Due amici argentini han pubblicato su il manifesto (ah, se si decidesse a pubblicare sempre cose di questa qualità!) un articolo molto utile, ma anche con una tesi controversa. Si può naturalmente concordare che un sviluppo a colpi di svalutazione per mantenere un "tasso di cambio competitivo" può non funzionare come ci si aspetta. Non è detto che le esportazioni reagiscano - esse potrebbero dipendere dalla domanda estera, per esempio l'andamento del Pil cinese condiziona la domanda di prodotti agricoli argentini. Si importa, inoltre, inflazione, e ciò comporta un minore potere d'acquisto dei salari, ciò che può tradursi in una minore domanda anche per i prodotti nazionali. Tutavia, almeno per il caso italiano, se decidessimo che la perdita della flessibilità del cambio è irrilevante, di che staremmo a lamentarci? In verità soffrire di un tasso di cambio non-competitivo è anche un grave problema. La flessibilità del cambio consente a un paese di recuperare la maggiore inflazione - e dunque la perdita di competitività delle proprie merci - rispetto all'estero, cosa che il nostron paese non ha più potuto fare. Inoltre l'Italia si adopererò, come cha spesso suggerito Augusto Graziani, di mantenere stabile il cambio col dollaro, con cui paghiamo le importazioni energentiche, e svalutare con il marco, per recuperare competitività. Il dibattito è aperto.
Un keynesismo
forte fa respirare l'Argentina
*Roberto Lampa e
Alejandro Fiorito (nella foto a Buenos Aires)
Il Pil si assesta a un +6%, la
disoccupazione scende dal 25 al 7%, la distribuzione del reddito è in costante
miglioramento. E senza l'arma della svalutazione del peso.
Agitata a mo' di spauracchio dai sostenitori ad oltranza
dell'austerità targata Unione europea o incensata come paradigma da imitare dal
grillismo più radicale, l'Argentina occupa ormai uno spazio indiscusso nel
dibattito politico italiano: «Faremo la fine dell'Argentina » o «Bisogna fare
come l'Argentina » sono diventati così due aforismi, ricorrenti e perfino
abusati, nella discussione sulla crisi economica in corso. Simili giudizi sono
finora restati ad un livello d'analisi estremamente superficiale, scontando per
di più l'utilizzo di lenti deformanti "primo-mondiste" con le quali sovente si
tenta di osservare il complesso, e talvolta contraddittorio, continente
latinoamericano, piegandolo alla stringente attualità nostrana. Tuttavia, una
volta inquadrato nella sua specificità, il caso argentino può effettivamente
contenere alcune indicazioni cruciali per il dibattito sullo stato (comatoso)
dell'economia italiana ed europea. Riteniamo utile partire dai freddi numeri.
Tra il 2003 ed il 2011, il Pil argentino è cresciuto in media del 7,6% annuale;
nel 2012 ha subito un rallentamento attestandosi al +1,9% (complice l'improvvisa
crescita zero della "locomotiva regionale" Brasile, ma anche un brusco freno
alla spesa pubblica) ed infine quest'anno si va assestando ad un +6%. Vale la
pena sottolineare che, come osservato da Mark Weisbrot ed altri, la crescita
argentina fino al 2011 è stata la più rapida e corposa del mondo occidentale
contemporaneo. Una simile, impetuosa, crescita economica ha ovviamente implicato
una forte generazione di posti di lavoro ed una drastica riduzione della
disoccupazione, passata dal 25% all'attuale 7,3% nel periodo in esame (con gli
ultimi indicatori trimestrali che indicano un'ulteriore contrazione). Ma, cosa
ben più interessante, è stata accompagnata da un costante miglioramento della
distribuzione dei redditi: l'indice di Gini (il cui alto valore indica un'alta
disuguaglianza) si è infatti progressivamente ridotto fino all'attuale 0,372. Un
traguardo straordinario, se paragonato al resto della regione latinoamericana:
in Brasile l'indice di Gini è addirittura pari a 0,52. Simili risultati sono
stati essenzialmente il frutto di una politica economica interventista e
fortemente orientata all'espansione della domanda domestica, le cui chiavi sono
state la politica fiscale (accompagnata da una politica monetaria accomodante,
implementata da una banca centrale non più indipendente ) ed i molti
trasferimenti erogati a vantaggio delle classi medio-basse. Inoltre, la
tradizionale vicinanza dei governi peronisti alle centrali sindacali argentine
ha prodotto una politica salariale che ha permesso ai lavoratori di tenere il
passo dell'inflazione: nonostante quest'ultima sia stimata tra il 20 ed il 25%,
attualmente la crescita del salario per il 2013 è prevista attorno al 25,3% (con
punte del 31,2% nel settore privato), non pregiudicando il potere d'acquisto dei
settori popolari. Proprio questa logica ha ispirato l'ostinato rifiuto dei
governi Kirchner di svalutare il peso argentino. Non va infatti dimenticato che
nei paesi in via di sviluppo gli effetti di una svalutazione sono fortemente
regressivi sul piano della distribuzione dei redditi, perché, da un lato, è
maggiore la quantità di beni di consumo ed investimento importati [esportati?] e, dall'altro,
è più forte il rischio di un effetto trascinamento dei prezzi internazionali sui
prezzi domestici. A fugare ogni dubbio, andrebbe sempre ricordato che proprio
l'improvvida svalutazione del bolivar a due mesi dalle elezioni è stata
all'origine dell'emorragia di voti nei settori popolari che è quasi costata la
vittoria a Nicolas Maduro in Venezuela, sebbene questo dettaglio sembra essere
sfuggito a molti osservatori del primo mondo. In questo senso, non appare
convincente la spiegazione di quegli economisti (ad esempio, Bagnai e Frenkel)
che individuano nel tasso di cambio competitivo la chiave della crescita
argentina, accettando la tesi ortodossa di Rodrik relativa all'esistenza di una
correlazione positiva tra il tasso di cambio e la crescita economica. Negli anni
più bui della crisi globale in corso, ad es. il 2010-11, il peso argentino era
infatti tornato a livelli di apprezzamento simili a quelli degli anni della
convertibilità col dollaro, eppure il Pil argentino raggiungeva i picchi più
alti di crescita (+9,2% nel 2010 e +8,9% nel 2011) ed il prodotto industriale
cresceva ancora di più (+9,8% nel 2010 e +11,0% nel 2011). Semmai, appare
plausibile il contrario: i dati sembrano indicare che la chiave dell'espansione
economica argentina risiede nel forte keynesismo che ha ispirato l'azione dei
suoi governi, accompagnato da un certo grado di protezionismo e allo sforzo
crescente per creare uno spazio di manovra sufficiente per la politica
economica, iniziato con il cruciale processo di dis-indebitamento e sganciamento
dai prestiti del Fmi, che imponevano draconiane politiche di austerità. In un
simile contesto, la svalutazione avrebbe effetti senz'altro regressivi ed
opposti a quelli auspicati dalle autorità economiche. Né del resto sarebbero
scontati i suoi effetti sui volumi del commercio estero, come ampiamente
documentato nella letteratura economica argentina (ad es. Berrettoni e
Castresana, 2008). Ovviamente, non vanno sottaciute le difficoltà di questo
paese e le sfide che in futuro dovrà affrontare. In particolare, va rilevato che
almeno una parte della nefasta eredità neoliberale degli anni '90 è ancora
presente, sotto forma di un'eccessiva dipendenza dell'economia nazionale dalle
importazioni e dal capitale transnazionale, specie nei settori chiave dei beni
di equipaggiamento durevoli e dell'energia: tra il 2003 ed il 2011, le
importazioni sono cresciute in media del 16,6% annuale mentre le esportazioni
soltanto del 6,3% annuale. Ciò ha determinato un deficit nelle partite correnti,
accompagnato però da un saldo delle merci ampiamente positivo. Più che
evidenziare un problema di competitività, ciò è potenzialmente in grado di
riprodurre un paradosso, in passato noto come ciclo di stop and go : la forte
crescita del Pil innesca un'impennata delle importazioni (maggiore della
crescita delle esportazioni) che genera un crescente disequilibrio di conto
corrente della bilancia dei pagamenti. Per arrestare questo fenomeno si ricorre
a una svalutazione, che, dato il contesto di crescita, fa schizzare l'inflazione
fuori controllo, peggiora la distribuzione, raffredda l'economia e annulla gli
effetti della crescita economica precedente, condannando il paese a un perenne
sottosviluppo. Così come non va dimenticata l'assenza di statistiche attendibili
sull'inflazione ed una certa timidezza del governo nazionale nel prendere atto
delle origini di natura distributiva di questo fenomeno (che si è manifestato
con forza a partire dal 2009, anno in cui il salario reale è tornato ai livelli
precedenti la crisi e non è invece dovuto all'eccesso di spesa pubblica, come ad
esempio argomentano Frenkel e Bagnai) e ad intervenire con un'adeguata politica
dei redditi e di controllo dei capitali. Pur tuttavia, ciò che a nostro avviso
merita di essere evidenziato è che mentre l'Unione europea annaspa ostaggio del
pensiero economico ortodosso e delle ricette neo-liberali propugnate dalle
istituzioni internazionali, proprio il Keynes meno addomesticato e l'eterodossia
economica strutturalista hanno invece trovato ospitalità nei palazzi di governo
dell'economia argentina. Basti ricordare, a mo' di esempio, il recente obbligo
per le banche e le assicurazioni di destinare il 5% dei depositi ad investimenti
produttivi in settori strategici stabiliti dal Sottosegretariato alla
Pianificazione (!): ciò che in Italia farebbe gridare al regime bolscevico,
sembra ancora in grado di garantire all'Argentina una crescita economica di
tutto rispetto, nonostante la pessima congiuntura internazionale ed alcuni nodi
irrisolti. Se ne accorgeranno il governo e gli addetti ai lavori italiani?
*Roberto Lampa (Universidad de Buenos Aires) e Alejandro Fiorito (Universidad
Nacional de Lujan)
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