L’ETERODOSSO a
cura di Andrea Incerpi
ECONOMIA
Sostenere la domanda
interna e così noi stessi
e l’economia globale.
Ma la Germania
non ne vuole sapere.
Il problema
è sempre tutto lì
Sono
passati dieci anni dalla crisi finanzi aria che ha messo in ginocchio i mercati
del lavoro e dei capitali eppure i suoi effetti, seppur mitigati dalla
decorrenza del tempo piuttosto che da efficaci misure di politica economica a
livello europeo, sono ancora visibili. Austerity, rigore fiscale e riduzione
della spesa pubblica sono stati i mantra dei governi dell’Eurozona, con effetti
spesso discutibili sui principali indicatori economici. Il pensiero ortodosso che
si riconosce in questo spettro di politiche restrittive non è mai sembrato così
in discussione. Ed è proprio uno dei maggiori esponenti del pensiero critico italiano,
il prof. Sergio Cesaratto, a fornire un contributo analitico partendo da una
diversa prospettiva.
Quella
che pone al centro della crescita il ruolo dell’Europa, il mondo dei lavoratori
e un nuovo nucleo di forze progressiste.
La crisi degli ultimi anni ha fatto
crescere il numero di “euroscettici”.
È ancora possibile ipotizzare la
futura sostenibilità dell’Eurozona?
La
ripresa europea è considerate fragile e trainata da fattori esterni. Inoltre
non vi sono né vi possono
essere,
grandi prospettive per una rivoluzione politica dell’Eurozona.
Un’Unione
politica è una tax-transfer union, presuppone trasferimenti fiscali perequativi
fra i paesi membri. Giustamente i paesi nordici non ne vogliono sapere. Allora a
che scopo, per noi, rinunciare alla sovranità nazionale? Certo, di meglio si
può fare che quest’Europa vagone-del-mondo: sostenere la domanda interna e così
noi stessi e l’economia globale. Ma la Germania non ne vuole sapere. Il
problema è sempre tutto lì. Il problema europeo è il problema tedesco.
La globalizzazione ha messo in
luce nuove sfide per l’economia
politica. Quali sono gli aspetti
positivi e negativi di questo processo?
Naturalmente
l’aspetto positivo è che milioni di persone stanno uscendo dalla povertà –
anche se questi processi sono spesso drammatici e si esce da una povertà dignitosa
per andare a fare l’operaio in condizioni penose. Nel più lungo periodo magari
le cose migliorano. È stato così anche per noi. Gli aspetti negativi sono due:
uno è quello ambientale. Ma non si può certo negare ad altri popoli quello
sviluppo che vogliamo per noi. Le prospettive non sono certo rosee. Il secondo
riguarda l’entrata nel mercato del lavoro di miliardi di nuovi lavoratori
disposti a lavorare a salari più bassi. Assieme ai flussi migratori, questa nuova
concorrenza ha contribuito a devastare il mercato del lavoro e le conquiste
sociali nei paesi (ex) avanzati. Certo, le politiche monetariste da Reagan e
Thatcher in poi avevano già cominciato l’opera.
Circa
l’economia politica non saprei. Quella non-conformista, forte delle lezioni di
Marx e Kalecki non ha avuto certo problemi a cogliere questi processi. Il
mainstream credo si muova su altre prospettive. Non è che mi interessi molto,
la distanza culturale con loro è spesso abissale.
Le ricette anti-crisi proposte
dall’agenda Europea sono state
sino ad oggi sufficienti?
L’euro
è un successo, come pare abbia detto Mundell nel 2011. Esso
è
stato concepito per portare disciplina sociale, e in questo ha avuto successo.
Draghi è stato l’uomo giusto al momento giusto (forse i tedeschi avrebbero
fatto naufragare l’euro, e chissà se non sarebbe stato un bene). Alla BCE conoscono
la politica monetaria, e la sanno fare. Ma, come si usa dire, si può portare il
cavallo a bere, e non è detto che beva. Quindi, contrariamente ai libri di
testo di macroeconomia (come il Blanchard o il Mankiw) maggiore liquidità non genera,
via moltiplicatore dei depositi, maggiore credito. In banca centrale lo sanno,
e infatti la grande liquidità (al di là delle dichiarazioni formali) serve altri
scopi: far deprezzare l’euro, impedire che le fughe di capitali facciano
saltare Stati e banche periferiche, per esempio. A proposito di Economia politica,
sulla politica monetaria c’è convergenza piena fra economisti eterodossi e
ricercatori presso le banche centrali. Sono i libri di testo neoclassici a
essere sbagliati. Uno dei migliori economisti alla BCE, Ulrich Bindseil, è
scandalizzato di questo.
Qual è stato e quale dovrebbe essere
il ruolo della BCE al fine di
stabilizzare l’economia europea?
Se fossimo
come gli Stati Uniti la BCE collaborerebbe con un governo federale per
perseguire piena occupazione e stabilità dei prezzi. Fondamentalmente in una
democrazia la banca centrale deve essere al servizio della politica e assecondare
la politica fiscale.
La
storia dell’indipendenza della banca centrale è solo funzionale a farne il cane
da guardia dei salari (questo vuol dire stabilità dei prezzi). In Europa,
peraltro, non è la BCE di Draghi a non essere stata collaborativa, ma è stata la
politica fiscale a non aver agito.
Non
solo ci siamo ingabbiati politicamente e finanziariamente nell’euro, ma grazie
ai padri della patria Andreatta e Ciampi (e il contorno dei loro economisti) ci
siamo ingabbiati ideologicamente in teorie fasulle. È noto che queste teorie
sono state elaborate in America, dove però si guardano bene da applicarle alla
lettera. Due economisti italiani, il bocconiano Francesco Giavazzi e Marco Pagano,
hanno coniato l’espressione “legarsi le mani”. Li ringraziamo per aver coperto
ideologicamente la svendita del paese.
Quali sono le maggiori cause della
crisi dei debiti sovrani?
Ormai
c’è un certo consenso... nel senso che il mainstream è arrivato ora quanto
molti di noi sostenevano già nel 2009/2010 (e anche Marco Buti alla Commissione,
va detto), che cioè l’eurozona era in una crisi di bilancia dei pagamenti. Ma loro,
allora, ancora sostenevano che fosse una crisi fiscale dovuta agli elevati
debiti pubblici, e sponsorizzavano l’austerità espansiva (un’idea che dobbiamo
a un altro bocconiano, Alberto Alesina). Ora tutti sappiamo – alcuni di noi
eterodossi un po’ meglio - che tassi di cambio fissi stimolano l’indebitamento
dei paesi periferici, come sempre accaduto nella storia economica - qui da leggere
sono gli storici monetari come Michael Bordo. A indebitarsi sono le banche, e
quando scoppia la crisi del debito (gli stranieri non vogliono rinnovarlo
perché preoccupati della sua dimensione) gli Stati le soccorrono e la crisi diventa
fiscale. Irlanda e Spagna sono gli esempio più puri. In Grecia fu (soprattutto)
uno Stato coccolato dai tedeschi a indebitarsi. Il contraltare di questa storia
è dunque il mercantilismo tedesco che attraverso
la cosiddetta “vendor finance” ha sostenuto gli acquisti della
periferia.
Alla BCE conoscono la
politica monetaria,
e la sanno fare.
Ma, come si usa dire,
si può portare il cavallo
a bere, e non è detto
che beva...
Questi
processi erano benedetti da Blanchard e Giavazzi nel 2002. Dunque la crisi non
è stata dei debito sovrani, ma dei debiti esteri.
Quale futuro scenario economico
è ipotizzabile in seguito alla
continua espansione di economie
emergenti come quelle dei BRICS?
Non
sono bravo a tracciare gli scenari. La strada maestra per l’economia mondiale
dovrebbe essere quella del keynesismo internazionale in cui sono puniti i
comportamenti neo-mercantili e i paesi in surplus sono sollecitati a ridurre i
loro avanzi espandendo la loro domanda interna.
Inoltre
il controllo diffuso sui movimenti di capitale dovrebbe impedire il loro ruolo
destabilizzante.
Ai
paesi più arretrati andrebbe concessa la possibilità di fare un po’ di
protezionismo per poter sviluppare le loro industrie nazionali (un po’ di
protezionismo andrebbe in realtà concesso a tutti, così come la possibilità di aiuti
di Stato all’industria nazionale; l’UE per esempio lo vieta).
La
Cina sembra una potenza responsabile, molto più degli imprevedibili e
guerrafondai Stati
Uniti.
Nel 2009, ad esempio, i grandi paesi si accordarono per politiche keynesiane
anti-crisi, e
funzionò.
La riluttanza tedesca fu allora vinta (anche se fecero di meno degli altri). Ma
ora sono
tornati
alle vecchie credenze anti- keynesiane. Anzi, opportuniste perché il
capitalismo tedesco è contento se gli altri sono keynesiani così comprano
prodotti tedeschi e hanno più inflazione, perdendo competitività. Dal principio
degli anni ’50 fanno scientemente questo gioco.
Comunque,
oltre al coordinamento internazionale delle politiche fiscali e monetarie, la
scommessa è
sull’ambiente.
Le due cose dovrebbero andare assieme. Qui c’è un errore politico degli
ambientalisti, di trascurare le ragioni dell’economia.
Esiste una relazione tra premi Nobel
per l’Economia e l’orientamento
delle politiche economiche?
In
genere non so nulla dei premi Nobel e non mi interessano - è anche, com’è noto,
un Nobel spurio, assegnato dalla Banca Centrale di Svezia e non dall’Accademia Reale
delle Scienze. Piero Sraffa (come Keynes) ebbe un vero Nobel, quando l’Accademia
assegnava (non tutti gli anni) una medaglia d’oro a un economista. Sraffa
condivide questo onore con Keynes e pochi altri. Il Nobel di quest’anno è stato
assegnato, da come ho capito dai titoli di stampa, a qualcuno che studia i
comportamenti. È individualismo metodologico, soggettivismo, “robinsonate” le chiamerebbe
Marx. Ed è la vittoria della micro sulla macro. Quello che voglio dire è che se
si è interessati alla distribuzione del reddito come tema centrale – come fu
per Ricardo, Marx e i grandi marginalisti – allora questa roba è poco interessante.
Se poi si è interessati alla finanza, o ai comportamenti micro del consumatore
o dell’investitore, questa roba è forse interessante. A me interessano le classi
sociali, i grandi problemi, l’occupazione, la giustizia. Non studierei mai
economia per pormi da ultimo al servizio della finanza o del marketing facendo
test comportamentali. Allora meglio studiare letteratura
o storia dell’arte.
Chiariamoci,
studiare i comportamenti fa parte della disciplina economica. È la prospettiva
in cui lo si fa che fa la differenza, se micro o macro. Se per migliorare la
società o giocare ai test psicologici.
Le riforme del mercato del lavoro
a favore di una maggiore flessibilità
sono l’unica risposta ai crescenti
livelli di disoccupazione?
La flessibilità,
che attraverso la libertà di licenziamento riduce i salari e le tutele, può
accrescere
l’occupazione
solo nell’ambito di una strategia di “disinflazione competitiva”, spesso
chiamata di “svalutazione interna”. È quello che con l’euro ci è stato imposto:
gareggiare con gli altri paesi attraverso il costo del lavoro. Il risultato è
la devastazione della domanda interna e la perdita di capacità produttiva. In
generale, al di fuori della “disinflazione competitiva”, l’occupazione dipende dalla
domanda aggregata, non
dai
salari. Per questo servirebbe un keynesismo europeo e globale.
L’inflazione
andrebbe posta sotto controllo con il classico strumento socialdemocratico
della politica dei redditi (aumenti dei salari diretti e indiretti in linea con
la produttività). Purtroppo il padronato italiano è sempre stato gretto da
questo punto di vista. E la sinistra, con qualche eccezione nel PSI degli anni
sessanta, non è mai stata socialdemocratica (nel senso nordico) e keynesiana,
anzi. Napolitano non viene dal nulla, ma da una tradizione comunista che
condivideva la teoria economica dominante e vedeva le conquiste operaie come
sovversive. L’opposto della socialdemocrazia nordica.
L’opposto
di Gunnar Myrdal (fu lui che infatti fece assegnare la golden medal a Sraffa).
La “terza via” intrapresa da buona
parte della sinistra europea a
partire da Blair è ancora il punto
di riferimento per le proposte di
politica economica di area progressista
o può considerarsi superata?
La terza
via era un abbraccio dell’analisi economica marginalista condita con un po’ di
buonismo alla Veltroni. Si abbracciò una presunta modernità in cui le classi
sociali e lo sfruttamento erano scomparsi. Si preparò il terreno alla più
paurosa ingiustizia relativa che il mondo abbia mai visto.
Certo,
con la scomparsa, o almeno contrazione, della classe operaia tradizionale certi
presupposti della socialdemocrazia tradizionale sono venuti meno. Tutto era più
chiaro sino a quaranta o cinquanta anni fa: c’erano i padroni e il loro servi,
c’erano gli operai, gli impiegati e i contadini. Ora vai a capire... Le
rappresentanze politiche si fanno dunque più ambigue, vedi il M5S. Per la
sinistra è dura ricostruire una base sociale di riferimento. Anche il mondo è
più complesso. Certo la svendita della moneta e lo smantellamento dell’industria
pubblica – tutta opera della sinistra italiana – rendono un percorso di
progresso nazionale assai impervio. Anche questo fu frutto della terza via. Ma
oggi si ripropongono i medesimi leader di allora. È sorprendete che nel centro-
sinistra non riesca a emergere un minimo di guida politica qualificata,
competente, innovativa e con un entourage affidabile.
Più
in generale, ricordiamo in questi giorni l’anniversario della Rivoluzione sovietica.
Non è questo il
luogo
per dire qualcosa su questo tentativo di costruire una società più umana. Che
sia fallito non
implica
che non vada compreso.
Quello
che intendo qui sottolineare è che la fine dell’esperimento socialista ha dato
un colpo mortale
alla
sinistra. La Terza via si è prontamente rivolta all’alternativa esistente, il
mercato, dimenticandosi dei suoi limiti. Venuta meno la sfida socialista, il
capitalismo ha rivelato il suo vero volto, quello ottocentesco della
disuguaglianza più estrema. L’idea stessa di sinistra è orfana oggi di un
progetto alternativo al mercato. La radice della sua crisi è (quasi) tutta lì.
La cosiddetta “sinistra” oggi in Italia (scissionisti vari, residui vendoliani,
assemblearisti, altroeuropeisti) è un insieme di personaggi per lo più senza
grande spessore e che si parla addosso. La sinistra disprezza, e probabilmente
conosce poco, i temi economici, e forte di truppe di giuristi si scherma dietro
la Costituzione. Troppo comodo! È un modo per non dir nulla.
Quali punti dovrebbero essere
al centro dell’agenda di politica
economica per garantire una ripresa
della crescita a livello nazionale
ed europeo?
Una
politica di sostegno alla domanda aggregata a livello europeo, soprattutto da
parte dei paesi
con
avanzi commerciali. Da parte nostra si dovrebbe riprendere un disegno di
intervento pubblico nell’industria. Ma servono risorse. Certo che se potessimo
svalutare un pochino una nuova-lira... ma capisco che una Italexit a freddo sia
di difficile disegno e attuazione. Vedremo cosa succederà nei prossimi anni. Se
le cose volgeranno di nuovo al peggio la questione si riproporrà.
Caro professore, la crisi della sinistra non è "quasi" tutta nell'abbraccio della teoria del mercato. E' TUTTA lì. Ius soli, matrimoni gay, fine vita, nulla si tiene se la base si vede impoverire sempre più, se i diritti dei lavoratori vengono cancellati da quegli stessi che avrebbero dovuto difenderli. Ed è così che risorge il fascismo, che per quanto aberrante, per quanto "tecnicamente" sbagliata, una sua teoria sociale ce l'ha.. Ric.
RispondiEliminaGrazie. Una delle poche voci che mi consola in questo sfacelo.
RispondiEliminaMario