La cura che creò il malato. L’origine della crisi italiana
di Sergio CesarattoAltro che “mancate riforme”. Dal 1995 la disciplina fiscale e le politiche del lavoro hanno fatto crollare investimenti e produttività
La verità viene lentamente a galla. La narrazione che viene dai paesi
d’oltralpe è di un’Italia fiscalmente dissoluta. Tale immagine viene purtroppo
condivisa anche da parte dell’establishment nostrano, particolarmente nell’area
del centro-sinistra, che vede nel debito pubblico il nemico numero uno. Un post
e un articolo di un noto economista olandese, Servaas Storm, appena pubblicati,
ci raccontano un’altra storia (“Come rovinare un Paese in tre decadi” e
“Perduto nella deflazione", scaricabili dall’Institute for New Economic Thinking).
La sua tesi è che l’Italia sia
stata la più ligia alle regole europee sui conti pubblici e, proprio per
questo, abbia ottenuto il doppio insuccesso di non sanarli pur al prezzo della
mortificazione di domanda interna, occupazione e crescita. La progressiva
flessibilizzazione del mercato del lavoro, inoltre, ha influito negativamente
sui salari reali; questo, assieme a un tasso di cambio reale sopravvalutato grazie
all’euro, ha ulteriormente depresso la domanda per i prodotti italiani.
L’Italia, scrive Storm, “può ben essere definita la prima della classe
dell’Eurozona, in quanto ha radicalmente trasformato la sua politica economica
– abbandonando la sua economia mista, riducendo i suoi sistemi sanitario e
pensionistico, liberalizzando i sistemi finanziario e industriale, e limitando
il controllo democratico e parlamentare sulle sue politiche macroeconomiche”. I
dati dello sforzo fiscale italiano sono impressionanti, esemplificati dalla
dimensione dei surplus di bilancio primari - la differenza fra entrate e uscite
dello Stato al netto del pagamento degli interessi.
Questi surplus indicano il
sacrificio degli italiani sull’altare del “risanamento” poiché misurano quanto
essi hanno pagato in tasse rispetto a quanto hanno ricevuto in cambio come
servizi pubblici. Per esempio, in media dal 1995 al 2008 i surplus primari sono stati del 3% del PIL contro deficit primari della Francia dello 0,1%
e surplus tedeschi dello 0,7%. I surplus italiani depressero la crescita,
vanificando in buona misura lo sforzo fiscale - anche per i tassi di interesse
che, sebbene in discesa, erano comunque più elevati che nel resto
dell’eurozona. Lo sforzo, comunque, portò a una discesa del rapporto debito
pubblico/PIL dal 117% del 1994 al di sotto del 100% nel 2007. Nonostante la
crisi, nel periodo 2008-18 il surplus primario è stato superiore in media
all’1,3%, - del 2% sotto Monti il quale ammise che esso stava “effettivamente
distruggendo la domanda interna”. Assieme allo sciagurato ritardo della BCE nel
sostegno ai debiti sovrani – cominciato solo col famoso annuncio di Draghi
dell’estate 2012 – queste politiche riportarono il debito pubblico verso il
130% del PIL. La Francia adottò nel frattempo politiche di deficit primari, e
all’inizio lo fece anche la Germania. Per dare un’idea: nella decade post-2008 la
Francia ha espanso la domanda di 461 miliardi di euro (a prezzi 2010), i
governi italiani l’han contratta per 227 miliardi. Bene, bravi 7+! Tutte queste
politiche dal 1995 in poi, sono responsabili del crollo di investimenti e
produttività. Loro, e non le “mancate riforme”.
Storm non è voce
completamente isolata. Lo scorso anno David Folkerts-Landau, capo economista
della Deutsche Bank scrisse che “contrariamente a un diffuso pregiudizio,
l’Italia è stato un Paese frugale”. Si potrà però dire che non sia sempre stato
così. Nel 1979 l’Italia aderì al Sistema monetario europeo, un sistema di cambi
fissi, con l’idea di abbattere il modello inflazione-svalutazione che,
sostanzialmente, accomodava un’elevata conflittualità sindacale. Un mio paper
con Gennaro Zezza (si cerchi “Farsi male da soli”) mostra che la perdita di
competitività esterna che ne conseguì si riverberò negativamente sul debito
pubblico: direttamente perché mortificò domanda per i prodotti italiani e
quindi reddito ed entrate fiscali; indirettamente a causa degli alti tassi di
interesse che cominciammo a pagare per attirare i capitali necessari a
finanziare i disavanzi esterni. Per evitare la crescita del debito i governi
avrebbero dovuto contrarre la spesa, ma ciò avrebbe ulteriormente depresso la crescita.
Il famigerato CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) non lo fece, e lasciò crescere il
debito purché la barca continuasse ad andare, come si espresse Craxi. Come ha
scritto Stiglitz, la ricerca della disciplina esterna può condurre a disavanzi esteri
e successivamente a disavanzi fiscali per difendere l’occupazione.
Con l’euro
si è stati più coerenti abbattendo, almeno all’inizio, il debito e sacrificando
la crescita. Attualmente siamo nel peggiore dei due mondi. La lezione è che gli
autoimposti “vincoli esteri” conducono al disastro e che il paese dovrebbe
imparare a regolarsi da solo. Tuttavia, oggi come ieri non lo sa fare.
Ma c’è comunque
qualcosa di concreto che si potrebbe proporre?
Folkerts-Landau
riprende una proposta che da tempo è stata avanzata in Italia: un patto fra
Italia ed Europa volto a una drastica riduzione dei tassi di interesse sul
debito pubblico italiano (saliti nell’ultimo anno a livelli ingiustificati) in
cambio della stabilizzazione del rapporto debito/PIL. Con tassi bassi, diciamo
al livello francese, i risparmi di spesa consentirebbero politiche di disavanzi primari e un po’ di crescita, pur
stabilizzando quel rapporto (per il quale non c’è un numero magico). Le forme
istituzionali del patto andrebbero definite, ma non vediamo altra via d’uscita
da questa pena senza fine.
"...il paese dovrebbe imparare a regolarsi da solo. Tuttavia, oggi come ieri non lo sa fare. "
RispondiEliminaPerché l' italia non sarebbe in grado di regolarsi da sola ?
Gli altri stati europei invece sì ?
Grazie
Un patto. E se ci dicono di no?
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