Pubblichiamo la traccia delle considerazioni che ho presentato in occasione di NOEURO,
International Forum - Chianciano 16-18 settembre 2016
Considerazioni su obiettivi e contenuti della
battaglia sull’Euro/pa
Sergio Cesaratto
Ogni volta che
devo intervenire a un convegno politico sull’Euro/pa mi prende un po’ di ansia.
Cosa dire di nuovo, che non ci siamo già detti. E che fare? Sia disegnare vie
d’uscita dal presente, che delineare il futuro, sono compiti impervi.
All’interno della crisi europea, inoltre, il nostro paese vive una crisi
verticale che viene da lontano. Su questo ho scritto in una delle lezioni del
mio libro: la scelta delle classi dirigenti di questo paese, con poche
eccezioni, è stato di scontro con le istanze popolari, da ultimo attraverso il
vincolo estero, prima dello SME e poi dell’euro. Il paese nel suo complesso ha
pagato duramente tale incapacità a governare in maniera progressiva il
conflitto sociale. Oggi il paese è impoverito sotto ogni punto di vista,
materialmente, culturalmente, tecnologicamente, ed è privo di classi dirigenti
oneste e capaci a quasi ogni livello.
Il dibattito ha
tuttavia fatto emergere in questi giorni alcuni temi su cui esercitare un
nostro sforzo di analisi.
Quale strategia di superamento dell’euro? Quali
slogan convincenti da proporre?
Mi riferisco
soprattutto allo scambio Varoufakis-Fassina (qui, qui, e qui). Da un lato la
strategia proposta dall’ex ministro greco è che un governo progressista
dovrebbe farsi cacciare disubbidendo ai Trattati europei. Qui bisogna
stare attenti. I Trattati fiscali sono assolutamente coerenti con la moneta
unica: paesi senza una propria banca centrale hanno necessariamente vincoli di
bilancio (è così per esempio per ciascuno degli Stati che compongono gli USA,
dove però a compensazione c’è un governo federale con un cospicuo bilancio e
una banca centrale cooperativa). Fassina coglie in un qualche modo il punto: “La strategia di «disobbedienza ostinata», sebbene molto difficile, può
essere [solo] efficace in un paese europeo che ancora dispone della sua moneta
e della sua banca centrale.” Certo, si può ricorrere a escamotages come quello
di emettere una moneta nazionale “parallela” come proposto anche in Italia. Ma
si tratta, con tutto il rispetto per i proponenti, di sotterfugi dalle gambe
corte. Quindi violare i Trattati implica la rimessa in discussione di tutto
l’impianto europeo. Mission impossible per
qualunque singolo Stato (o persino coalizione di Stati).
Alla proposta di Varoufakis, Fassina propone una strategia di separazione
consensuale dell’unione monetaria salvando l’UE. In tal modo si eviterebbero ritorsioni del
resto dell’Europa, come accadrebbe a paesi che sfidassero l’Europa venendo
espulsi. La salvaguardia dell’UE svolgerebbe anche una funzione protettiva da
accuse di anti-europeismo o nazionalismo. In questo si dimentica che anche l’UE
è creatura liberista.
Nella sua
replica Varoufakis ha avuto gioco facile nel mostrare a Fassina che il solo
accenno a una trattativa su una separazione consensuale porterebbe al caos
finanziario. Referendum o trattative proprio non si possono fare, i mercati non
lo consentirebbero. Per difendere l’idea che da ultimi si può reagire
positivamente a una espulsione, è interessante che Varoufakis dichiari che egli
era pronto a rompere con la Troika nel luglio 2015 ed essere espulso avendo già
predisposto un piano X – sebbene fiducioso che dietro una minaccia credibile
(come si usa dire in teoria del giochi di cui l’ex ministro è esperto), la
Troika avrebbe alla fine accettato un memorandum più ragionevole. Lui sarebbe
comunque rimasto “imperturbabile”, accettando l’espulsione, se le “istituzioni”
non avessero accondisceso. Il governo greco sarebbe però stato diviso in merito
e non giocò la carta della minaccia credibile [Qui ci sarebbe da ricordare che
le proposte più ragionevoli che Varoufakis avrebbe accettato sulla carta non
sono diverse da quelle nei fatti adottate in pratica - e simili a quelle
perorate dal FMI, l’attore più “umano” della Troika. Le richieste siglate da
Tsipras erano così assurde da non poter essere implementate alla lettera sicché
le istituzioni si dovranno alla fine accontentare che la Grecia ne attui solo
una parte; la storia è simile a quella della riduzione del debito pubblico al
60% del Pil in 20 anni in ciascun paese europeo: così assurda che nessuno vi ha
posto mano; ciò non toglie che la morsa dell’austerità non sia continuata.
Insomma, Varoufakis avrebbe comunque accettato un pacchetto killer. Sarebbe tuttavia
utile a tutti conoscerlo questo Piano X! ]
Dunque superamento
consensuale no; violazione dei Trattati neppure; fuori dall’euro: forse non
troppo popolare. Che proporre allora? Non blocchiamoci su questo. Noi sappiamo
come un’area valutaria potrebbe funzionare meglio e perché è però impossibile
che l’Europa muti in questa direzione - principalmente per l’opposizione
tedesca a dismettere il mercantilismo ma anche, giustificatamente, perché quel
popolo non vuole essere obbligato a una solidarietà fiscale verso altri popoli.
Sappiamo che l’euro è il principale ostacolo (sebbene non l’unico) a politiche
di piena occupazione, e che l’UE impone politiche liberiste (per esempio
impedisce politiche industriali di intervento pubblico diretto). Abbiamo
proposte per un’Europa post-euro (e forse post-UE) - per esempio applicare le
idee di Keynes per un nuovo ordine monetario europeo. Insomma abbiamo molte
proposte “illuminate” da contrapporre a chi ci tratta da populisti. Populisti
saranno loro col loro mantra delle riforme strutturali e il fallimento delle
loro politiche![1]
Alla gente e a quel poco di “movimenti” che esistono dobbiamo indicare euro ed
Europa come strumenti di smantellamento di occupazione e diritti sociali. In
questo la sinistra si deve riproporre come portatrice del diritto a lavoro,
salute e istruzione per tutti e a tutti i costi.
Noi non sappiamo
quale scenario si prospetta: una tempesta perfetta con crollo dell’euro in
seguito a un evento fatale come una Presidente Le Pen che fa la dura, o un
crisi bancaria italiana che faccia scendere in piazza i risparmiatori?
Quello che è
chiaro è che al di là delle elucubrazioni internazionaliste di Varoufakis e di
qualche sciagurato nostro conterraneo, la sinistra di ciascun paese, mai
andasse al governo, dovrà essere pronta ad affidarsi solo alle proprie forze, a
meno dell’apertura di inattesi scenari keynesiani internazionali (potrebbero
aprirsi sulle rovine di una caduta dell’euro, chissà?). Si tratta di attuare
un’economia dei controlli su merci e capitali, quasi un’economia di guerra, e
in un paese solo, e in questo non stiamo reinventando niente che si sapesse (se
lo si voleva sapere). Vorrei solo aggiungere che la situazione è ancor più
difficile di 40 anni fa quando la sinistra laburista perorava l’economia dei
controlli: allora c’erano i paesi socialisti e paesi in via di sviluppo
progressisti con cui rapportarsi, attualmente è più complesso. Oggi un paese
progressista è solo di fronte a un capitalismo globale selvaggio. Non so se
tutto questo possa avere un seguito popolare. Certo odora molto di elementi di
socialismo (per giunta in un paese solo!). E ciò vuol dire che sull’economia
dei controlli pesa la tara storica della sconfitta del socialismo reale. Una
buona ragione per raccogliere la sfida e pensarci meglio su.
L’idea che
l’obiettivo della piena occupazione e della giustizia sociale non possano fare
affidamento su contesti internazionali favorevoli e addirittura solidali ci
porta all’altra vexata quaestio di quale internazionalismo.
Quale internazionalismo?
Varoufakis
attacca Lexit e quanti a sinistra ritengono che la battaglia cominci dal (sebbene
non si risolva completamente nel) proprio paese e che, come ben sanno i popoli
dei paesi nordici, lo spazio democratico coincide, almeno in questa fase
storica, con quello dello Stato-nazione, mentre le strutture sovranazionali
hanno fondamentalmente una funzione reazionaria. Per Varoufakis ci si deve
affidare a un internazionalismo inteso come un continuum fra le lotte ai
diversi livelli di governo (municipale, nazionale, sovranazionale)
indipendentemente dallo Stato nazionale entro cui si svolgono.
Come ha
sostenuto Lee Jones su Jacobin (la
rivista dove si è svolto il dibattito) un ottimo critico di Varoufakis (qui): Varoufakis “ignora
il fatto che il solo ‘demos’ reale che attualmente esiste risiede a livello
domestico [nazionale] … a parte una piccolo cosmopolitismo … popolare fra le
élite metropolitane, la vasta maggioranza degli europei rimane primariamente
attaccata e interessata nella politica democratica nazionale”.
Chi usa un
linguaggio a dir poco saccente a proposito di chi rivendica lo Stato nazionale
come terreno irrinunciabile di esercizio della lotta democratica, potrebbe
utilmente rileggersi i saggi di uno dei maestri dell’economia eterodossa, Massimo
Pivetti:
“Il
lavoro dipendente può considerarsi come il soggetto collettivo maggiormente
interessato alla sovranità dello
Stato-nazione, condizione necessaria tanto della sovranità popolare che
della tutela effettiva degli interessi del lavoro dipendente. La sua
forza relativa all’interno di una nazione ed il quantum
di sovranità della stessa in campo economico sono
direttamente correlati e tendono ad interagire: una perdita di sovranità
nazionale tende a provocare una riduzione della forza relativa del lavoro
dipendente, che, a sua volta, tende a tradursi in un’ulteriore perdita di
sovranità.”
E così si esprimeva Bob
Rowthorn, uno dei principali esponenti post-Keynesiani di Cambridge e fautore
della Alternative Economic Strategy:
“La crisi che
colpisce milioni di cittadini britannici è ora su di noi. Se la sinistra
intende sfruttare questa situazione, essa deve adottare un programma che offra
alla gente qualche speranza, e deve dunque ragionare in termini di qualcosa di
più pratico della rivoluzione europea o mondiale. Coloro che attaccano una strategia
nazionale per il socialismo in Gran Bretagna come destinata al fallimento e si
appellano a una rivoluzione europea o mondiale possono sembrare molto
rivoluzionari. Ma nei fatti la loro è la dottrina della disperazione, e per
quanto molte delle loro opinioni possano ispirare una piccola avanguardia di
simpatizzanti, essi non possono che ispirare demoralizzazione fra le masse di
lavoratori a cui non offrono niente” (Citato in Sei lezioni, p. 182; si
veda anche la discussione qui).
[Ça va sans dire che le proposte di controllo
dei movimenti di capitale e delle merci di Pivetti e Rowthorn sono note da
decenni e da loro le abbiamo apprese, come ho sempre ampiamente precisato nei
miei scritti - ma questa è una delicatezza un po’ passé].
Estrapolare
citazioni dal loro contesto è sempre rischioso, ma è pur sempre Marx che nella Critica al Programma di Gotha scrive
limpidamente che:
“S'intende da
sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve
organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l'interno di ogni paese è il campo immediato
della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice
il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma ‘per la forma’” (Marx
1975, mio corsivo, si veda anche qui).[2]
La posizione di
Varoufakis e dei suoi accoliti nostrali al riguardo è dunque estremamente
debole e impregnata di ideologismo. Qui non si tratta di difendere il concetto
di Nazione come un valore in sé o negare l’aspirazione alla fratellanza fra i
popoli o le classi lavoratrici. Il problema è se è una strategia plausibile
quella che propone l’arena europea come terreno di possibile scontro fra forze
popolari e borghesia, oppure se già sarebbe molto se questo scontro riprendesse
nei singoli paesi con l’obiettivo di ripristinare condizioni di controllo
democratico sulle leve monetarie e fiscali dell’economia. L'unica strategia
possibile è attualmente che intanto in ciascun paese ciascun popolo si batta
per riappropriarsi della propria democrazia, altro che nazionalismo! Come ben
commenta Lee Jones: “Varoufakis meramente respinge questo in maniera retorica,
in favore di un internazionalismo sinistrese ottocentesco. Tuttavia il
meccanismo per realizzare questa solidarietà internazionale è una lotta da
svolgersi a diversi livelli cosicché i governi – i governi nazionali – diventano capaci di resistere ai dicktat dell’UE. Varoufakis
perciò, ha bisogno e detesta lo Stato nazionale e i “national publics”,[3]
rifugiandosi così nella fantasia del ‘repubblicanesimo transnazionale’” (qui, corsivo nell’originale).
Fassina ha dunque
ragione quando argomenta che Varoufakis ha una visione ingenua, ma diffusa a
sinistra, per cui la lotta in Europa è fra l’insieme dei popoli e l’insieme
delle grandi banche; nei fatti, invece, paesi come la Germania vedono una connivenza
fra capitale nazionale e grandi sindacati (se volete chiosate “purtroppo”, a me
interessano i fatti non il moralismo di sinistra) nel sostenere politiche
mercantiliste, ricorda opportunamente Fassina. O vogliamo parlare del
perseguimento di interessi nazionali nella politica estera e commerciale dei
singoli grandi Stati europei? Quello che non va bene in Fassina è invece
l’attestarsi sulla difesa della UE per accreditarsi come europeista (e perciò
internazionalista), dimenticando che anche l’UE è creatura liberista (per non
parlare della sua politica estera, quando ve n’è una, come nel caso del
sostegno ai nazisti ucraini).
Quindi io direi
che le accuse che ci vengono mosse vanno rispedite alla fonte con gli interessi
di velleitarismo politico, di ideologismo, di disinteresse per le condizioni
materiali delle grandi masse. Dobbiamo però stare attenti alle parole che
usiamo, non utilizzare le medesime della destra (come sovranismo). E
naturalmente non contaminarci con la destra. Ciò detto, ci sono anche elementi
in comune con Varoufakis, in particolare l’irriformabilità dell’Europa attuale.
Siccome dobbiamo fare politica e unire le forze, bene non rompiamo i ponti con
lui e i movimenti che anche in Italia guardano a lui.
Polany moment
Il voto popolare
per la Brexit o i consenso di Sanders (ma anche quello di Trump) sono stati
accostati a quello che il famoso antropologo ungherese Karl Polany definiva
come “doppio movimento”. Come sapete Polany riteneva l’economia di mercato come
una violazione della vita comunitaria, e quando l’invadenza del libero mercato
si fa troppo pressante, la società reagirebbe domandando protezione contro gli
effetti più devastanti del mercato, per esempio attraverso le istituzioni dello
stato sociale. Ma, Polany riteneva, anche attraverso il fascismo. E infatti
notate come molti movimenti di destra si pongano oggi come paladini dello stato
sociale e dell’occupazione, almeno per gli autoctoni (laddove questi ultimi
percepiscono gli immigrati come un aspetto dello smantellamento delle
protezioni conquistate nel secolo scorso). Non so quanto le tesi di Polany siano
scientificamente comprovate, ma certo la nostra percezione è che la distruzione
in corso delle garanzie “dalla culla alla tomba” offerte dallo stato sociale e
dal pieno impiego sia una violazione di principi basilari di umanità. Unione
europea ed euro sono veicoli, armi di questa distruzione di massa. Persino a
“lor signori” è chiaro che quello che viene chiamato populismo è un ya basta! a
questa violazione continua dei diritti più elementari, lavoro, salute,
istruzione (e democrazia costituzionale). Noi siamo parte di questo movimento
di reazione.
Addendum
Del prof.
Massimo Pivetti, uno dei maggiori economisti eterodossi del mondo, si veda:
Pivetti, M. 1998. Monetary versus political unification in Europe. On
Maastricht as an exercise in ‘vulgar’ political economy, Review of Political Economy, Vol. 10, no. 1, 5-26.
Pivetti, M. 2011, Le
strategie dell’integrazione europea e il
loro impatto sull'Italia, in Un’altra
Italia in un’altra Europa – Mercato e interesse nazionale, L.Paggi (ed),
Firenze, Carocci.
Pivetti, M. 2013a. On the gloomy European project: an introduction, Contributions to Political Economy, vol.
32, 1-10
E a giorni: A.Barba & M.Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, in
uscita con Imprimatur, di cui parleremo a lungo. Ampi stralci delle sue tesi sono richiamati in
S.Cesaratto, Alternative interpretations of a stateless currency crisis, Cambridge Journal of Economics (in corso di pubblicazione).
[1] Riconosco che nel convegno alcune relazioni hanno dato un’accezione
positiva al termine populismo, se inteso come intransigente difesa dei diritti
sociali di grandi masse popolari.
[2] Marx, K., Critica del Programma di Gotha, 1875, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
[3] “National
publics” è così definito da Wikipedia: “Publics are small groups of people who follow one
or more particular issue very closely. They are well informed about the
issue(s) and also have a very strong opinion on it/them.”
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