Micromega ha pubblicato con bella evidenza (non era ovvio nei giorni del referendum) la nostra recensione al libro di Barba e Pivetti. Libro e recensione sono molto duri. Ma la sinistra deve fare i conti
duramente con se stessa Ha fatto bene D'Attorre a cominciare con l'euro
qualche giorno fa. Massimo sforzo di condivisione per dare risonanza al
libro di Barba e Pivetti.
Il tradimento della
sinistra
di Sergio Cesaratto
Il volume di Aldo
Barba e Massimo Pivetti è di gran lunga la più importante provocazione
intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. Pivetti, il più senior della
coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi
economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel
lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di
“terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità
di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli
aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per
certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo. E’ facile pronosticare
che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo
radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah,
sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un
macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni
reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione
sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai
da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli
autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come
agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà
occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che
resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi
strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.
La tesi
La tesi centrale del libro è così riassumibile: gli anni
gloriosi del capitalismo (1949-1978) videro la centralità degli Stati nazionali
nel perseguire politiche di pieno impiego e di sostegno della domanda aggregata
attraverso elevati salari reali diretti e indiretti (stato sociale), godendo di
significativi margini di autonomia nella conduzione delle proprie politiche
economiche (nei soli Stati Uniti la spesa militare sostituì in parte il
sostegno al welfare state). Questi margini si esplicavano nel controllo dei
movimenti di capitale e di merci, ma anche dei flussi migratori. La sinistra
non ebbe una parte preminente nel disegno di questo modello, anche se talvolta
lo gestì. Ruolo centrale ebbe piuttosto la risposta che il capitalismo fu
costretto ad avanzare alla sfida del socialismo reale. Col successivo indebolimento
di questa sfida, il capitalismo liberista riprese vigore. La sinistra, a quel
punto, non solo si mostrò nel complesso incapace di rispondere, ma si incaricò
di gestire il progressivo smantellamento delle istituzioni e degli avanzamenti
conseguiti negli anni gloriosi. L’ala più anarcoide e anti-statuale della
sinistra, frutto dell’anti-autoritarismo studentesco del 1968, prevalse su
un’ispirazione più statalista – operazione facilitata dal fatto che in fondo le
istituzioni degli anni gloriosi non furono un frutto di un’elaborazione della
sinistra, lo statalismo di sinistra essendo più collegato all’esperienza sovietica
in discredito presso la sinistra anti-autoritaria. Centrale nella capitolazione
della sinistra al neo-liberismo fu l’episodio della Presidenza Mitterrand.
Eletto nel 1981, e dotato di una grande maggioranza parlamentare, Mitterrand
cominciò a eseguire il programma delle sinistre che comunisti e socialisti
avevano elaborato sin dal 1972. Questo era un programma molto avanzato di
nazionalizzazioni e misure redistributive, oltre che di riduzione dell’orario
di lavoro. Le nazionalizzazioni di banche e imprese dovevano essere funzionali
a una politica industriale volta a rafforzare l’apparato produttivo allo scopo
di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni dall’estero, e rendere
perciò possibili politiche espansive interne senza incorrere nel vincolo della
bilancia dei pagamenti. Barba e Pivetti ritengono che già nella preparazione
del programma la sinistra compì l’errore esiziale di trascurare l’impellenza
del vincolo estero alla crescita tenuto conto sia di lentezza degli effetti
della politica industriale, che del mutato clima internazionale segnato
dall’avvento delle politiche deflazionistiche di Reagan e Thatcher. Né la
sinistra francese fece tesoro del dibattito nel Labour inglese su come
affrontare il vincolo esterno e di come l’accettazione supina di quest’ultimo
avesse portato il governo laburista a misure deflazionistiche impopolari e alla
successiva storica sconfitta del 1979. Invece, dal 1983 prevalsero nel Partito
Socialista francese gli esponenti più neoliberisti alla Rocard e soprattutto
alla Delors che si incaricarono di disegnare la nuova Europa cosmopolita e
anti-statalista come nuovo spazio entro cui la “sinistra” si doveva muovere.
L’intellighenzia francese più à la page assecondò l’operazione, sin dalla
riscoperta da parte di Michel Foucault delle virtù dell’ordoliberismo.
Questo complesso ragionamento si dipana su sette
capitoli, gli ultimi due dei quali dedicati rispettivamente ai comunisti
italiani e alla cosiddetta sinistra radicale o antagonista, come la chiamano
gli autori.
Il ragionamento
I primi due capitoli del
volume sono dedicati al progressivo smantellamento delle istituzioni statuali
che avevano assicurato margini di indipendenza delle politiche economiche
nazionali, in particolare il controllo dei movimenti di capitale, segnando così
il passaggio dagli “anni gloriosi” a quelli “pietosi”: “La liberalizzazione valutaria fu dunque in Europa la madre di tutte le
riforme liberiste, in quanto minò alla base la capacità dello Stato di
esprimere un indirizzo di politica economica autonomo, sia al suo esterno
(ossia nei confronti degli altri Stati), che al suo interno (ossia nei
confronti degli interessi dominanti).” (p. 33; se non altrimenti specificato, i
riferimenti di pagina sono al volume qui recensito). La verve polemica del
lavoro entra nel vivo nel capitolo 3
in cui viene illustrata l’esperienza del governo Mitterrand.
Le realizzazioni sociali e le nazionalizzazioni attuate nel 1981-82 furono
invero significative, ma l’esperienza incontrò presto il vincolo dei conti con
l’estero, portati in rosso dalle politiche di sostegno della domanda interna
conseguenti all’aumento dei salari e della spesa sociale. A quel punto,
sostengono gli autori, si sarebbe dovuto mostrare adeguato coraggio politico:
“Nel breve-medio periodo … l’allentamento dei vincoli di bilancia dei
pagamenti alla realizzazione del programma della sinistra avrebbe richiesto il
ricorso a restrizioni quantitative delle importazioni e restrizioni delle
esportazioni di capitali, le une e le altre tanto più estese e severe quanto
maggiormente deflazionistico-recessivo si fosse rivelato l’orientamento della
politica economica perseguita dai principali partner della Francia. Il fatto è,
però, che la coalizione di sinistra era ben lungi dall’essere unanime al suo
interno circa il ruolo delle nazionalizzazioni, e, più in generale, circa la gestione
del vincolo esterno.” (p. 97)
Gli autori non
discutono della possibilità di svalutare il tasso di cambio a cui il governo
francese apparentemente rinunciò. Il mancato approfondimento delle ragioni di
questa scelta fa trasparire lo scetticismo degli autori verso questo strumento,
convinti dell’importanza di riuscire a preservare il valore esterno della
moneta nell’ambito del perseguimento di politiche di pieno impiego. E’ quella del
sostegno di cambi fissi una posizione tradizionalmente condivisa a sinistra,
sia per gli effetti negativi delle svalutazioni sui salari reali, che per la connessa possibilità di effetti
recessivi, laddove la caduta del potere d’acquisto dei lavoratori abbia effetti
negativi sulla domanda interna. Affidare tuttavia alla fissità del tasso di
cambio un primario ruolo nello stabilizzare la distribuzione del reddito può
avere controindicazioni, se la perdita di competitività dovuta a un tasso di cambio
reale forte incide sulla bilancia commerciale e da ultimo, attraverso la
necessità di contenere la domanda interna, su occupazione e salari reali
diretti e indiretti. Inoltre, l’esperienza storica suggerisce che sistemi di
cambio fissi sono volti a contenere il conflitto distributivo – è l’esperienza
italiana con lo SME e con l’euro, mentre negli anni settanta la politica del
cambio accomodava il conflitto. Ciò detto, le forme di protezionismo proposte
dagli autori fanno parte del bagaglio di strumenti noto agli economisti e sono solo
superficialmente avverse al commercio internazionale. Anzi, combattendo la
deflazione come modalità di aggiustamento dei conti nei paesi deficitari, o
come strumento del mercantilismo economico per i paesi in avanzo, il protezionismo
favorisce il mantenimento del commercio internazionale almeno sui livelli
raggiunti. Gli eredi del perbenismo economico del PCI (che certamente ancora allignano
nella sinistra PD) non mancheranno di attaccare il volume su questo. Ma basti
qui ricordare che a dar man forte agli autori vi sono le esplicite prese di
posizione di Federico Caffè che introducendo un famoso studio sulle politiche
di pieno impiego steso ad Oxford nel 1944 con al centro la figura di Michael
Kalecki, scriveva:
“non può escludersi che, tra le concause della diffusione dell’odio che
rattrista i tempi in cui viviamo, non rientri l’aver, con ingiustificato
ottimismo alimentato anche illusorie forme di collaborazione internazionale,
trascurato a lungo il messaggio essenziale di questa raccolta di saggi:
<l’alternativa ai controlli resi necessari dal pieno impiego non è qualche
situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la disoccupazione e il
succedersi di fluttuazioni economiche>” (Caffè 1979).
Comunque sia,
nel 1982-83 il governo francese operò una svolta rigorista senza apparenti
opposizioni, neppure dal Pcf, e nel 1986 la destra tornò al potere. Il j’accuse degli autori è netto:
“Si può in definitiva affermare
che la svolta rigorista del 1982-1983 non fu imposta a Mitterrand e al governo
Mauroy né dall’esterno della coalizione di sinistra né dall’esterno della
Francia. Si trattò di una scelta in senso liberista e filo-capitalista
autonomamente compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della sinistra
francese – una scelta gradualmente maturata nel corso del precedente
quindicennio, lasciata a covare sotto la cenere in vista delle contese
elettorali del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai più abbandonata.” (p. 102)
La cenere che
covava era, secondo gli autori, principalmente rappresentata da Jacques Delors,
ispiratore e artefice della svolta “liberista e filo-capitalista” (ma altro
eroe della sinistra che lo ritiene keynesiano). Il disegno di Delors era che:
“la libertà di circolazione dei
capitali in Europa sarebbe stata il primo indispensabile passo di un percorso
che avrebbe portato all’unione monetaria; più in generale, la libera
circolazione internazionale dei capitali, proprio perché perseguita con
determinazione da un Paese ad essa tradizionalmente ostile come la Francia,
avrebbe contribuito a diffondere dappertutto la convinzione che il contesto
nazionale non era più quello rilevante per la politica economica, che il tempo
delle soluzioni nazionali ai problemi economici era ormai tramontato.” (p. 104).
Insomma:
“L’unificazione politica del
continente … avrebbe alla fine compensato le singole nazioni della perdita
della loro sovranità monetaria, fiscale, eccetera.” (pp. 105-6)
Le due sinistre
In verità,
sostengono gli autori, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta si delineano
in Francia due sinistre: quella operaia, “statalista e sovranista” (Pcf e la
sinistra Ps rappresentata dal Ceres
di Chevènenment) e quella studentesca “dell’insofferenza verso ogni forma di autorità e di
potere, dell’individualismo anarcoide, dell’autogestionismo antistatalista” (e
dell’anti-sovietismo) (pp. 110-11). La prima
sinistra riuscì effettivamente a influenzare la stesura del programma comune
mentre la seconda si tenne “in disparte, coltivando però con cura i suoi rapporti
con l’intellighenzia del Paese” (p. 111).
La seconda sinistra fu così pronta a balzar fuori alle
prime difficoltà economiche del programma comune, proponendo un progetto
opposto basato sullo svuotamento dello Stato-nazionale sostituito col progetto
europeo, un esito “sostanzialmente autoritario” (p. 108). Del resto, sferzano
gli autori citando un famoso passaggio di Gramsci, i figli della borghesia si
fanno talvolta capi delle classi lavoratrici, pronti però a tornare all’ovile
alle prime difficoltà - ma non senza aver lasciato macerie intellettuali nel
movimento operaio sembrano far capire gli autori. L’abbandono della tradizione
interventista francese e la riscoperta del mercato diventa caratteristica
dell’intellighenzia di sinistra francese, da Claude Lévi-Strauss, a Foucault, Deridda e Lacan. Foucault il più
influente, il quale conosce poco Marx e certamente ignora Keynes o Sraffa, viene
però affascinato dall’ordo-liberismo.
L’accusa che gli autori
muovono alla sinistra, con cui si apre il capitolo 4 è di non aver subito il
cambiamento politico, ma di averlo “deciso e gestito” (p. 125). Sul punto più
dolente, quello dell’immigrazione, essi sono molto espliciti: “l’ostilità del
lavoro dipendente indigeno all’immigrazione, la dimensione più immediatamente e
“fisicamente” percepita della mondializzazione, ha di fatto determinato il suo
distacco definitivo dalla cosiddetta sinistra del continente.” (p. 137). Barba e Pivetti ricordano l’attacco mediatico mosso al
Pcf nel 1981, quando quel partito cercò di evitare questo distacco - col
risultato che la classe operaia francese fece poi armi e bagagli spostandosi stabilmente
nel Front National. Naturalmente gli
autori non mancano di denunciare le devastazioni del Washington Consensus come una delle cause dell’esplosione dei
flussi migratori - a cui si sono aggiunte le aggressioni militari ai regimi
medio-orientali. E al fondo, chiosiamo, v’è sempre l’intento di distruggere gli
Stati nazionali e la possibilità di vie nazionali allo sviluppo, cosa che può richiedere
nei contesti di società instabili e culturalmente disomogenee la presenza di
regimi autoritari. Con lucidità gli autori riassumono quello che finì per unire,
nelle sue diverse sfaccettature, la gauche
plurielle, come si pavoneggiava a definirla da noi il leader frivolo:
“Nel corso dell’ultimo
trentennio, non solo per la sinistra modernista ma anche per la sinistra
cosiddetta antagonista la difesa della sovranità nazionale in campo economico,
più in generale della sovranità popolare, ha cessato di essere bussola di
azione politica. Essa rigetta con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua
ideologia è ormai essenzialmente costituita da una miscela di antirazzismo e
multiculturalismo, una sorta di cosmopolitismo intriso di marxismo volgare,
visto cioè come un aspetto ineluttabile di quella forza continuamente
sovvertitrice del capitalismo che sarebbe reazionario oltre che insensato
cercare di contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi come ad un’<opportunità>”.
(p. 142).
Il pericolo che gli autori paventano è che la sostanziale
paralisi della sinistra di fronte alla questione immigrazione, questione
drammatica e lacerante– lasci il campo aperto a soluzioni di stampo fascista,
che molti ritengono inevitabili (tralasciando gli antagonisti che ritengono di
poter cavalcare la tigre, l’”opportunità” di cui parla il volume). In ogni
caso, il mio invito al lettore è di dare il giusto peso al tema
dell’immigrazione, per non farlo diventare un ulteriore elemento di lacerazione
e impotenza a sinistra. Il tema chiave è lo Stato, la riappropriazione della
libertà economica dei popoli. Con politiche nazionali diverse anche il problema
dell’immigrazione potrebbe essere affrontato con maggiori strumenti e risorse,
da noi e nei paesi di provenienza.
I sinistrati
Mentre il capito 5 descrive i mutamenti (peggiorativi)
occorsi nel mercato del lavoro e nello stato sociale e i processi di
privatizzazione dell’industria pubblica, la verve polemica del volume si
riaccende negli ultimi due capitoli dedicati, rispettivamente al PCI e alla
sinistra radicale. Quello che ne esce è il tremendo vuoto culturale della
sinistra italiana accompagnato dalla condivisione da parte del Pci delle scelte
liberiste. A rileggere i passi degli esponenti comunisti nel corso degli anni
settanta, pur concedendo loro l’attenuante di circostanze come la strategia
della tensione e il golpe cileno, o lo shock petrolifero, si è colti da un
fremito di indignazione. Il leitmotive dei
vari Peggio, Lama, Napolitano, Berlinguer, Trentin e compagnia cantando è uno e
uno solo: il riequilibrio dei conti con l’estero deve ricadere sulle spalle dei
lavoratori: “Ora bisogna battersi per i sacrifici!” dichiara nel 1976 un
presunto eroe della sinistra, Bruno Trentin, che a un famoso convegno del Cespe
(una sorta di ufficio studi economico del Pci), in maniera “surreale” chiosano
gli autori, precisa che la contropartita consisterà “nella possibilità offerta
alla classe operaia di partecipare alla gestione dei suoi sacrifici”. Cornuti e
mazziati, insomma. Il sentimento che suscitano quei passi è che costoro fossero
oggettivi avversari del popolo, altro che loro rappresentanti. Da notare come a
quel convegno Lama attaccò per nome Massimo Pivetti, reo di aver proposto la
strada alternativa dei controlli – strada difesa invece, l’anno successivo, da
Federico Caffè (1977). La Troika era peraltro rappresentata in quegli anni
dall’economista, naturalizzato americano, Franco Modigliani che nella sua
visita annuale in Italia non mancava di impartire lezioni di liberismo a destra
e a manca, presenziando come star al convegno del Cespe. Gli altri due
dissenzienti a quel convegno, accanto a Pivetti, furono Domenico Mario Nuti e Bob Rowthorn.
Nuti ha da poco firmato con noi più “giovani” la risposta a Lunghini su il manifesto.
Il Pci e i sindacati mai più si ripresero da tale
distacco dalle masse popolari, concludono gli autori, e il Pci era già finito
ben dieci anni prima della Bolognina. (Forse uno scatto di reni si ebbe
sull’adesione allo SME nel 1979, ma si trattò di un gesto presto dimenticato).
Ma cosa ci fu dietro tanta pochezza del Pci? L’unico
punto di riferimento solido del togliattismo, sostengono gli autori, era
l’esperienza sovietica che aveva assicurato in un paese retrogrado, insieme
alla piena occupazione, “un alloggio caldo … una buona istruzione… una
distribuzione molto ugualitaria …una marcata parità effettiva tra uomini e
donne” (p. 201). Il riferimento al socialismo reale fu frettolosamente
cancellato da Berlinguer, il quale fu invece in continuità con il secondo
aspetto del togliattismo, la subalternità alla cultura economica
laico-liberale. L’intellighenzia organica del Pci brillò, infatti, per
l’assenza della principale scienza sociale, rispetto a discipline più
umanistiche, un partito crociano verrebbe da dire. L’unica eccezione fu il
Piano del lavoro presentato dalla CGIL nel 1951, di chiara impronta keynesiana.
Le sole parole di apprezzamento nel libro per un esponente comunista sono
infatti per Di Vittorio. Fu quella una proposta riformista in linea con quanto
accadeva al di sopra delle Alpi, che rimase però isolata, mentre la cultura del
Pci restò profondamente succube di idee mutuate da Einaudi o dalla borghesia
laico-liberale, come l’ossessione della lotta ai monopoli (un mantra simile a
quello odierno della lotta alla corruzione). Del resto Togliatti si
disinteressava di economia e già nell’elaborazione gramsciana la cultura
economica appare come un dente dolente dei comunisti italiani – nonostante
qualche sforzo di Sraffa di indirizzare Gramsci su sentieri più solidi. Croce
ed Einaudi (o Ernesto Rossi e più tardi Spinelli) furono le stelle polari del
Pci, più che Marx o Keynes o Sraffa. Al riguardo mi sembra doveroso notare come
il volume è forse ingiusto nei confronti delle socialdemocrazie nordiche che
non subirono passivamente l’esperienza degli anni gloriosi in quanto risposta
capitalistica alla sfida sovietica, ma la disegnarono anche sulla base di una
propria elaborazione teorica. Con Myrdal, questa muoveva dalla negazione di una
distribuzione “di equilibrio” (o naturale) del reddito e dunque di “interessi
nazionali” che sovrastassero quelli di classe – “interessi” che il Pci
considerava invece sovversivo toccare - promuovendo il controllo dello Stato
nazionale da parte dei partiti operai, con uno spostamento stabile delle quote
distributive e la creazione di uno spazio “demercificato” coincidente con lo
stato sociale. (Fu proprio Myrdal a proporre la medaglia speciale della Corte
di Svezia per l’economia a Sraffa, onore che questi condivide con Keynes e
assimilabile a un genuino premio Nobel).
Della sinistra antagonista Barba e Pivetti denunciano “lo
spostamento della sua attenzione dalla sfera dei diritti sociali a quella dei
diritti civili” (p. 225). Temi come la decrescita, il femminismo della
differenza biologica, il multiculturalismo, i beni comuni (visti in funzione
anti-statalista), l’altra economia e altre amenità (fino alla difesa fascista dell’utero in
affitto da parte di una macchietta, ex leader di una formazione di sinistra -
gli aggettivi sono miei) diventano i temi centrali di questa “sinistra”, a cui
nulla perdonano gli autori. In particolare non le perdonano l’istigazione
“all’odio verso se stessi”, inteso come odio per la cultura occidentale e il
benessere conseguito da milioni di lavoratori. Al fondo v’è l’idea che questi
avanzamenti culturali e materiali siano il frutto di uno sfruttamento verso il
terzo mondo di cui si deve ora pagare pegno. E’ quest’ultima una tesi molto
diffusa “a sinistra” sui cui gli autori avrebbero potuto spendere qualche
parola di più, ci auguriamo lo facciano in successivi interventi. Personalmente
credo che non ci si possa colpevolizzare per processi storici di sfruttamento,
accaduti nel nord come nel sud del mondo, lasciando demolire ciò che può essere
di guida per i mezzogiorno del mondo, ovvero la difesa di politiche pubbliche
progressiste e i valori di tolleranza democratica - come è stato almeno in
certa misura negli anni cinquanta e sessanta sino a che la furia economica e
militare liberista (con al seguito il flagello connivente delle ONG) non si
abbattesse su quei paesi distruggendo le vie nazionali e socialiste allo sviluppo.
Il futuro
In questo quadro sconfortante gli autori chiudono con una
nota di ottimismo, indicando l’occasione storica offerta alla sinistra dalla
diffusa protesta popolare contro banche e finanza, per la difesa del lavoro e
dello stato sociale, contro una classe politica asservita agli interessi dei
pochi, della riconquista degli spazi nazionali di democrazia e di intervento
pubblico, quello che noi abbiamo altrove definito “Polany moment”,
mentre solo la parte “più disorientata della gioventù” difende i temi del
cosmopolitismo (p. 246). Un Polany moment
può avere, com’è noto, anche un connotato di destra, come le vicende della
Brexit per esempio suggeriscono.
Come abbiamo detto all’inizio, la sinistra potrà ignorare
questo volume, o potrà entrare in polemica solo sui temi più caldi
dell’immigrazione o del multiculturalismo, dimostrando in questo precisamente i
limiti culturali denunciati nel libro. Potrà invece discutere la tesi centrale
del volume: il necessario recupero delle politiche nazionali d’intervento
pubblico come asse della sinistra. Ci aspettiamo che qualche grillo saccente
contrapponga questa prospettiva alla presunta tradizione internazionalista
della sinistra. Non avrebbe capito nulla, naturalmente. Lo spazio delle
politiche di sinistra è, nelle circostanze storiche date, lo Stato nazionale, e
solo una sinistra che operi in questa direzione potrà essere stimolo per
l’emulazione a livello internazionale sì da costruire un
internazionalismo dei
fatti e non delle parole. Chi ha letto il mio libro
(numerosi a quanto pare!) riconoscerà l’influenza che l’insegnamento teorico e
politico di Pivetti, accanto a quello di Sraffa e Garegnani, ha avuto sulla mia
formazione. Mi piace pensare che i due volumi giochino di squadra nel contribuire
a una seria rifondazione della sinistra.
Riferimenti
Aldo Barba, Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.
Federico Caffè, Introduzione a AAVV., L'economia della
piena occupazione, a cura di F. Caffè,
Torino, Rosenberg e Sellier, 1979
Federico Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo
economico?, in ID, La solitudine del
riformista (a cura di N.Acocella e M.Franzini), Torino, Boringhieri, 1990
(originariamente pubblicato in: L’astrolabio,
vol. 15 (12), 1977).
Sergio Cesaratto, Sei
lezioni di economia - Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e
come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.
(Vignetta di Plantu -
Jean Plantureux)
Ho letto il suo libro dopo esserne venuto a conoscenza dalle recensioni nei blog di Bagnai e di Orizzonte48; è un bel libro in particolare per come ripercorre la storia economica e politica italiana; dato che non sono un economista, devo anche confessare che senza l'aiuto dei libri e del blog in particolare di Bagnai, la lettura del suo libro serabbe stata difficile in quanto, pur essendo un testo divulgativo,richiede una base di conoscenze economiche.
RispondiEliminaPer quanto riguarda il futuro sconfortante non vedo come la sinistra italiana possa cavalcare il malcontento popolare; mancano gli uomini, le personalità in grado di parlare e di convincere le base lasciata alla deriva e senza strumenti di comprensione ormai da troppo tempo, sicuramente D'Attorre non è un trascinatore; probabilmente manca un nucleo di persone di elevato calibro intellettuale in grado di scalzare la nomenclatura; mi sembra che tutto sia ancora confinato a pochi blog in rete e, forse,l'unico innesco per un cambiamento a breve potrebbe essere, come lei afferma nel suo libro, una crisi bancaria italiana sistemica che intacchi i risparmi e risvegli la popolazione, ma sarebbe un risveglio forse troppo drammatico a cui non vorrei assistere.
Saluti da Trieste
Premetto di non avere ancora letto il libro (ma lo farò presto), dunque mi esprimo solo sulla base di quanto scritto sopra.
RispondiEliminaDissento dal Recensore e concordo con gli Autori quanto al fatto di attribuire grande importanza alle posizioni politiche assunte dalla gauche caviar sul tema dell'immigrazione.
Si tratta di un argomento che sta contribuendo a riconfigurare lo scenario politico. Credo che chiunque voglia rappresentare i ceti medi e popolari di un Paese europeo DOVRA' tenersi alla larga dall'ideologia immigrazionista.
Saluti
Cesco
Cioè? Quale sarebbe nei contenuti l'ideologia immigrazionista dalla quale tenersi alla larga? La prego di spiegarsi meglio. Grazie.
EliminaCordiali saluti.
Quella che emerge, ad esempio, da plurime dichiarazioni della Presidenta (o Presidentessa?) della Camera.
EliminaMi sembra che il nucleo di tale ideologia risieda nel dare totale preminenza agli interessi dei migranti (un tempo si sarebbe detto "immigrati"), collocando in posizione totalmente subordinata quelli delle classi popolari autoctone.
Mi pare un'ideologia legittima, ma che io non condivido.
Saluti
Bellissima recensione, complimenti. L'ho riletta dopo aver terminato il libro di Barba-Pivetti e mi pare tu abbia sottolineato (per quel che posso giudicare) tutti gli aspetti salienti del testo.
RispondiEliminaSulla questione della svalutazione la ricostruzione è carente. Ne parla Sapir nel suo blog, recensendo il libro di uno dei protagonisti della storia, Chevènement (mi scuso ma non riesco a riportare il link, il copia-incolla al momento non collabora). Insomma anche su questo fronte, quello della possibilità di una "grande svalutazione" una parte della sinistra, quella più vicina alle posizioni di Barba-Pivetti, discusse per uscirne poi sconfitta. Peccato che su questo aspetto gli autori non si siano soffermati, anche per marcare in maniera più esplicita e argomentata, perché no, la loro contrarietà.
https://russeurope.hypotheses.org/5402
RispondiEliminaEcco il link alla recensione di Sapir cui accennavo.
Riporto la parte rilevante:
Il insiste sur la bataille pour imposer une « grande dévaluation » qui aurait dû être d’au-moins 20% à 25% au lieu des deux « petites » dévaluations qui furent faites à cette époque. Le débat qui eut lieu alors, au plus haut niveau du pouvoir, j’en fus indirectement le témoin à travers ce que l’un des conseillers de François Mitterrand mort prématurément, Jean Pronteau dont je salue ici la mémoire et qui fut l’un des mes « parrains » en politique, me raconta sur le moment.
Jean-Pierre Chevènement souligne, ici encore à juste titre, sur le rôle néfaste joué non pas tant par le SME (qui avait été pourtant condamné dans un texte de 1979 du PS) que sur l’interprétation du SME qui était faite dans les milieux financiers français, mais aussi chez des responsables du PS comme Laurent Fabius ou Pierre Beregovoy, comme une forme de parité avec le Deutsch Mark. Ce fut ce tournant de 1983 qui contraignit Mitterrand à proposer aux français l’Europe comme horizon indépassable, quitte à changer de registre et se transformer en Brejnev (oui, le socialisme « réellement existant ») quand il fallut ramener l’Europe aux institutions biens réelles de la Communauté Economique Européenne, puis de l’Union européenne.
https://russeurope.hypotheses.org/5402
RispondiEliminaEcco il link alla recensione di Sapir cui accennavo.
Riporto la parte rilevante:
Il insiste sur la bataille pour imposer une « grande dévaluation » qui aurait dû être d’au-moins 20% à 25% au lieu des deux « petites » dévaluations qui furent faites à cette époque. Le débat qui eut lieu alors, au plus haut niveau du pouvoir, j’en fus indirectement le témoin à travers ce que l’un des conseillers de François Mitterrand mort prématurément, Jean Pronteau dont je salue ici la mémoire et qui fut l’un des mes « parrains » en politique, me raconta sur le moment.
Jean-Pierre Chevènement souligne, ici encore à juste titre, sur le rôle néfaste joué non pas tant par le SME (qui avait été pourtant condamné dans un texte de 1979 du PS) que sur l’interprétation du SME qui était faite dans les milieux financiers français, mais aussi chez des responsables du PS comme Laurent Fabius ou Pierre Beregovoy, comme une forme de parité avec le Deutsch Mark. Ce fut ce tournant de 1983 qui contraignit Mitterrand à proposer aux français l’Europe comme horizon indépassable, quitte à changer de registre et se transformer en Brejnev (oui, le socialisme « réellement existant ») quand il fallut ramener l’Europe aux institutions biens réelles de la Communauté Economique Européenne, puis de l’Union européenne.