Traccia dell’intervento all’incontro
C'È UN FUTURO PER LA SINISTRA IN
ITALIA?, VI ASSEMBLEA NAZIONALE DEL NETWORK PER IL SOCIALISMO EUROPEO, Fiuggi 5/6 maggio 2018.
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(non tutto letto, e con qualche postilla che susciterà qualche reazione isterica)
Sergio
Cesaratto
La risposta al quesito che mi ponete è incoraggiante: per
ora non si sta preparando nulla. Visto ciò che si discuteva, questa è una buona
cosa. Ma non è che l’attuale assetto istituzionale-economico europeo non sia
già abbastanza penoso, per cui non v’è molto da festeggiare.
Non è neppure facile districare i
termini delle posizioni e delle questioni.
Intanto quando si parla di riforme
dell’eurozona si parla di poca cosa (ma con potenziali devastanti).
L’eurozona nasce male, non si fa una
moneta senza uno Stato, e lo Stato federato europeo non è realistico, spero che
ormai ne siamo tutti convinti (ma purtroppo non fuori di qui). L’eurozona non è
un’area valutaria ottimale, anche questo è common
knowledge. Per farla funzionare bene in maniera che assicuri la piena
occupazione, a fronte agli squilibri che produce occorrerebbero politiche
fortemente espansive nel paese dominante e, probabilmente, anche trasferimenti
fiscali perequativi da quest’ultimo. Pensare che questo accada significa essere
folli. Il resto, solidarietà europea ecc. sono chiacchiere.
Quindi, punto uno, quando si parla di
riforme, si parla di cose marginali che non affrontano i suoi nodi, per così
dire, strutturali. Parlando di Europa vale veramente l’abusata battuta di
Flaiano che la situazione è tragica, ma non è seria.
Semplificando, la posizione francese
è tradizionalmente quella che vorrebbe un po’ di politica fiscale anticiclica
in comune, in genere si parla di una assicurazione europea contro la
disoccupazione. Ma attenzione, si tratterebbe comunque di pochi quattrini elargiti
per periodi temporanei. Di più, il fondo dovrebbe essere accumulato nelle fasi
di espansione (il che non ha molto senso dal punto di vista Keynesiano).[1]
Un cavallo di battaglia tradizionale della Francia è inoltre un qualche
coordinamento macroeconomico (il che implica che la politica fiscale
ridiventerebbe strumento da agire in comune) sotto forma di un Eurogruppo rafforzato,
ma mi sembra che Macron sia ben lontano dal proporlo. Anzi, diciamo subito che
Macron, di fronte ai no tedeschi, ha già rinunciato a una battaglia sulla
riforma dell’eurozona.
Dopo un mese dal suo pomposo discorso
alla Sorbona del settembre 2017, arrivò infatti l’asciutta risposta di Schaüble sotto forma del famoso
“non-paper”, quattro paginette su carta qualsiasi con cui il ministro tedesco
si congedò dall’Eurogruppo. Schaüble non spese
neppure molto inchiostro per dire di no a ogni ipotesi di politica fiscale, e
enfatizzò un aspetto: il controllo sui conti pubblici degli Stati dell’eurozona
va sottratto alla mediazione politica della Commissione e affidato a un organo
indipendente; allo scopo lo European
Stability Mechanism (il fondo “salva-Stati”) va trasformato in un European Monetary Fund, il quale
dovrebbe avere anche compiti di gestione delle crisi; questa gestione, e questo
è il punto più importante, deve implicare una ristrutturazione dei debiti che
coinvolga il settore privato. Insomma, la sferza dei mercati deve essere il
vero controllore della disciplina fiscale: i mercati, timorosi di dover subire
perdite nel caso di procedure di default e ristrutturazione, sanzioneranno l’indisciplina
fiscale. Un punto importante per la Germania rimane quello che ogni impegno
fiscale europeo debba rimanere subordinato al parere del Bundestag.
A inizio 2018
abbiamo poi avuto un documento di 14 economisti radunati allo scopo da Merkon,
una sfilza di proposte, spesso cervellotiche, ma comunque basate sulla logica
del non-paper di rendere più inflessibile il controllo dei conti e più forte la
sferza dei mercati (con la minaccia del “private sector involvment”) sui debiti
pubblici. Rimando al mio nuovo libro per i dettagli.
Numerosi osservatori hanno giudicato
questa posizione come irresponsabile e destabilizzante, una riedizione del
disastro generato dalla famosa passeggiata di Merkosy a Deauville
nell’autunno 2010.
Altro argomento
dibattuto è il completamento dell’unione bancaria. Rendere europea la gestione
delle crisi bancarie è fondamentale per la stabilità. Negli Stati Uniti le
crisi bancarie locali sono gestite a livello federale con, all’occorrenza,
fondi federali. Ciò evita che Stati locali (privi di banche centrali) siano
trascinati nelle crisi bancarie, che così diverrebbero crisi fiscali (come
accaduto in Irlanda e Spagna). Per costituire un fondo europeo di assicurazione
sui depositi, Germania e satelliti chiedono però due garanzie: (a) che le
banche si liberino delle famose sofferenze bancarie; (b) che si riducano la
sovraesposizione in titoli di Stato nazionali (per evitare che le banche siano
coinvolte in crisi fiscali). Di per sé sono richieste ragionevoli, ma… Le
sofferenze bancarie a carico delle banche italiane (tanto è poi l’Italia che si
ha sempre in mente!) sono principalmente il risultato delle sciagurate
politiche europee, e senza un contestuale abbandono di quelle politiche solo
lentamente esse potranno liberarsene. Una frettolosa riduzione dell’esposizione
delle banche, italiane in titoli di Stato italiani, creerebbe difficoltà per
questi ultimi. Senza un contesto europeo di garanzia sui titoli pubblici tutto questo
sarebbe assai pericoloso.
Al momento la
situazione delle riforme sembra bloccata. Ad aprile la CDU si è manifestata
disinteressata alle riforme, mentre con l’allontanamento dell’”europeista”
Martin Schulz il tema europeo è caduto in subordine anche nell’agenda della
SPD. La posizione tedesca è estremamente nazionalista e volta “a preservare
sempre gli interessi tedeschi”, come ha dichiarato la leader della CDU
(Eurointelligence, 17/4/2018). Le più recenti proposte tedesche sono un
annacquamento dell’Eurogruppo, che da (vago) organo informale di coordinamento
macroeconomico dovrebbe trasformarsi in un organismo ancora più indistinto, con
l’ingresso dei “ministri allo sviluppo” accanto a quelli delle finanze. La
Merkel gioca anche con l’idea di fondi europei per l’innovazione, da
distogliersi da altri impieghi (naturalmente), magari in cambio di riforme
pro-mercato. Ma siamo alle chiacchere, alle misure di “window dressing”
(Eurointelligence 20/4/2018), come fu il piano Junker. La Germania sembra anche
aver abbandonato l’idea di una trasformazione dell’EMS in un EMF, dato anche un
miglioramento dei rapporti con il FMI, nel passato molto critico sulle
politiche europee in Grecia - secondo Eurointelligence (19/4/2018) questo può
dipendere dal fatto che i paesi asiatici ora snobbano il FMI per cui questo ha
politicamente più bisogno dell’Europa).
Mi sembra invece di
dover anche segnalare la figura del nuovo ministro delle finanze tedesco, l’SPD
Olaf Scholz. Costui aveva esordito dichiarando la sua continuità con Schaüble
affermando che «Un ministro delle Finanze tedesco è un ministro delle Finanze
tedesco, l’affiliazione partitica non gioca alcun ruolo” («Financial Times»
2018), e nominando o confermando come suoi consiglieri gli ordoliberisti del
suo predecessore. Ciò che è peggio, la sua prima legge finanziaria non sarà
contraddistinta dal cosiddetto “Schwarze Null” (zero nero), ma dal “Schwarze
Eins” (uno nero), vale a dire un avanzo di bilancio, con l’obiettivo di portare
l’anno prossimo il rapporto debito pubblico/Pil tedesco sotto il 60%.
L’operazione è agevolata dall’ottimo andamento dell’economia tedesca, guidata
dalle esportazioni agevolate dall’euro sinora relativamente debole, e dai tassi
a zero o sottozero sui titoli di Stato, ma comporterà anche dei tagli alla
spesa per infrastrutture, spesa militare e clima. Eurointelligence (4/5/2018)
evoca l’appoggio SPD alle politiche di austerità del cancelliere Heinrich Brüning,
quelle che nei primi anni ’30 spianarono la strada al nazismo.
Che fare? La
ripresa italiana è stata tirata dal buon andamento delle esportazioni, trainato
dall’euro debole e dalla ripresa europea, e da un orientamento della politica
fiscale un po’ meno restrittivo. Continua nel paese la martellante campagna
guidata da Cottarelli e da Banca d’Italia sulla stagnazione della produttività
come dovuta a soli fattori d’offerta. Questa impostazione ha avuto il sostegno
di un articolo indegno di Jean Pisani-Ferry, consigliere di Macron, pezzo
ripreso da Social Europe, cosa che la
dice lunga sullo stato pietoso del socialismo europeo. In verità la produttività
stagna dal 1995, precisamente da quando il cammino verso l‘euro fu intrapreso
con determinazione (dal centro-sinistra ulivista, naturalmente). Il paese ha
bisogno di sostegno della domanda interna. La migliore performance spagnola si
spiega molti in questi termini.
Non possiamo che
riprendere qui quanto proponemmo già nel 2010-11, ovvero la stabilizzazione del
rapporto debito pubblico/Pil. Come scrivo nel nuovo libro: “L’aritmetica economica ci suggerisce
che se la Banca centrale si impegna a tenere i tassi di interesse
sufficientemente bassi, tale stabilizzazione può aprire uno spazio fiscale
espansivo (permettere cioè un deficit spending) volto al sostegno della domanda
interna, di cui il nostro Paese ha disperatamente bisogno.[2]
Gli effetti positivi di tale sostegno si ripercuoterebbero positivamente
sull’obiettivo di stabilizzazione del debito. In tali condizioni la quantità di
titoli pubblici in pancia alle banche italiane non costituirebbe certo un
problema, mentre le sofferenze bancarie diminuirebbero. L’impegno alla
stabilizzazione del debito, assieme al dato storico di quasi trent’anni di
avanzi fiscali primari, dovrebbe essere la risposta italiana al timore europeo
di moral hazard. A fronte di
quest’impegno il Paese dovrebbe chiedere una corrispondente responsabilità
europea nel sostegno della domanda, in particolare nei Paesi con ampio spazio
fiscale per farlo, per sostenere la ripresa nei Paesi del Sud ed evitare il
riemergere di squilibri esteri nell’area euro, oltre a un impegno della BCE al
proseguimento di politiche che agevolino stabilizzazione e crescita”.
La proposta di Boitani e Minenna su Affari & Finanza va in questa
direzione: se l’Eurosistema (la BCE per capirci) congelasse i titoli acquistati
e da acquistare col quantitative easing,
trasformandoli in titoli trentennali, praticamente una parte cospicua dei
debiti pubblici europei verrebbe cancellata, almeno per un lungo periodo. Come
ciascuno sa, infatti, gli interessi che gli Stati pagano sul debito posseduto
dalla Banca Centrale vengono da quest’ultima rigirati allo Stato. L’effetto sui
tassi di interessi pagati sul resto del debito non potrò che essere positivo. Boitani
e Minenna sostengono che il risparmio in conto interessi può servire a ridurre
lentamente il rapporto debito/PIL incorrendo in surplus primari più piccoli (e
dunque meno recessivi). Si può però andare oltre, e porsi come obiettivo la mera
stabilizzazione del suddetto rapporto potendo così perseguire disavanzi primari (che sono espansivi).
Solo una volta che, attraverso il sostegno della domanda interna, la crisi
fosse veramente superata e il contesto economico lo permettesse, allora si può
pensare a un percorso di riduzione del rapporto debito/PIL.
Il punto è farlo
capire ai tedeschi, e in questo non c’è speranza. Vorrei dire che da questo
punto di vista sarei felice vedere Salvini Presidente del Consiglio (senza
soverchie illusioni, naturalmente). So che qualcuno a sinistra comincia a pensare
allo stesso modo. Molte cose fondamentali mi/ci distanziano da Salvini: il
fatto che non si dichiari anti-fascista senza se e senza ma, la flat-tax che è
simbolica della lontananza dal riformismo socialista, l’assenza di un progetto
profondo di cambiamento del paese. Ma sa però parlare alla gente, e magari i
suoi amministratori locali non sono neppure male. Confrontate Salvini e
Cuperlo! E sull’Europa ha le idee chiare, e ha chiamato Bagnai accanto a sé – che piaccia o
no la testa più lucida sull’Europa che abbiamo nel Paese. E la sinistra? Vedo che i
giovani fanno riunioni senza neppure un economista, forse ci si accontenta delle
indagini sul precariato (se desiderano indirizzi di straordinari giovani
economisti glieli posso dare). Non c’era un economista di sinistra candidato né
in LEU né in PaP, di quelli che si sono spesi in questi anni, intendo. Il
paradosso è che Salvini a questi economisti farebbe ponti d’oro. Tranquilli/e, noi non
venderemo l’anima al diavolo, ma che a sinistra si annidino nemici del Paese non
abbiamo dubbi.
Riferimenti
Boitani A., Perdichizzi S. (2018), Public expenditure multipliers in recessions. Evidence from the Eurozone, Dipartimento di
Economia e Finanza, Università Cattolica del
Sacro Cuore, Working Paper n.68
Cesaratto, S. (2018a), Chi non rispetta le regole? Italia e Germania: le doppie morali
dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia.
Comunicazione
di servizio
la Feltrinelli è l'ultima a fare gli ordinativi dei libri,
quindi il nuovo libro lo trovate in molte librerie (e soprattutto su
IBS) ma non ancora alle Feltrinelli (assurdo ma è così).
[1] Da un punto di vista keynesiano (poco compreso anche
fra chi si definisce tale), un aumento dei risparmi non è un mezzo per
trasferire risorse dal tempo t al tempo t+1, anzi, ha affetti recessivi.
[2] Intuitivamente, dato il rapporto fra debito pubblico e Pil, se il tasso
di interesse nominale medio sul debito pubblico (a cui cresce il numeratore) è
inferiore al tasso nominale di crescita del Pil (a cui cresce il denominatore),
si può fare un po’ di spesa in disavanzo stabilizzando i rapporto debito/Pil.
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