C’è vita a sinistra? L'irriformabilità dell'Europa e le sfide della sinistra [1]
Sergio Cesaratto
C’è vita a sinistra, afferma (non si
domanda) perentorio il manifesto
aprendo uno stanco dibattito dominato dal pensiero unico di un gruppo di soliti
noti - lo dico con il rammarico dell’antico militante di quel gruppo e
quotidiano. Fuori dal coro solo l’intervento di Stefano Fassina e quello del prof. Luciano Canfora che si è posto grandi e importanti domande. Gli altri contributi
non varrebbe neppure la pena discutere.
L’astuto Hayek e l’europeismo ingenuo
La maggior parte si crogiola
tenacemente nell’idea della riformabilità dell’Europa mentre si indigna al solo
sentir parlare di riconquista della sovranità democratica nazionale. Riferendosi
a un saggio dell’iperliberista (ma astuto) Friedrich Hayek, Oskar Lafontaine ha spiegato poche settimane fa
perché un’Europa politica e dunque solidale non può esistere:
<Già nel 1976 [sic, 1939 in
realtà] il maestro di questa ideologia, Friedrich August von Hayek, ha
dimostrato in un suo articolo che ha avuto una profonda influenza che il
trasferimento di autorità sul piano internazionale apre chiaramente la strada
per il neoliberismo. Ed è per questo che l’Europa del libero mercato e di
scambio non regolamentato dei capitali non è mai stato un progetto di
sinistra>.
Ci piace pensare che quanto avevamo
scritto poche settimane prima (anche in inglese) abbia avuto un’influenza su questa
opinione.
Scrivevamo
infatti che un argomento dirimente per dimostrare che un’Europa politica è pur
possibile, ma solo con uno Stato minimale, viene da un vecchio saggio di Hayek
del 1939. La sua argomentazione è che una federazione fra nazioni
economicamente e culturalmente disomogenee (si potrà poi ragionare
sull’importanza relativa dei due aggettivi) e che controlli un cospicuo
ammontare di risorse, non potrà durare a lungo. Essa si fratturerà presto sui
criteri di distribuzione delle risorse e/o del potere di allocarle. La fine
dell’ex-Yugoslavia è l’esempio più evidente. E basti guardare a quello che
succede in questi giorni (luglio 2015). Che legittimazione avrebbe un’autorità
federale europea di andare contro la volontà di molti paesi di non aiutare la Grecia a sollevarsi? Non
sarebbe neppure troppo democratico, a ben vedere. Questo pone la parola fine al
sogno dei più tenaci europeisti per cui il problema dell’euro si risolverebbe
completando l’unione monetaria con l’unione politica. Dalla padella nella brace
verrebbe da dire.
L’astuto Hayek
precisa che politicamente sostenibile sarebbe invece uno Stato federale
“leggero”, che abbia poco o nessun potere redistributivo e che si occupi solo
di regolamentare i mercati e poco altro. Esso sarebbe non solo possibile, ma
desiderabile. Per un liberista, naturalmente, non certo per un socialista. Non
sorprende che, tanto per fare un esempio nostrano, i più ostinati federalisti
italiani siano i radicali, tenaci liberisti in economia. E non è un caso che il
Rapporto dei 5 Presidenti (Draghi, Junker ecc.) sulla riforma politica dell’UE si rifaccia
fondamentalmente al modello Hayek: nessuna funzione fiscale perequativa a
Bruxelles, banca centrale monetarista e limitazione all’autonomia degli Stati
nazionali.
In tal modo si
completerebbe il disegno hayekiano che svuota del tutto gli Stati nazionali dei
poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici nazionali del loro
terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia si
riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute centrali
dai radicali (il resto la fa il mercato). Si completa così anche la
globalizzazione: non solo il capitale si sottrae al conflitto delocalizzando,
ma anche lo Stato si fa evanescente - di esso rimane solo il sorriso beffardo
del gatto di Alice lassù da Bruxelles.
Naturalmente
l’indefesso internazionalista ci dirà che a fronte della globalizzazione di
Stato e capitale, anche il lavoro si deve internazionalizzare e creare fronti
sovra-nazionali. La storia è tuttavia parca di esempi in questa direzione.
L’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e per il socialismo è invece
un classico della storia del movimento operaio.
L’indefesso
keynesiano di sinistra (utopista o liberal-socialista) ci dirà che, potenzialmente, i lavoratori dei diversi
paesi hanno tutti interesse a politiche espansive, in particolare quelli
tedeschi a politiche di sostegno ai salari, sì da far svolgere a quel paese un
ruolo di traino della domanda aggregata in Europa. Questo allevierebbe le
problematiche della moneta unica. Potenzialmente, appunto. Come vedremo più
avanti, già negli anni 1970 la sinistra del Labour
inglese criticava posizioni che facevano leva su congiunzioni astrali per cui
governi progressisti e keynesiani si trovano al potere allo stesso tempo. Su
questo non si può fare affidamento – ammesso e non concesso che difficoltà non
possano scaturire anche fra governi progressisti di paesi disomogenei.
La vicenda
greca impone che la sinistra prenda coscienza delle ragioni profonde della
crisi europea, e smetta di attribuirla a una generica tecnocrazia neoliberista.
Vi sono ragioni materiali per cui questa è l’unica Europa possibile ed è quella
che le élite desiderano, avvantaggiandosi anche dell’ingenuo europeismo della
sinistra. Come Hayek aveva ben colto, il federalismo è la Mecca dei liberisti
(e dovrebbe essere anatema per i socialisti). Questo non implica l’abbandono
dell’idea della fratellanza fra i popoli. Attenzione però al fondamentalismo
utopico: è di un vecchio e colto amico de il
manifesto (quando non ospitava gli zombie), Danilo Zolo, ricordare la
massima di Proudhon, “Chi dice umanità cerca di ingannarti” [questo ce lo
dobbiamo ricordare anche sulla questione immigrazione, basti pensare il cinismo
con cui si è parlato di allentamento dei vincoli fiscali europei per i paesi
europei che avessero accolto un congruo ammontare di migranti, un segno di
disprezzo per i milioni di disoccupati dell’Europa periferica].
L’affermazione di Corbyn: l’ennesima illusione?
Queste cose ce
le siamo dette, ma qual è l’alternativa che proponiamo? Certamente la vittoria
di Corbyn alla leadership del Labour Party dimostra che a sinistra c’è vita,
peraltro chi ha mai dubitato che le “idee di rivolta non muoiono mai”? Il quesito
che si pone alla sinistra laddove abbia prospettive di governo – ça va sans dire che in Italia siamo anni
luce da questo – è “per fare cosa?”
Al riguardo, un
recente bel saggio su ottima
rivista della sinistra americana articola un confronto fra la capitolazione di
Tsipras e quella di Mitterand nel 1981-82, ambedue guarda caso alla Germania.
Ora la Francia non è la piccola e disgraziata Grecia, ma a maggior ragione il
parallelo si fa interessante. Mitterand andò al potere su un programma molto
avanzato di nazionalizzazioni, redistribuzione e sostegno alla domanda
aggregata. Un programma keynesiano insomma, ma con delle ambizioni socialiste.
La mancata cooperazione economica da parte dei partner, Germania in primis, che
perseguivano politiche di rigore, pose fine all’esperimento. La questione è
semplice: qualunque paese che autonomamente decidesse di crescere di più
sostenendo la domanda interna, per esempio accrescendo salari e spesa sociale,
incorrerebbe rapidamente in problemi di bilancia dei pagamenti. Questo
puntualmente accadde in Francia. Con una delle innumerevoli giravolte che lo
contraddistinsero, il Presidente francese si convertì al rigueur decidendo di mantenere la partecipazione della Francia al
Sistema Monetario Europeo (l’antesignano dell’euro) e da allora quel paese è diventato
la dama di compagnia di Fraulein Deutschland che conosciamo. Se il coraggio di
andare per la propria strada mancò alla orgogliosa e avanzata Francia, certo le
cose sono state ben più difficili per la povera Grecia. Si dice che il leader
inglese Corbyn provenga dalla tradizione della sinistra labour che fu di Tony
Benn, Michael Foot, Ken Livingstone (qui). Anche quella
sinistra, con Tony Benn ministro dell’industria, si trovò al governo. Le
difficoltà al suo programma radicale di politica industriale (qui) provennero
allora dalla stessa destra laburista. L’Alternative
Economic Strategy (AES) è fatta di controlli, in primis sui movimenti di capitale
(ma qui persino il FMI accondiscende in certe condizioni), ma anche e
soprattutto delle importazioni.[2]
L’Alternative
Economic Strategy
Bob Rowthorn (università di
Cambridge), uno dei più influenti economisti eterodossi degli anni 1980, membro
del Partito comunista inglese, in due attualissimi articoli (1980 e 1981) spiega e difende la AES
rivendicandone il carattere nazionale
sulla base dell'argomento di buon senso che giustizia, lavoro e benessere nel
proprio paese non possono attendere che governi di sinistra si instaurino anche
in altri paesi. Questo dimostra anche che la sovranità sul tuo proprio Stato è pregiudiziale a qualsiasi speranza di cambiamento, alla faccia degli
europeisti di sinistra che inflazionano il pensiero unico de il manifesto.[3] Osservando preliminarmente come la AES prevedesse
l’uscita del Regno Unito da quello che allora si chiamava Mercato Comune
Europeo (che ostacola l’intervento pubblico nell’industria) (1981: 1), Rowthorn
ci sembra ben anticipare i termini del dibattito corrente, un de te fabula narratur:
“the
crisis which is affecting millions of British people is upon us now. If the
left is to exploit the present situation, it must have a programme which offers
these people some hope, and it must think in terms of something more practical
than a European or world revolution. Those who attack a national strategy for
socialism in Britain as doomed to failure, and call for a European or world
revolution, may sound very revolutionary. But in fact theirs is a doctrine of
despair, and however much their views may inspire a small vanguard of
sympathisers, they can only breed demoralisation amongst the mass of workers to
whom they offer nothing.” (1980: 3).
Più crudo di così…
Fra Mitterand e Lenin
Che tutto
questo sia difficile, forse ancor più difficile oggi che alcuni decenni fa,
siamo d’accordo.[4] Il
perseguimento di strade nazionali si scontra sia col capitale nazionale che con
quello internazionale, e necessita un sostegno ampio delle masse popolari (si
vedano le belle conclusioni del saggio su Mitterand e anche
analoghe riflessioni di Rowthorn 1980 e 1981). Ma ci
sono alternative? Che in nome di utopie internazionaliste senza alcun fondamento
ci si rifiuti persino di intraprendere una difficile strada di ricerca di
strade alternative è colpevole (oltre che stupido). Mitterand
stesso ebbe a dichiarare: “In economia ci sono due soluzioni. O sei un
Leninista. O tu non cambierai nulla”. Oggi non si tratta di dividersi se
Tsipras sia o no un traditore o un opportunista o quello che si vuole. Questo è
irrilevante. La questione è constatare freddamente la sfida enorme che un
governo di sinistra si trova di fronte, l’altro ieri Mitterand, ieri Tsipras,
domani Corbyn (o Fassina)?
La mancata determinazione a
percorrere una strada radicale non può non essere stata negativamente
influenzata dal fallimento del socialismo reale su cui non v’è riflessione
alcuna e su cui a sinistra si è steso un telo, non pietoso ma pavido. La crisi
della sinistra si identifica per molti versi con la crisi dell’idea stessa di
socialismo, dopo il crollo del socialismo reale.[5]
Per contro v’è un “capitalismo scatenato”, come lo definì un altro indimenticato
economista inglese Andrew Glyn, che, sebbene ben lungi dal funzionare senza
problemi – basti ricordare la problematica della stagnazione secolare -, appare dominare incontrastato con
una crescente, disgustosa e spudorata diseguaglianza accompagnata
dall’abbattimento dei diritti sociali e politici.[6]
La violenza del capitalismo si manifesta sfacciatamente anche verso l’ambiente.
Si presti attenzione che il “capitalismo scatenato” si contrappone al
capitalismo regolato degli anni d’oro 1950-1970 quando la sfida socialista era
ben viva imponendo al capitalismo un comportamento più improntato alla
giustizia sociale, come anche la sinistra buonista con ritardo riconosce nelle
proprie riviste. Piaccia o non piaccia, si è
trattato dell’epoca più felice e piena di speranze per interi popoli mai
verificatasi nella storia umana, sia da noi che nei paesi più poveri.[7]
Ora abbiamo un capitalismo al contempo in crisi perenne e clamorosamente
vittorioso.[8]
Il crollo del socialismo reale ha
dunque al contempo consentito lo scatenamento di un capitalismo barbaro e
l’indebolimento delle capacità di reazione della sinistra.
E tempo che la sinistra riprenda la
sfida alla barbarie del capitalismo iperliberista. Comprendere che le
istituzioni sovranazionali sono spesso un suo strumento per svuotare le
democrazie nazionali (qui) è un primo passo, il più banale peraltro. C’è una
reticenza, al riguardo, nel noto e
meritorio documento Piano
B sottoscritto a Parigi anche da Fassina, anzi in un certo senso un passo
indietro rispetto a quanto qui argomentato laddove si afferma che: “Nessun paese europeo può operare per
la propria liberazione in modo isolato. La nostra visione è internazionalista”.
A me sembra che ciò che degli autentici internazionalisti devono sottoscrivere
è una dichiarazione di sostegno a governi di sinistra che si vedessero
costretti, com’è probabile, a muoversi in autonomia avendo contro il capitale
nazionale e internazionale.[9]
Ma questi sono problemi relativamente semplici a risolversi, una volta
compresi.
Così come non mi fascerei la testa di
fronte alla difficoltà di determinare come potrebbe avvenire una dissoluzione
dell’euro o una uscita unilaterale. Questa può avvenire solo in seguito a una
radicalizzazione della situazione, ovvero a una rivolta popolare contro
politiche che non danno prospettive di lavoro e benessere. Queste fasi sono
drammatiche per definizione, il punto è la volontà popolare di affrontarle. Il
referendum greco ha dimostrato come una stragrande maggioranza della
popolazione possa essere pronta a farlo (e per un paese povero le cose sono ben
più difficili). Il nostro compito è portarla a questo grado di consapevolezza
ed esasperazione. “Loro” cercheranno in tutti i modi di evitare questa drammatizzazione.
Costruire una alternativa è la vera
sfida. Credo che la priorità sia il tema dell’occupazione, della piena
occupazione, tema su cui bisogna battere senza sosta prima e sopra ogni altro
(come tipicamente non fa la sinistra).
Solo così si può conquistare il consenso. Poi va impostata una ricerca
sistematica sulla problematica del socialismo. Sia il capitalismo di Stato,
sperimentato in occidente, che il socialismo reale, hanno incontrato seri
problemi di inefficienza, corruzione e quant’altro. Quelli della pianificazione
o, nella versione occidentale, della programmazione sono tematiche abbandonate
da tempo. Il capitalismo scatenato rivendica una propria vittoria sul piano
dell’innovazione tecnologica: è proprio così? E se è così, è davvero una battaglia
perduta? Ma su tutte v’è la domanda se un paese può davvero oggi andare per
proprio conto, date le relazioni economiche con l’estero diventate sempre più
complesse e l’assenza di un blocco economico socialista su cui l’AES faceva per
esempio affidamento. Se non è così, beh allora lasciamo perdere.
Personalmente credo che solo se la
sinistra decide di affrontare a viso aperto queste sfide, che sono
inscindibilmente politiche e intellettuali, potrà dimostrarsi viva. Sennò
rimarrà una agglomerato marginale di anime belle votato a presunte nobili
battaglie, a cui la maggioranza dei suoi concittadini sono in genere estranei,
e ad altrettanto ignominiose sconfitte. Inutile polvere di storia.
Principali riferimenti bibliografici
Birch, J. (2015) https://www.jacobinmag.com/2015/08/francois-mitterrand-socialist-party-common-program-communist-pcf-1981-elections-austerity/
Cesaratto, S. (2014) http://www.asimmetrie.org/working-papers/wp-201502-fra-marx-e-list-sinistra-nazione-e-solidarieta-internazionale/
Cesaratto, S. (2015) http://www.asimmetrie.org/working-papers/wp-201508-alternative-interpretations-of-a-stateless-currency-crisis/
Panitch, L. (2015) https://www.jacobinmag.com/2015/09/jeremy-corbyn-benn-miliband-leadership-election/
Pivetti, M. 1978. "Il controllo delle importazioni nell'impostazione del Cambridge Economic Policy Group", Note Economiche, n. 4, 1978.
Ramanan (2013) http://www.concertedaction.com/2013/04/25/nicholas-kaldor-on-floating-exchange-rates/
Rowthorn, R. (1980) https://www.marxists.org/history/etol/newspape/isj2/1980/no2-008/rowthorn.html
Rowthorn, R. (1981) http://www.amielandmelburn.org.uk/collections/mt/pdf/81_01_04.pdf
Sundaram, J.K. e Popov V. (2015) http://wpfdc.org/blog/economics/19430-income-inequalities-in-perspective
[1] Ho preparato queste note per un dibattito con Giorgio
Cremaschi a una festa anti-fascista a Brescia il 18 settembre 2015. Non avrei
mai scritto queste cose se non avessi avuto dei grandi maestri. Pierangelo
Garegnani (1930-2011) che da subito ci fece studiare l’esperienza del governo
Mitterand, più sotto ricordata, oltre ad incitarci a occuparci di temi
concreti, lui il massimo dei teorici economici. E Massimo Pivetti, fra i primi
allievi di Garegnani, l’esponente italiano dell’Alternative Economic Strategy (Pivetti 1978) più sotto richiamata, oltre che
fra i più noti e rigorosi economisti eterodossi del mondo. Da loro ho appreso
che fu la sfida del socialismo reale a rendere il capitalismo più umano, sino a
che durò, e che la disoccupazione è il maggiore fattore disciplinante dell’economia
di mercato. L’ho appreso 35 anni fa. Ringrazio G. Bergamini, M. D’Antoni e L.
Turci per alcuni puntuali commenti.
[2] Gli estensori dell’AES ritenevano, presumibilmente,
che la flessibilità del cambio non sarebbe stata sufficiente ad assicurare il
pareggio dei conti esteri a fronte di politiche interne espansive e che,
inoltre, un deprezzamento del cambio avrebbe avuto effetti negativi sui salari
deprimendo sia i consumi interni che il consenso popolare al governo di
sinistra. Del resto anche Kaldor, l’economista più influente e prestigioso
della sinistra labour era divenuto
negli anni più scettico sugli effetti risolutivi di una svalutazione della
sterlina (qui).
[3] <The strategy is … national in character because it is
based primarily on changes within Britain itself, and does not consider the
wider question of how to overcome the present crisis in world capitalism.
Whilst recognising that Britain is linked to the world economy, the strategy
assumes that she still has or can obtain enough freedom of action to pursue a
fairly independent policy, and that a vigorous programme of reforms would stem
the industrial decline and lead to a real improvement in the national economy.
...The Communist Party believes that this strategy must be primarily national
in orientation. The strategy must assume that during the transition to
socialism in Britain the rest of the western world will remain under capitalist
control. The Party recognises, of course, that a transition to socialism in
Britain would be incomparably easier and more complete if it was accompanied by
a similar transition in all or even several other major capitalist countries.
But, there is no guarantee that this will actually be the case.> (Rowthorn 1980: 2).
[4] L’AES faceva affidamento, per esempio, sul commercio
col blocco socialista che avrebbe certamente guardato con interesse ad accordi
con paesi tecnologicamente avanzati come Regno Unito e Francia. Il governo
Tsipras, com’è noto, ha avvicinato i cosiddetti BRICS per un eventuale sostegno
in caso di rottura con l’UE. Le versioni su questo come su altri aspetti della
vicenda greca sono varie (la mossa fu solo strumentale senza crederci molto;
sono stati i BRICS a defilarsi ecc.). Di certo i BRICS costituiscono un
interlocutore meno affidabile dell’allora blocco socialista.
[5] La crisi del socialismo reale può essere fatta
risalire ad almeno due importanti fattori: a) l’indisciplina e l’assenza di
incentivi all’impegno lavorativa in società in cui il lavoro è garantito; e b)
le difficoltà proprie alla pianificazione economica (a uno studio superficiale
non sorprendono le inefficienze quanto che apparati così dirigistici potessero
addirittura marciare).
[6] Una costante banalità “di sinistra” è che il
capitalismo sia in crisi, e dunque stia sul procinto di crollare. Se prendete un
volantino dell’estrema sinistra di qualunque decennio (1950, 1960, ecc), il
capitalismo è definito in crisi, non c’è mese o giorno in cui non sia stato
definito in una crisi esiziale. In effetti non è sbagliato dire che il
capitalismo sia costantemente in crisi: non può che essere in così in un
sistema in cui domina la diseguaglianza che ha per conseguenza un problema di
domanda aggregata, di sbocchi per la produzione. Questo è vero anche oggi,
soprattutto oggi che la diseguaglianza è aumentata drammaticamente, tant’è che
gli economisti borghesi parlano di “stagnazione secolare” (dov’è la domanda?).
Ma gridare al capitalismo in crisi quasi stesse per crollare è dir nulla. Il
punto è capire come il capitalismo di volta in volta reagisca al problema ella
domanda aggregata (con le guerre, facendo indebitare il ceto medio o i paesi
periferici e quant’altro).
[7] E’ vero che il “capitalismo scatenato” ha tirato fuori dalla povertà milioni di
individui creando una classe media nei BRICS e persino nell’Africa subshariana,
ma l’ha fatto senza creare quelle istituzioni di democrazia sociale e stabilità
economica che avevano caratterizzato lo sviluppo europeo nel secondo
dopoguerra, e anzi in buona misura al prezzo dello smantellamento del modello
europeo sottoposto alla pressione della concorrenza della globalizzazione. I danni ambientali
sono stati impressionanti.
[8] Come è stato
notato: “Today, capitalismi is the only ‘show in town’, and the main choice and
debate is among varieties of capitalism, rather than between capitalism and
some alternatives” (Sundaram e Popov 2015: 10). Mi sembra nostro compito cambiare questa situazione deprimente.
[9] Come mi ha fatto notare Massimo D’Antoni, l'idea che nessun paese si possa salvare da solo
affermata nel documento di Parigi offre il fianco alla facile critica: se trovi le risorse di cooperazione
per uscire bene dall'euro, troverai anche quelle per correggere l'unione monetaria senza uscire.
E in ogni caso solo una improbabile congiunzione astrale farà trovare governi di sinistra radicale
al potere contemporaneamente nei grandi paesi.
Converrebbe andare a rileggersi la critica premarxista al comunismo, non è solo chi parla di umanità che vuole ingannarti ( Proudhon), ma probabilmente anche chi parla di socialismo (Stirner).
RispondiEliminaChi cita Stirner si merita il m5s. Ma veniamo al post, che, per certi versi lascia perplessi.
RispondiEliminaCitare già Hayek al posto di Friedman in riferimento alla UE e al suo monetarismo, è un'interessante presa di posizione per cui si evidenza una progettualità ab origine dell'integrazione europea che non può che far emergere l'inanità intellettuale del "sincero europeismo".
D'altronde, prima di Hayek, fu Lenin ad argomentare come mai non ci sarebbe potuta essere altra Europa unita se non tramite una guerra imperialista ('39-'45), data la feroce competizione tra capitali nazionali, oppure tramite un gigantesco "cartello" del capitale internazionale, unito nella lotta di classe a oppressione delle classi subalterne: Paneuropa e... l'einaudiana Ventotene.
Ottimo ricordare il ruolo dei radicali, a cui, *tutta* la sinistra si è appiattita.
Perché, però, sprecare energie a dialogare con un pubblico che va dall'inetto al collaborazionista?
Il socialismo, con buona pace di Stirner, ce lo abbiamo in Costituzione. poi però, l'autore - mi sia consentito - "sbraca" con "capitalismi di stato", "inefficienze" e "corruzioni" (dimenticandosi che i corruttori hanno il *capitale* per corrompere).
Inefficienze imputabili forse all'impresa pubblica francese, non sicuramente alla parastatale italiana.
Sulla "innovazione tecnologica" rimando al recente lavoro della Mazzuccato.
Vogliamo ammettere che l'intelocutore dell'autore è mediamente un ignorante che ha sempre e solo avute mere mire politiche? E che, condividendo l'intimo dell'etica capitalista, semplicemente è risultato un perdente?
Avere un'estetica di sinistra e un'etica di destra è il peggiore dei tradimenti.
Mi chiedo il senso di questi accorati appelli con argomentazioni su "nuovi obiettivi ideologici" che... abbiamo già, primi al mondo, in Costituzione dal '48.
Cordialmente.