Ecco la versione originale del pezzo richiestomi da Il Fatto e pubblicato (26 ottobre 2019) accanto a un articolo di Francesco Saraceno. Buona lettura
Ha fatto "whatever it takes (or he could)"
Mario Draghi sarà
ricordato come un grande banchiere centrale. Certo, qualche macchiolina ce l’ha,
come quando nel 2012 affermò che “il modello sociale europeo è andato”,
o nella troppa accondiscendenza, sua e della Christine Lagarde che dirigeva il
FMI, ai falchi nord-europei nella trattativa col governo Tsipras nel 2015. Ma certamente con la sua presidenza, dal novembre 2011, con
la crisi europea al suo apice, l’azione della BCE si fece più determinata.
La
sua prima mossa fu di mettere a disposizione delle banche più di mille miliardi
di euro di liquidità. Quelle italiane e spagnole ricorsero a questi fondi per
sostenere i titoli di Stato dei propri Paesi da cui gli investitori esteri stavano
fuggendo. Ma questo non bastò a frenare la “crisi degli spread” e nel luglio
2012 Draghi minacciò il “big bazooka”, l’intervento diretto della BCE a
sostegno dei titoli pubblici dei Paesi sotto attacco. Ma, salvato l’euro, nel 2013 si affacciò lo
spettro della deflazione. Draghi fu ben consapevole che la politica monetaria
da sola era impotente. Il cavallo non beve: la liquidità creata non si
trasforma un credito e spesa poiché famiglie e imprese sono in crisi, e lo
Stato rimane l’unico soggetto che può rilanciare la domanda. Già in un importante
discorso nel settembre 2014 Draghi sottolineò la necessità che
alla politica monetaria si affiancasse la politica fiscale in quanto i “rischi di fare troppo poco – dunque che la
disoccupazione diventi da ciclica a strutturale
– oltrepassano quelli di fare troppo – cioè quelli di un’eccessiva pressione verso
l’alto su salari
e prezzi”. Denunciò l’assenza
della politica fiscale europea, mentre negli Stati Uniti e in Giappone la
politica monetaria “ha potuto agire ed ha agito come sostegno al finanziamento dei governi”, ponendo
quei governi al riparo dalla “perdita di fiducia
che ha invece ridotto
l’accesso ai mercati finanziari a molti governi dell’euro area”.
Questa perorazione rimase inascoltata. Col Quantitative Easing,
l’acquisto dal marzo 2015 di titoli pubblici (e non solo), Draghi cercò
comunque di sostenere il consolidamento fiscale dei Paesi a più alto debito,
ottenendo anche che la liquidità creata si rivolgesse ad investimenti
finanziari extra-europei facendo svalutare l’euro sì da sostenere le
esportazioni. Ma Draghi sa che questa non è questa la strada maestra. Quando lo
scorso settembre annunciò un nuovo mini-QE, la reazione di Trump fu immediata: reagiremo
a una svalutazione competitiva innalzando i dazi. In vista della scadenza del
suo mandato Draghi è diventato dunque più “vocale” nel rivendicare la necessità
di una politica fiscale attiva, assecondata da una politica monetaria al suo
servizio. La temuta (dai tedeschi) fiscal dominance.
In conferenza stampa ieri Draghi si è tolto molti
sassolini dalla scarpa con affermazioni che suonano come una denuncia della
politica economica europea (parole che avremmo voluto sentire in questi anni
dagli esponenti del centro-sinistra italiano). Draghi ha così richiamato “i governi che
hanno spazio di manovra di bilancio” (leggi Berlino) ad “agire in modo efficace
e tempestivo”, il solo modo per uscire dalla politica di tassi di interesse
negativi di cui si lamentano poiché nuocerebbe a banche e risparmiatori. Ha
ricordato poi che un’unione monetaria completa richiede “una capacità di
bilancio centrale” che svolga una funzione anti-ciclica, oltre a una assicurativa
nel caso di shock che colpiscano solo alcuni Paesi membri. Qual è la
probabilità che venga ascoltato? La Lagarde che gli succederà è certamente
sensibile a questi argomenti, come lo è il governo francese. Ma sappiamo come
quest’ultimo si sia sempre arreso di fronte all’opposizione tedesca. La Corte Costituzionale
tedesca ha da anni sancito il principio che ogni spesa che coinvolga il
contribuente tedesco debba passare per il Bundestag, e più recentemente gli
economisti tedeschi hanno ribadito la loro opposizione a politiche di “deficit
spending”. L’élite di quel Paese ha pervicacemente in mente un modello basato
sulle esportazioni, la vacca sacra della politica tedesca, come fu definito già
negli anni ’50. Ad esso ogni tedesco si inchina, sino al punto di accettare il
G5 Huawei, coi connessi problemi di sicurezza, pur di non disturbare l’acquirente
cinese. Il futuro europeo è piuttosto fosco.
Sergio Cesaratto
insegna Politica monetaria europea all’Università di Siena. Le vicende di
Draghi sono narrate nel suo libro Sei lezioni di economia fra pochi
giorni in libreria per l’editore DIARKOS.
https://www.diarkos.it/index.php?r=catalog%2Fview&id=47
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