Il manifesto ha pubblicato il 12 agosto un mio intervento, riprodotto qui sotto, nell'ambito del dibattito sull'Europa aperto da Rossana Rossanda. Esso è stato scritto prima dell'intervento della BCE, che viene tuttavia lì anticipato come inevitabile. Il giornale ha presentato l'articolo in prima con un occhiello "Occupiamo le sedi europee con gli economisti <critici>", un proposta dell'articolo. Iniziative di lotta per una Europa diversa possono invero conciliare l'utopia europeista, acriticamente prevalente nella sinistra italiana, e il realismo politico che guarda all'Europa per quello che è, un assemblement di interessi nazionali spesso confliggenti. L'Europa è in un bel pasticcio, vale la pena cercare di forzare la situazione verso un esito progressivo - pur attrezzandosi per eventuali piani B. La crisi sta pian piano coinvolgendo la Francia. Questo farà la differenza.
L’idea di Europa fra utopia, realismo e lotta
di Sergio Cesaratto
1. Nella disciplina delle relazioni internazionali si scontrano tradizionalmente due impostazioni: quella liberale e quella realista – quest’ultima assai composita al suo interno include la tradizione del realismo politico di Tucidide, Machiavelli e Hobbes, ma anche mercantilisti e nazionalisti economici. Include in senso lato anche i marxisti, i quali però oscillano fra il nazionalismo e il cosmopolitismo. Cosmopoliti sono i liberali per i quali c’è una potenziale armonia fra le nazioni sorretta dai vantaggi reciproci nel commercio internazionale. I realisti politici sono invece scettici circa i vantaggi del commercio internazionale in presenza di paesi a diverso stadio di sviluppo, in particolare i paesi più arretrati hanno bisogno di proteggere le proprie industrie nascenti. Ma anche a stadi più avanzati, la lotta per la conquista dei mercati esteri necessari a smaltire il sovrappiù interno è feroce. Una visione solidaristica delle relazioni internazionali proviene invero anche dalla tradizione marxista: se questa enfatizza da un lato il conflitto inter-imperialista, d’altro canto vede la convergenza degli interessi delle diverse classi lavoratrici nazionali (quindi conflitto fra capitali, ma solidarietà del lavoro). Uno spunto nella direzione della cooperazione viene anche dal “keynesismo internazionale”, laddove questo individua nell’adozione di politiche fiscali e monetarie coordinate di sostegno alla domanda un motivo di fruttuosa cooperazione fra le nazioni.
L’analisi economica eterodossa ci suggerisce tuttavia che la teoria dei vantaggi reciproci dal commercio internazionale sui cui si basa il solidarismo liberale è sbagliata. Mi sembra tuttavia di poter affermare che la storia abbia dato torto anche all’”internazionalismo proletario” e al keynesismo internazionale. Cominciando da quest’ultimo, la sua epoca d’oro è stata la cosiddetta “golden age” del capitalismo (gli anni 1950 e 1960), quando la competizione sovietica ha indotto gli Stati Uniti a una leadership volta a far crescere in maniera coordinata i paesi del blocco occidentale. Il keynesismo internazionale è tuttavia identificato da alcuni paesi – in particolare dalla Germania – come sinonimo di inflazione e di indisciplina sociale. Il comportamento della Germania è tipicamente mercantilista: il keynesismo altrui le fa comodo perché sostiene le esportazioni tedesche; al contempo una banca centrale volta al controllo dei salari e il coinvolgimento dei sindacati nel modello mercantilista conducono a disciplina sociale e moderazione salariale necessari a conservare i vantaggi competitivi.
Quanto alla solidarietà di classe a livello internazionale, è difficile citare dei casi concreti. Nei fatti le stesse rivoluzioni socialiste si sono in genere accompagnate a movimenti di emancipazione nazionale, mentre le classi lavoratrici dei paesi più avanzati hanno identificato i loro interessi con quelli dell’industria nazionale, persino quando l’hanno contestata con lotte dure.
Il realismo politico ci conduce dunque a guardare con sospetto all’idea della solidarietà internazionale basata sulla convergenza degli interessi delle classi lavoratrici nazionali attorno a un progetto di keynesiano internazionale: le classi lavoratrici dei paesi del nord Europa sono, per esempio, partecipi a modelli definibili di social-democrazia mercantilista. Il realismo politico ci conduce così a guardare con un certo scetticismo all’europeismo che da sempre è prevalso nella sinistra italiana.
2. La ragione di fondo per cui i paesi della periferia europea hanno aderito al progetto della moneta unica, come ci sembra la Rossanda abbia efficacemente sottolineato, è stato nell’idea di accelerare in tal modo, sotto la frusta della concorrenza coi paesi centrali, la propria modernizzazione smantellando posizioni di potere e privilegio, individuate soprattutto nei sindacati, ritenuti il vero freno alla crescita, questo anche da parte degli pseudo-riformisti che allignano nel centro- sinistra. Senza naturalmente voler difendere in tutto i sindacati italiani – che spesso proteggono situazioni di lassismo, e altre volte oscillano fra estremismo e servilismo – non era certo questa una diagnosi giusta: ogni ipotesi seriamente riformista non può prescindere da sindacati forti e unitari. L’errore che si è compiuto è inoltre che processi di modernizzazione sono possibili in ambiti di crescita economica – al costo di un po’ di inflazione – e non in climi deflazionistici in cui più esasperato è l’arroccamento nella difesa dei privilegi e in cui, comunque, mancano le risorse per la modernizzazione. E l’Europa ci ha portato poca o nulla crescita e mentre il potere dei sindacati si è ridotto ulteriormente, le vere posizioni di privilegio non sono state intaccate, anzi malaffare e malapolitica si sono diffusi ancor di più.
Insomma, l’Europa non va vista e indicata come elemento salvifico: non lo è perché essa è una collezione di paesi con interessi che possono anche convergere per certi aspetti, ma che sono confliggenti per altri e in cui, comunque, è per ora impossibile pensare a elementi di solidarietà. E neppure ci si deve adagiare sull’idea di una Europa “progressista e di sinistra” (e keynesiana), un Europa che non esiste nei fatti poiché gli interessi delle classi lavoratrici dei paesi “core”, per non parlare di quelli del capitale, non sono i medesimi di quelle della periferia.
Tutto questo non significa che la sinistra non debba lottare per una Europa diversa. Significa solo che lo deve fare facendo leva non sulle utopie moraleggianti, ma facendo forza dalle contingenze storiche. La sconfitta del nazismo e la guerra fredda condussero a un processo di integrazione della Germania con i grandi paesi dell’Europa sud-occidentale, contro la tendenza storica di quel paese verso oriente. Si tratta di vedere se nel corso di questa crisi sarà questa tendenza storica a riaffermarsi di nuovo, come sembra.
I governi dell’Europa sud-occidentale ritennero dopo la caduta del muro che l'UME avrebbe vincolato la Germania alla scelta occidentale. Fu un calcolo folle: l'UME è un surrogato di un sistema aureo (gold standard). In quel sistema la quantità di moneta dipende, diciamo, dalla quantità d'oro prodotta dalle miniere sudafricane. E’ dunque una semplice abdicazione collettiva alla sovranità monetaria e alla possibilità di aggiustamenti della competitività relativa dei paesi via tassi di cambio. Ciò sta, non sorprendentemente, accelerando la disgregazione dell’Europa per come la conosciamo e non conducendo a maggiore unità!
3. La situazione in cui sta scivolando l’Europa è ogni giorno più drammatica e in assenza di una azione forte la rottura dell’unione monetaria può essere questione di settimane. Il costo del debito pubblico italiano - i famosi spread, gli scarti fra i tassi di interesse pagati dallo stato italiano e quelli pagati dalla Germania - è salito a livelli inimmaginabili solo poche settimane fa, dimostrando l’inutilità della manovra. Le manovre imposte ai paesi periferici si rivelano infatti la classica fatica di Sisifo: minano crescita e stabilità sociale e da ultimo il bilancio pubblico. Come convengono tutti gli osservatori più avveduti, c’è una istituzione di cui tutti i paesi sovrani si sono dotati dalla fine del XIX° secolo per fronteggiare queste contingenze: la banca centrale. Dunque solo un intervento fermo della Banca Centrale Europea (BCE) potrà fermare e invertire la tendenza al rialzo dei tassi di interesse sui debiti sovrani di Italia e Spagna. Purtroppo l’ultimo accordo europeo del 21 luglio ha ulteriormente esentato la BCE dall’operare in questo senso (v. http://politicaeconomiablog.blogspot.com). Ottimisticamente riteniamo che, a meno di voler affossare l’Euro nel giro di qualche settimana, la BCE dovrà intervenire. Se questo avvenisse in misura adeguata, e si potesse ricominciare a respirare normalmente, ci si potrà rimboccare le maniche per raddrizzare questa Europa e questa Italia. Un serio intervento della BCE sarebbe un passaggio epocale in quanto significherebbe che l’Europa decide di avere una banca sovrana, e quanto sarebbe un passo politico reale verso una maggiore unità. Per i tedeschi vedere l’erede della amata Bundesbank finanziare il debito italiano sarebbe uno shock. Ma preferirebbero una irrimediabile rottura dell’UME?
Una sinistra italiana più realistica e consapevole deve mettere i partiti socialisti europei spalle al muro, e comunque attrezzarsi a ogni evenienza che non sia la lenta morte di questo paese a colpi di manovre. E’ indispensabile che da settembre la sinistra dia luogo a forme di mobilitazione, in primo luogo dei giovani, non in chiave anti-europea, ma per una Europa diversa, un’Europa del pieno impiego. Perché non cominciare a occupare le rappresentanze dell’Unione Europea in Italia con lezioni tenute dagli economisti critici?
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