lunedì 21 maggio 2018

"La Città futura" sul nuovo libro

L’ombrello dell’Europa

 Recensione di Ascanio Bernardeschi al mio libro pubblicata da La Città futura. Mi sembra che Ascanio critichi il libro per l'assenza di quello che ne è invece il cuore: alla base della scelta scellerata dell'importazione della disciplina dall'esterno v'è un conflitto di classe irrisolto. Dissentiamo naturalmente su come il conflitto vada (o poteva essere) risolto: attraverso un compromesso socialdemocratico a mio avviso, con la fuoriuscita dal capitalismo secondo lui. Per il resto, una bella recensione.

L’ombrello dell’Europa

Nel libro di Cesaratto si denuncia la politica di dumping sociale e di mercantilismo della Germania, ma manca la critica del capitalismo.



Mark Twain molti anni fa disse che le banche sono come colui che ti presta l’ombrello quando non piove e lo rivuole indietro quando piove. Non poteva prevedere che invece le banche americane, anni dopo, preparando la crisi dei mutui subprime, avrebbero prestato fin troppo, scommettendo su un andamento continuamente favorevole del mercato immobiliare e andando a gambe all’aria con lo scoppio di questa bolla speculativa.

Questa gustosa battuta ci è venuta in mente quando ho letto un passo dell’ultima fatica di Sergio Cesaratto [1]. Alle pagg. 85-6, infatti, esaminando la proposta di riforma dell’euro del Presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, tendente a demandare al mercato, e all’incubo di una aumento dei tassi del debito pubblico, il controllo del rigore fiscale dei vari paesi dell’eurozona, Cesaratto definisce questa prospettiva “equilibrio del terrore” che “destabilizzerà (più che stabilizzare) il mercato dei titoli italiani”, mentre i paesi virtuosi – in realtà ugualmente inadempienti delle regole dell’Euro in quanto registrano un surplus eccedente il 6% del Pil – quale la Germania, potranno avvalersi in maniera incondizionata del meccanismo europeo di stabilità (Esm) e ricorrere ai tassi vantaggiosi dell’apposito fondo salva stati. “L’Europa c’è, quindi, quando ve n’è meno bisogno”, rileva amaramente l’Autore.
Ma andiamo per ordine. L’agile libro si propone di dimostrare, riuscendoci ampiamente, che la Germania, per motivi opposti a quello dell’Italia e dei paesi mediterranei dell’Europa, non ha rispettato le regole di Maastricht, in quanto ha adottato una politica di dumping sociale che le ha permesso costanti ed eccessivi avanzi delle partite correnti con l’estero. Tuttavia, per una sorta di doppia morale tipica dei più forti, sul banco degli imputati vengono messi paesi in deficit, senza considerare che necessariamente l’avanzo di un paese trova riscontro nel deficit di altri. Il moralismo secondo cui il debito è una colpa fa molto comodo al paese che a causa del suo mercantilismo monetario è permanentemente creditore (p. 71).
Nell’appendice al primo capitolo si mostra inoltre, in termini semplici, come i saldi negativi con l’estero siano necessariamente associati a saldi negativi del bilancio pubblico e viceversa, come a dire che il dumping sociale della Germania, oltre che i meccanismi di Maastricht, ha una parte importante di responsabilità dei dissesti della finanza pubblica di altri Stati e dell’Italia in particolare.
Istruttiva è la preliminare analisi delle regole importate dall’Italia a seguito dell’adesione del Trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione Europea e della moneta unica. Riferisce l’autore che Guido Carli, presente alla firma dell’atto, pare abbia sostenuto in privato che nessuno si rendesse veramente conto degli effetti del Trattato sull’Italia; per esempio – queste invece sono parole autentiche di Carli – che si andava verso lo “Stato minimo, l’abbandono della programmazione economica” la restrizione del potere dei parlamenti, la “riforma della sanità e del sistema previdenziale, l’abolizione della scala mobile, […] l’abolizione dei “prezzi amministrati”, cioè “un nuovo patto fra Stato e cittadini” [pp. 23-24].
Cesaratto rileva inoltre, amaramente, come il “far cassa per risanare i conti pubblici” avrebbe in pochi anni portato a “distruggere l’industria pubblica italiana”, ma anche “la grande industria” tout court e a determinare avanzi primari del bilancio pubblico. Cioè, esclusa la gravosa spesa per interessi, più entrate che spese, dando quindi ai cittadini di meno di quanto il fisco preleva dalle loro tasche. Potremmo aggiungere noi che l’iniquo sistema fiscale italiano fa pesare questa zavorra soprattutto sulle classi lavoratrici.
Le affermazioni, su questo argomento come sui successivi sono supportate sia da precisi dati che da ricchi riferimenti, pur nella snellezza del libro, alla produzione letteraria degli economisti di tutto il mondo. Keynes fa la parte del leone, visto che in circostanze molto simili all’attuale si era pronunciato per rapporti internazionali più equi. E difatti l’autore si professa esplicitamente keynesiano e anzi, non “keynesiano della terra di mezzo”, cioè la posizione di coloro che considerano Keynes utile per intervenire nel breve periodo e non nel medio e lungo, ma “keynesista genuino”, cioè per lui Keynes è valido anche nel medio periodo. Particolare attenzione critica è rivolta alla letteratura tedesca che prevalentemente difende le tesi pro-euro e sostiene un processo di modifica del Trattato che peggiorerà le cose per i paesi economicamente meno forti. Su questo punto l’Autore è drastico: gli economisti tedeschi sono “patrioti e non scienziati” e gli europeisti italiani non lo hanno capito.
Se la Germania ha scelto di accumulare avanzi con l’estero, cioè di vivere al di sotto delle proprie possibilità, violando le regole del gioco, allora qualcun altro deve vivere al di sopra e accumulare disavanzi. Al contrario, in un sistema di cambi fissi o di moneta unica, la regola sarebbe che i paesi in avanzo debbano effettuare politiche riequilibratrici, sostenendo la domanda interna. Qui sta la doppia morale che vede solo la responsabilità dei paesi debitori.
Anche la banca centrale tedesca, minacciando “di generare disoccupazione attraverso politiche restrittive” ha indotto i sindacati dei lavoratori ad assecondare la moderazione salariale. Da qui la sottolineatura di Cesaratto del ruolo funzionale al dumping sociale dell’indipendenza delle banche centrali dai governi, invocata nei manuali di economia alla moda.
Altra questione dipanata sapientemente è quella del salvataggio dei paesi debitori, che in realtà ha salvato le banche estere creditrici, prime fra tutte quelle tedesche, che non sono state sufficientemente monitorate quando si sono trovate sull’orlo del fallimento. Per esempio il costo del salvataggio della Grecia, è stato per l’economia tedesca molto meno oneroso rispetto ai benefici che ne ha tratto e che ormai resterebbero tali perfino nel caso di default del paese balcanico.
I tentativi di Macron (caso di keynesismo della terra di mezzo) di allentare queste rigidità sono stati respinti dalla Germania e qui si ritorna alle proposte di Schäuble che peggioreranno la situazione, con un fondo di stabilizzazione del ciclo esiguo e gestito con regole penalizzanti. Vi potranno accedere solo i paesi che si attengono alle regole, l’ombrello quando non piove, appunto!
Molti altri sono i punti toccati, ma ci siamo limitati ad accennare a quelli che secondo noi sono più significativi. Si tratta quindi di un libro molto utile per le informazioni che fornisce e anche per la maggior parte delle considerazioni dell’autore, decisamente schierato contro le regole di questa Unione Europea e che consiglia non solo di “spedire al mittente” le proposte di Schäuble, ma anche di recuperare la possibilità di rilanciare una politica economica e industriale, cosa impossibile all’interno di queste regole.
Veniamo invece agli aspetti che, secondo noi, mostrano dei limiti. Essi sono diretta conseguenza del keynesismo genuino di Cesaratto, che si adopera per dimostrare gli errori degli economisti liberisti, quasi come se le politiche fin qui seguite fossero frutto di errori analitici, oltre che dell’egoismo della Germania. Quasi come se, anche di fronte all’evidenza di una crisi che tormenta l’Europa più degli altri continenti, i nostri governanti e i loro consiglieri siano così dabbene da non accorgersi del carattere recessivo e destabilizzante dei tali politiche.
Ci pare sia sottovalutata la circostanza che l’austerità sia stata funzionale a una restaurazione del dominio assoluto del capitale, smantellando quel poco di welfare e di tutele dei lavoratori che stavano divenendo incompatibili con un saggio del profitto declinante. Da qui la necessità di misure di attenuazione di questa tendenza, quali in effetti sono le misure pro-recessione. Le politiche Usa, dall’Autore contrapposte a quelle europee, non sono più corrette in virtù di una maggiore sapienza analitica. Esse non mettono in discussione il ricorso all’intensificazione dello sfruttamento ma tutt’al più si avvalgono del ruolo del dollaro che consente al cittadino americano medio di vivere effettivamente al di sopra delle proprie possibilità, indebitandosi lui e facendo indebitare lo stato federale, a scapito dei lavoratori del resto del mondo, non certo dei capitalisti a cui resta comoda l’esistenza di un paese in grado di assorbire una rilevante parte della sovrapproduzione mondiale.
Se ci è consentita una battuta, manca Marx e l’analisi dei rapporti di classe. Che l’autore non valorizzi sufficientemente la cassetta degli attrezzi dell’autore del Capitale lo si desume anche da un’intervista da lui rilasciata a questo giornale, in cui liquida la legge del valore e di conseguenza la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto partendo da una lettura di Marx in chiave neo-sraffiana, lettura che diversi recenti studi filologici e interpretazioni del lascito del “Moro” mettono in discussione. A questo proposito mi permetto di segnalare la serie di miei articoli divulgativi sull’argomento usciti su questo giornale [2] e un articolo pubblicato sulla rivista online Dialettica e filosofia, in merito alla teoria marxiana della crisi [3].
La conseguenza non solo è la difficoltà dei keynesiani di comprendere le ragioni vere della svolta liberista e la loro ostinazione a controbattere con le sole armi dell’analisi, urtando contro un muro di gomma, ma riguarda anche le ricette proposte per uscire dal pantano creato dall’euro.
Cesaratto, per esempio, caldeggia il superamento della “logica del conflitto” per andare verso la “cooperazione” fra le classi alla ricerca degli “interessi comuni” (p. 101). Oppure desidera l’approdo a una “sinistra moderna, riformista e non antagonista” (p. 102), come se non ne avessimo avuta già fin troppa a disarmare ideologicamente e materialmente le classi lavoratrici, e “un nuovo patto sociale per lo sviluppo” da contrapporre a quello “imposto dall’esterno” (p.103). Manca, purtroppo, la consapevolezza che un’uscita “da sinistra” dalla crisi non può esserci in assenza della rimessa in discussione dei rapporti di forza fra le classi e dell’avvio di un processo di superamento del capitalismo.

Note:
[1] Sergio Cesaratto, Chi non rispetta le regole? Italia e Germania. Le doppie morali dell’euro, ed. Imprimatur, 2018, pp 125, € 14,00.
[2] Ascanio Bernardeschi, La teoria marxiana del valore (parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5)
[3] Ascanio Bernardeschi, Esiste in Marx una teoria generale e unitaria della crisi?


1 commento:

  1. "dell’avvio di un processo di superamento del capitalismo", che come scrisse Ruffolo ha i secoli contati. Vasto programma.

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