In
occasione di un incontro a Roma su “Teorie
e pratiche dell’autogestione – solo un modo di far fronte alla crisi o punto
d’avvio di una diversa organizzazione economico-sociale?” il 13 marzo 2016,
ho buttato giù alcuni appunti senza velleità scientifiche. Quello che temo di
più è il crogiolarsi, a sinistra, su sogni e illusioni (ciascuno ha le proprie:
“l’altra Europa”, “l’altra economia” ecc.) non valutando invece con freddezza e
raziocinio passi più concreti.
Autogestione senza eccitazione
Sergio Cesaratto
(Università di Siena, Cesaratto @unisi.it)
A
costo di smorzare gli entusiasmi de’ sinistra sul tema dell’autogestione,
lasciatemi mettere a fuoco qualche problematica al riguardo. Distinguiamo per
comodità due aspetti, micro e macro.
Ambedue
vedono centrale il problema dell’informazione.
Aspetti microeconomici
A
livello micro un’impresa autogestita incontra diversi problemi:
1)
Shirking (sottrarsi ai propri doveri). Nel
lavoro di team è facile fare lo scansafatiche (se spostate un tavolo pesante in
sei persone, una persona può facilmente eludere a fatica. Altro esempio: quando
c’è informazione asimmetrica, un soggetto (chiamato agente nell’analisi economica) deve compiere un’attività e solo
lui/lei conosce i tempi per effettuarla (pensate all’idraulico o al meccanico),
il committente (il principale, che
può essere il resto dell’impresa autogestita) può essere ingannato circa i
tempi realmente occorrenti. Il Taylorismo
nasce proprio per semplificare le mansioni sì da renderle monitorabili.
L’autogestione può naturalmente incentivare la partecipazione e l’impegno, ma
in imprese grandi e complesse in cui le relazioni diventano più impersonali
questo è più difficile. E’ un problema drammatico con cui il socialismo reale (che non è affatto vero
che non si pose questi problemi, tutt’altro) non ha risolto, con conseguenze di
inefficienza che ne hanno minato la credibilità. Si può naturalmente pensare
che la parola efficienza sia solo propria al capitalismo. Laddove efficienza
significa produrre una quantità maggiore di beni e servizi che costano meno
lavoro (sì da poter ridurre l’orario di lavoro), e di qualità, vedrete che la
parola è importante anche in forme economiche alternative.
(Rammento anche, inoltre, il primo
problema fondamentale incontrato nel socialismo: con la sicurezza del posto di
lavoro la gente lavora con meno impegno; nella misura in cui l’impresa
autogestita garantisce il posto di lavoro –garanzia che incontra i limiti posti
dalla macroeconomia che vedremo poi -, il problema si ripropone).
Naturalmente non voglio essere del
tutto negativo sull’animo umano identificato con l’homo economicus egoista, e certamente un contesto partecipativo può
migliorare l’etica individuale e collettiva. Però, adelante Pedro, con juicio.
2)
In
imprese complesse (e probabilmente anche in quelle meno complesse) in cui vige
la divisione del lavoro, le informazioni complesse tendono ad accentrarsi ai
livelli più alti, e magari le funzioni più semplici e alienanti al livello più
basso. La rotazione dei ruoli è un escamotage
interessate, ma con dei limiti: rimuovereste qualcuno che per bravura ed
esperienza sta coordinando bene un’impresa autogestita? E se questo richiede
più impegno (non si timbra il cartellino alle 17), siete pronti a offrirgli un
salario più elevato (questo è il problema minore, credo).
Una chance può provenire dal fatto
che, ceteris paribus (cioè a parità
di fatturato) un’impresa cooperativa può forse pagare salari più elevati
(poiché vi sono da suddividere come salari, i profitti non destinati agli
investimenti). Questo può (come nel modello degli “efficency wages”, i non
economisti trascurino questo riferimento) elevare o costi di fare lo
scansafatiche, dato che se scoperti si è licenziati e si perde un buon salario.
Ci si deve di nuovo però chiedere se in organizzazioni complesse la rinuncia
alle catene di comando gerarchiche - o la loro attenuazione o ammorbidimento
via continue assemblee gestionali ecc. - non porti a inefficienze. In un famoso
saggio, What do bosses do? (A cosa
servono i dirigenti?) un economista americano, Stephen Marglin (un raro caso di
brillante giovane economista mainstream
che negli anni 1970 transitò nell’eterodossia) argomentò – in linea con lo
spirito di quegli anni – che le tecnologie con connesse gerarchie nascono per
dare un ruolo alla direzione capitalistica della produzione, altrimenti non
giutificata. Peut-être, però dubito che organizzazioni
complesse siano così gestibili senza catene gerarchiche altrettanto complesse. Formazione
continua e rotazione sono però ottime idee (a cui infatti pensò Adriano Olivetti,
v. più sotto).
3)
Vale
la pena richiamare qui Bruno
Iossa, l’economista italiano di un qualche rilievo che si è forse più
battuto per l’economia cooperativa. Egli non fornisce alcuna base oggettiva per
credere che un’impresa cooperativa non incontri i problemi qui accennati.
Ritiene che gli appartenenti alla coop siano mossi dall’”amore di sé”, da
“forte sentimento di appartenenza all’umanità” che la solidarietà sia in re ipsa (Iossa, 2015, p. 229). E
perché, se proprio si vuole sottilizzare, il senso di appartenenza deve
svilupparsi sotto la spinta di un rapporto di semi-proprietà com’è una
cooperativa privata e non invece, in maniera decisamente superiore, in una
impresa pubblica, che è davvero di tutti? C’è in questo un anti-statalismo
tipico di parte della società italiana, una visione dello Stato come
istituzione da avversare, ma all’occorrenza da spremere e a cui rivolgersi all’occasione
servilmente, un segno di arretratezza sociale prima che economica.
4)
Ci
sono inoltre figure ed esperienze importanti da studiare. Mi viene in mente Adriano
Olivetti, prendo per comodità da Wikipedia:
Adriano
Olivetti riuscì a creare nel secondo dopoguerra
italiano
un'esperienza di fabbrica nuova ed unica al mondo in un periodo storico in cui
si fronteggiavano due grandi potenze: capitalismo
e comunismo.
Olivetti credeva che fosse possibile creare un equilibrio tra solidarietà
sociale e profitto, tanto che l'organizzazione del lavoro comprendeva un'idea
di felicità collettiva che generava efficienza. Gli operai vivevano in
condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: ricevevano
salari più alti, vi erano asili e abitazioni vicino alla fabbrica che
rispettavano la bellezza dell'ambiente, i dipendenti godevano di convenzioni.
Anche
all'interno della fabbrica l'ambiente era diverso: durante le pause i
dipendenti potevano servirsi delle biblioteche, ascoltare concerti, seguire
dibattiti, e non c'era una divisione netta tra ingegneri e operai, in modo che
conoscenze e competenze fossero alla portata di tutti. L'azienda accoglieva
anche artisti,
scrittori,
disegnatori
e poeti,
poiché l'imprenditore Adriano Olivetti riteneva che la fabbrica non avesse
bisogno solo di tecnici ma anche di persone in grado di arricchire il lavoro
con creatività e sensibilità…
Adriano
Olivetti credeva nell'idea di comunità,
unica via da seguire per superare la divisione tra industria
e agricoltura,
ma soprattutto tra produzione e cultura.
L'idea, infatti, era quella di creare una fondazione composta da diverse forze vive della
comunità:
azionisti, enti pubblici, università e rappresentanze dei lavoratori, in modo
da eliminare le differenze economiche, ideologiche e politiche. Il suo sogno
era di riuscire ad ampliare il progetto a livello nazionale, in modo che quello
della comunità fosse il fine ultimo.
L’Olivetti
era una fabbrica capitalistica, ma molti insegnamenti potrebbero servire per grandi
imprese pubbliche o autogestite. E, perché no, anzi assolutamente sì, vanno
studiati i Kibbutz.
5)
La
mobilità sociale si è nei fatti realizzata dove c’è stata una istruzione
pubblica di qualità, come abbiamo visto nell’esperienza scandinava, nella quale
i sindacati hanno anche chiesto una formazione continua per i propri dipendenti
incentivando l’impresa all’innovazione. Rimarco questi aspetti perché questi
sono fatti macroscopici, che hanno coinvolto con successo decine di milioni di
persone (o una grande fabbrica capitalistica nel caso dell’Olivetti) – le
proporzioni vanno sempre mantenute quando si parla invece di esperienze che
hanno coinvolto poche migliaia di persone.
6)
Infine,
sull’esperienza delle fabbriche recuperate propriamente dette, lavoratori che
cercano di mantenersi un’occupazione e che non hanno necessariamente fisime
ideali per la testa, si tratta di capire se il fallimento aziendale è stato
dovuto a incapacità del management/proprietà, oppure la produzione era decotta.
Nel primo caso è possibile che un management autogestito (con i caveat di cui sopra) risollevi
l’impresa. Non sembra questo caso – dunque non un caso di fabbrica recuperata –
quello di spazi recuperati ad altre attività. Una documentazione più ragionata
sulle esperienze italiane, certo più legate a un sostegno pubblico (e che c’è
di male, anzi!) è in Vieta (2015) (che ho segnalato io ai miei amici
autogestionali!). Nel caso di impresa decotta – un caso di disoccupazione
tecnologica – l’intervento pubblico appare necessario per il sostegno ai
redditi, l’aggiornamento professionale, e naturalmente il sostegno a nuove attività
gestite da cooperative, magari sugli spazi delle vecchie. E’ importante
rileggersi la Legge Marcora (v. Vieta 2015). E figurarsi come potrebbe essere
mutata. (Marcora, per i più giovani e gli immemori, era un democristiano di
sinistra, ex partigiano)
7)
Quello
che forse va aggiunto è che il recupero delle fabbriche era svolto fino a un
paio di decenni fa dalle imprese a partecipazione statale. L’IRI, dai
salvataggi degli anni trenta dello scorso secolo di banche e imprese, ha un passato
glorioso per aver salvaguardato e progredito le basi tecnologiche dello
sviluppo italiano. E posso dire per conoscenza diretta di quanto le maestranze
fossero felici quando nel dopoguerra imprese dismesse da capitale privato
nazionale e straniero erano rilevate dalle PPSS! Era la quasi sicurezza del
posto di lavoro. Certo, ai sognanti utopisti questo è poco, quasi meschino, ma
per centinaia di migliaia di famiglie italiane questo ha rappresentato vita e
speranza. Ci si dovrebbe battere contro le privatizzazioni e per una nuova
politica industriale pubblica.
Aspetti macroeconomici
L’aspetto
macro della faccenda è fondamentale per due motivi contro al pensiero ingenuo
di alcuni che pensano che risolto il problema della democrazia nel posto di
lavoro si sia risolto tutto. Magari! Ci si deve domandare:
(i)
Cosa
coordina le imprese cooperative, mercato? pianificazione? un mix?
(ii)
La
tutela del posti di lavoro è un problema eminentemente macroeconomico, nessuna
garanzia seria può essere offerta a livello di impresa, per quanto democratica
essa sia. Questo sia perché l’occupazione dipende dalle politiche
macroeconomiche, che perché l’impresa può risultare obsoleta, e quindi nella
condizione di dover ricevere un sostegno esterno (maledetto Stato, di
detestiamo, ma di te proprio non si può fare a meno! Forse allora ha ragione
Cesaratto a dire che il vero nodo sei tu, e sei te che dobbiamo trasformare in
senso democratico e comunitario)
1)
La
grande scoperta di Adam Smith è stata la mano
invisibile, ovvero che il sistema dei prezzi guida le decisioni economiche
su quanto e quando produrre (il problema informativo citato all’inizio). Se, ad
esempio, il prezzo di vendita non copre i costi di produzione di un’impresa
(che è dunque in perdita), essa ridurrà la produzione (sicché il prezzo
salirà). Questo meccanismo in alcun modo
implica che il laissez-faire conduca
alla piena occupazione e alla giustizia sociale. Per questo serve, in una
economia di mercato, la mano visibile
dell’intervento pubblico sotto forma di politiche keynesiane e stato sociale.
Marx definiva i prezzi la stella polare dei capitalisti (nel senso che li
guidava nelle scelte), ciò non di meno riteneva che il capitalismo fosse prono
alle crisi. Possiamo semplificare dicendo che nel capitalismo il livello di pieno impiego della
produzione richiede la mano visibile (di Keynes), mentre la sua composizione è lasciata alla mano
invisibile (naturalmente poi vi sono i condizionamenti culturali ecc., ma acquisiamo
il metodo di non mettere sempre troppa carne al fuoco)
2)
Di
alternativo al sistema dei prezzi c’è la pianificazione, l’economia di comando.
Il problema informativo è in questo caso gestito dall’altro, sulla base di un
modello delle interrelazioni fra settori dell’economia (molti settori producono
per altre imprese, non per il mercato finale) e in vista del consumo finale (il
cui livello e composizione è anche deciso dall’alto). E’ un modello che ha
prodotto la piena occupazione, e da questo punto di vista può essere
considerato un successo. Quantità e
qualità dei beni ha lasciato in genere a desiderare, ma vanno considerate le
condizioni storiche drammatiche in cui si è spesso svolto l’esperimento
socialista. Come ho già detto, è un modello che il problema della gestione
democratica delle imprese se l’è posto eccome, ponendo una problematica
imprescindibile a chi propugna l’autogestione (e che quindi se la dovrebbe
studiare bene).
Vi sono naturalmente forme intermedie
fra mercato e pianificazione, come la programmazione economica praticata con
successi molto, molto parziali in alcuni paesi occidentali nel secondo
dopoguerra, si tratta di linee indicative di sviluppo per i diversi settori
tracciate dai governi.
3) I
sostenitori dell’autogestione ci dovrebbero dire dove si collocano. A leggere
Bruno Iossa, la scelta è per il coordinamento via prezzi di mercato. Vale la pena soffermarsi un attimo su Iossa. Questi
è di sinistra, eppure basa le critiche a quello che chiama “statalismo” (una
parola solitamente propria ai liberisti) sul più bieco autore liberista,
Buchanan, fondatore della scuola della public
choice. Questa scuola ritiene che lo Stato sia irrimediabilmente viziato
dagli interessi personali dei governanti (o dei funzionari). Ora io credo che
questo sia vero in molti casi, e soprattutto in molte culture. Ma non per
esempio nelle culture nord-europee in cui lo Stato è visto piuttosto come
comunità. E in ogni caso, perché le imprese cooperative che Iossa ritiene la
“terza via” fra Stato e mercato dovrebbero essere immuni da quegli interessi?
Iossa ritiene inoltre che il sistema delle cooperative possa essere
efficientemente guidato dal mercato: vale a dire, mentre nel mercato
tradizionale è l’interesse del singolo capitalista a muovere l’economia, ora è
l’interesse della singola cooperativa. Ci sono almeno due obiezioni:
(a)
il mercato senza l’intervento pubblico non porta alla piena occupazione, ma
chissà perché Iossa (2001, p. 128) ritiene che un sistema di cooperative porti
a questo risultato. Oppure forse non lo ritiene (egli oscilla continuamente fra
la fede nella teoria neoclassica dominante e quella keynesiana senza dirci mai
dove si collochi). E infatti se la cava dicendo che in un sistema cooperativo
non ci può essere disoccupazione perché i lavoratori di un’impresa in crisi si
divideranno solidalmente il monte-ore di lavoro. Al prof. Iossa – che, fatemi
precisare, è persona colta e garbatissima – piace però vincere facile. Riducendo
monte-ore e salario il problema
certamente si risolve, tant’è che è un sistema che utilizzano anche le imprese
capitalistiche per non disperdere le maestranze addestrate in caso di crisi. Ma
se monte-ore e salario da dividere sono zero, perché la crisi è grave, oppure
(come già accennato sopra) perché l’impresa è tecnologicamente cotta
(disoccupazione tecnologica), come ci si mette? In nessun senso il problema
della disoccupazione (ciclica, strutturale, tecnologica) può dunque essere
risolto a livello di singola impresa, capitalistica, cooperativa o quello che
credete. E’ un problema macro. La disoccupazione dipende dalle politiche
adottate, e ci si deve battere per avere politiche adeguate. La disoccupazione
tecnologica ci sarà sempre, e pwer questo servono politiche governative e di impresa di
sostegno alla formazione, ed eventualmente al passaggio a nuovi rami d’industria
in espansione (per la quale, here and
again, serve l’intervento pubblico, v. Marianna Mazzuccato). E’ illusorio
muoversi a livello micro ed esulando dall’intervento pubblico.
(b)
Le imprese cooperative sono fra loro in concorrenza, per cui non v’è un vincolo
solidaristico fra loro. Ma Iossa e gli utopisti ritengono che vi sia una
vincolo di solidarietà (la coop sei tu)
che da ultimo sostituisca sia la logica crudele del mercato che quella fredda
della pianificazione. Insomma, siccome le coop sono buone, allora anche le
relazioni di mercato diventano umane e solidali. Mi sembra che il valore di
queste idee sia pari a quelle delle prediche domenicali dal pulpito delle
chiese. Oh, Iossa si appoggia sull’ultimo Lenin che, superata l’emergenza, nel
1923 propugnò un mix di imprese cooperative e mercato, una sorta di
socialismo-liberista, l’emulazione socialista in luogo della concorrenza
capitalistica. Bell’affare. (Sono cose naturalmente da studiare con molta più
serietà, mi si scuserà la superficialità).
Conclusioni
1) Le
fabbriche recuperate sono un’esperienza importante sotto vari profili:
(i) sono una forma di resistenza alla
crisi, alle politiche liberiste, alla globalizzazione
(ii) possono indicare che in molti
casi le maestranze sono in grado di sviluppare conoscenze e management, e
questo è una indicazione utile persino per le imprese capitalistiche
(iii) Sono esprimenti di autogestione
che vanno sostenuti e studiati nel quadro della storia del socialismo che,
anche tramite l’esperienza delle fabbriche recuperate, va avanti.
2) La
storia, l’esperienza e l’analisi ci indicano alcuni dei possibili limiti
all’autogestione, sia micro che macro, questi vanno razionalmente esaminati
senza lasciarsi andare a sentimentalismi che non servono a nulla (evocare a
ogni piè sospinto il Comandante Marcos e il Chiapas, o i vari movimenti più o
meno al quadrato degli scorsi anni, belli e importanti per le coscienze che
hanno cambiato, quanto per molti versi effimeri, non aiuta). Il ruolo dello
Stato e della democrazia partecipata rimane centrale, se non si vuole rimanere
marginali. Tutte le esperienze di lotta e di resistenza sono importanti. Non va
però perso di vista lo sfondo della lotta contro le politiche europee, anzi
contro l’Europa – oggi il nemico principale – e contro una globalizzazione
senza controlli – il nemico sullo sfondo. Questi due fattori hanno snaturato e
svuotato la nostra democrazia costituzionale e stanno impoverendo il paese, stretto
fra una classe politica incapace perché nulla può più perché non decide più
nulla (tranne rubare), e un antagonismo che non coglie la dimensione dei
problemi. Il referendum costituzionale è forse una occasione per ricominciare a
ricostruire un quadro di prospettiva politica alto, che raccolga le varie e legittime
aspirazioni in una direzione più complessiva.
Riferimenti
B.Iossa
(2001) L’impresa gestita dai lavoratori e la disoccupazione classica e
keynesiana, Rivista italiana degli
Economisti, n.1.
B.Iossa
(2015) “Destra e sinistra nella teoria economica”, Rivista di politica economica, vol. 104, n.1.
S. Marglin
(1974) “What Do Bosses Do? The origins and
functions of hierarchy in capitalist production, Part I.” The Review of Radical
Political Economics 6 (2): 60-112.
M. Vieta (2015), The Italian Road to
Creating Workers Cooperative from Workers
buyouts, http://www.euricse.eu/publications/wp-7815-the-italian-road-to-creating-worker-cooperatives-from-worker-buyouts-italys-worker-%C2%AD%E2%80%90recuperated-enterprises-and-the-legge-marcora-framework/
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