartire è drammaticamente difficile. Serve uno sforzo intellettuale
formidabile. Non ne vedo segni, o ne vedo di opposti, come nel manifesto delle
“sardine”. Ma tutti noi, economisti di sinistra, saremmo felicissimi di aprire
un dialogo con questo movimento. Dalla mia esperienza universitaria ho però
l’impressione che con i giovani cosmopoliti ed europeisti non ci sia grande
dialogo, molto più facile aprirlo con giovani più semplici, che magari non han
fatto mai politica e non sono andati in Erasmus, ma che scoprono un mondo ascoltando
le mie lezioni o studiando le “Sei lezioni” (e mi ringraziano). Le “sardine”
appaiono come una aspirante élite, come quest’ultima disturbata dal populismo,
dalla rabbia del popolo vero a cui guardano con disprezzo e che lasciano così
alla destra. Se non è così, la mia mail è pubblica.
Si
può dedurre che ci diventerà sovranista anche lei?
Cosa intende dire? Che essere per il proprio Paese è
un valore di destra?
Sergio Cesaratto, Sei
lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e
come uscirne), 2da edizione, Diarkos, Reggio Emilia, 2019.
Sergio Cesaratto insegna Politica monetaria e fiscale europea ed Economia
internazionale presso l’Università di Siena. E’ uno dei più noti economisti
“eterodossi” internazionali. Si è occupato fra l’altro di crescita economica,
pensioni, innovazione e, ultimamente, della relazione fra teoria del sovrappiù,
Polanyi e archeologia e antropologia economica. I suoi contributi sono stati
pubblicati dalle principali riviste scientifiche eterodosse internazionali. E’
uno dei più noti partecipanti al dibattito pubblico italiano ed europeo sul
tema della crisi dell’eurozona.
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