lunedì 13 maggio 2019

Un giudizio globale

Pubblichiamo intervista apparsa su Osservatorio globalizzazione



Professor Sergio Cesaratto, ordinario nel Dipartimento di Economia Politica e statistica dell’Università degli Studi di Siena, da sempre economista eterodosso e ormai punto di riferimento della divulgazione dell’economia classica in Italia. Ha recentemente pubblicato due importanti libri che hanno avuto molto successo: Chi non rispetta le regole? del 2018 e Sei lezioni di Economia del 2016, dimostrandosi ancora una volta come importante voce critica della sinistra e dei processi di involuzione che la stanno attraversando.

OG: Ormai a quasi trent’anni dall’inizio del processo di globalizzazione in senso neoliberale, possiamo provare a tracciarne un bilancio, lei cosa ne pensa?

SC: Per molti versi il processo di globalizzazione era ineludibile con l’entrata nel capitalismo e nel mercato mondiale di molti Paesi che erano un tempo chiamati del Terzo Mondo. L’espansione dell’esercito industriale di riserva anche attraverso la delocalizzazione delle produzioni in quei Paesi, ha tuttavia comportato l’indebolimento del movimento operaio e delle conquiste nei Paesi di più antica industrializzazione. Quindi il bilancio per noi è negativo sul piano dei diritti sociali.  Simmetricamente all’esplosione della globalizzazione vi è stato il crollo del modello socialista. Questo, forse più della globalizzazione, ha fatto crollare l’idea stessa di una alternativa al capitalismo - in un certo senso la traiettoria cinese del capitalismo guidato dallo Stato, esperienza peraltro non nuova, può essere vista anche in questa luce. La crisi verticale della sinistra è tutta qui. Senza un modello socio-economico alternativo, rimangono solo le utopie, le belle parole, i diritti civili, mentre le masse popolari guardano altrove, purtroppo a destra. E questo è naturalmente paradossale, perché a destra non c’è nessuna vera alternativa, anzi.


OG: L’Italia in particolare ha saputo sfruttare o si è fatta sfruttare dal processo di globalizzazione?

SC: L’Italia è in primo luogo vittima di sé stessa, dei suoi vizi storici (più accentuati in una parte del Paese, naturalmente): l’idea che l’obiettivo del settore privato sia di fregare il prossimo, e quello di chi lavora nel pubblico di fregare lo Stato (cioè la comunità). Con questa mentalità non si arriva lontano. Nel dopoguerra una parte del Paese riuscì a trascinarlo verso i Paesi più avanzati. Il miracolo economico fallì negli anni sessanta dello scorso secolo quando la mediocrissima borghesia italiana non riuscì né a regolare il conflitto sociale in senso progressista, né a far compiere all’industria manifatturiera il salto tecnologico già allora necessario (e forse allora possibile): dalle lavatrici all’elettronica e così via. Oggi il Paese è maledettamente indietro a fronte dell’incalzare dei Paesi emergenti. Mi fa sorridere quando l’attuale Presidente del Consiglio va in Cina a perorare la causa delle arance siciliane. Purtroppo non si comprende che la priorità sono la scienza e la tecnologia, sostenere la ricerca e i giovani ricercatori. Non i soldi a pioggia o i pensionamenti anticipati in lavori non usuranti.

OG: Quali sono ad oggi gli strumenti che l’Italia o uno stato in generale, può mettere in pratica per sanare le storture legate alla globalizzazione?

L’abbiamo appena detto: scienza e tecnologia, e politiche industriali che vedano il settore pubblico protagonista - in fondo quello che fanno i nostri concorrenti cinesi, ma anche i tedeschi e i francesi. Ma l’Europa vieta l’intervento pubblico, e prende da noi più quattrini per la ricerca di quanti ce ne restituisca!

OG: Il processo di integrazione europea rientra, secondo lei, nel più generale processo di globalizzazione?

SC: E’ così. Un qualche intellettuale francese disse due o tre decenni fa che il Europa il termine liberismo era impopolare, e fu sostituito dalla parola Europa. Lo smantellamento degli Stati nazionali culminato con la cessione della sovranità monetaria è parte di un processo di svuotamento delle democrazie nazionali. Senza più le leve monetarie, fiscali e del cambio che si va a votare a fare? Certo si vota sui diritti civili, sacrosanti. Ma anche quelli saranno smantellati una volta che lo scontento popolare si sarà rivolto a destra, come sta accadendo anche da noi. La sinistra è cieca, affogata nel suo brodo di cosmopolitismo e melensi buoni sentimenti. Incapace come non mai di pensare con concretezza. Oltre alla commozione di cantare Bella ciao c’è il nulla. I giovani le sono, in particolare, lontani. Certo che è difficile dirsi cosa fare. L’Europa monetaria è nata come gabbia, e questo si rivela. Però non si può non partire dal dirsi le cose come stanno. E, purtroppo, un’Europa diversa non è possibile per la costituzione economica del Paese dominante, la Germania, un Paese strutturalmente mercantilista, e non cooperativo.

OG: Professor Cesaratto, lei che proviene direttamente dal filone di quella che possiamo chiamare la critica costruttiva Sraffiana, qual è ad oggi lo stato del dibattito sulla figura di Sraffa?

SC: Purtroppo in una fase per la sinistra e i movimenti che sarebbe ottimistico definire di ritirata, anche lo stimolo per i giovani a percorrere indirizzi alternativi, e gli spazi nelle università per farlo, si sono molto ristretti. L’opinione che ho dei giovani economisti è molto dura. Crede che la cesura fra la mia generazione e quelle attuali sia nella condivisione del marxismo (grosso modo, senza dover essere dottrinari). Se non si condivide un minimo la critica marxista del capitalismo, l’analisi marxista della storia e via dicendo, ripeto senza chiusure mentali, non si è capito e non si potrà capire nulla del mondo. Ma il marxismo credo sia ormai fuori dal vocabolario dei giovani, un relitto del barbaro novecento. Ma Marx è uno dei padri del pensiero critico, primus inter pares. E a Marx ci si dovrebbe avvicinare come fece Sraffa, con senso critico. E’ curioso, ma Sraffa negli anni venti era scettico della teoria del valore-lavoro di Marx, teoria sulla quale Marx basava la teoria dello sfruttamento, - la teoria per cui i profitti derivano dallo sfruttamento. L’idea che il valore delle merci dipendesse dal lavoro impiegato a produrle era guardato con sospetto da Sraffa, aveva un odore troppo etico (religioso, arriverei a dire). Col tempo Sraffa si avvide, tuttavia, come in Marx e nel marxismo quella teoria svolgesse la funzione di difendere l’approccio classico, e peraltro Marx ne aveva anche indicato il superamento (quella teoria aveva infatti dei problemi analitici di cui Marx e Ricardo si avvidero).
Tornando al quesito. Nonostante che nella professione economica non valga più un principio di pluralismo e prevalgano teorie volgarissime importate soprattutto dagli Stati Uniti, scuola di conformismo per i Ph.D. nostrani, la scuola Sraffiana ha continuato a fare passi in avanti. Per esempio nella teoria post-Keynesiana della crescita un modello proposto dagli economisti sraffiani, detto del “supermoltiplicatore” sta guadagnando posizione nell’ambito della teoria eterodossa e si sta affermando come “il modello” post-Keynesiano. Certo forze nuove occorrerebbero. Per fortuna ci sono giovani dalla schiena dritta che scelgono percorsi non convenzionali, però è difficile offrir loro prospettive. Li ammiro molto.

OG: Per quanto riguarda invece la ricerca teorica, qual è lo stato della ricerca dei principali filoni di cui si occupa l’economia classica?

SC: Della teoria della crescita ho già accennato. Gli avanzamenti su quel fronte sono molto importanti e hanno condotto a studi empirici sui modelli concreti di crescita condotti dai più giovani. Credo che vi siano anche importanti convergenze da sfruttare con la teoria Post-Keynesiana della “moneta endogena”, un cavallo di battaglia eterodosso che è però condiviso anche nelle banche centrali. La teoria del capitale ha necessariamente ancora un ruolo centrale nella ricerca sraffiana, e la critica in merito non può certo dirsi conclusa. E’ un terreno analitico molto complicato, per cui attira poco data la logica dominante del “publish or perish”. I giovani mainstream neppure vi si cimentano, i loro solo scopo sono modellini da testare su banche dati e pubblicare in fretta. Personalmente mi sono recentemente occupato di antropologia economica. Mi incuriosì, infatti, il ruolo che Jared Diamond nel suo famoso libro attribuiva al concetto di sovrappiù. Ho scoperto che, da un lato, molti antropologi e archeologi impiegano questo concetto, ma che, dall’altro lato, Karl Polanyi lo rifiutò, privando così i suoi spunti teorici di una solida base.

OG: A livello divulgativo, lei vede un progressivo ritorno in auge dell’economia classica? Anche forse in seguito ai disastri della crisi del 2008 e le relative soluzioni proposte dall’economia ortodossa?

SC: Purtroppo non in accademia. Libri divulgativi come le mie Sei lezioni hanno tuttavia attirato curiosità di studenti e lettori, spesso giovani. Questo è importante. Certo è sorprendente quanto poco la crisi economica abbia scalfito l’analisi mainstream. Credo che questo dipenda da quanto ci siamo detti sopra: la fine dell’alternativa socialista ha indebolito la prospettiva di un capitalismo regolato e basato sull’economia mista (pubblico e privato), come la si definiva un tempo. Di qui la scomparsa di una vera sinistra. Questo non si può che riflettere sulla produzione intellettuale, dove si ha una sorta di horror vacui di fronte all’idea di abbandonare la centralità del mercato. Ciò non di meno molte cose interessanti sono spuntate, quasi giornalmente vorrei dire, che hanno demolito la montagna di menzogne su cui sono per esempio costruite le politiche economiche europee. Mi piacerebbe segnalare che le Sei lezioni usciranno in edizione riveduta al principio dell’autunno (con un nuovo editore dopo la sciagurata chiusura del precedente). Nel frattempo sono uscite in lingua spagnola e lo saranno in inglese.

OG: Professore, lei a lungo si è occupato di sistemi pensionistici, tema scottante da diversi anni in Italia, come valuta prima la riforma Fornero del 2012 e poi l’ultima reintroduzione di Quota 100?

SC: L’errore che si compie spesso è di non guardare al sistema pensionistico nell’ambito del più generale sistema economico. I pensionati sono per definizione sostenuti dai lavoratori attivi, per cui i due ambiti, sistema pensionistico e sistema produttivo vanno considerati assieme. Se i sistema produttivo cresce, in particolare la produttività cresce, gli attivi possono sostenete pensioni più generose, o pensionamenti anticipati. Se il sistema produttivo langue questo diventa più difficile. I quattrini di quota 100 li avrei destinati alla ricerca e all’università

OG: Secondo i suoi studi, quali modifiche dovrebbero essere apportate al sistema pensionistico italiano, per garantire una continuità intergenerazionale?

SC: Ho risposto sopra. La risposta è nel far ripartire la macchina produttiva. Il problema del sistema pensionistico italiano, da sempre, è la ristretta base occupazionale – la quota di popolazione in età lavorativa effettivamente occupata è in Italia molto bassa. Questo vuol dire contributi molto alti per i lavoratori e, spesso, pensioni basse.  Questo è un problema a tutt’oggi di natura economica, e non demografica. Abbiamo milioni di giovani disoccupati o sotto-occupati, altro che insostenibilità demografica delle pensioni. Si deve estendere la base occupazionale e far ripartire la produttività. Ma questo ci rimanda alla necessità di far ripartire la domanda interna in Italia nel quadro di politiche europee più espansive.

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