giovedì 6 ottobre 2016

Il primo post post-libro: Il vincolo estero è irrilevante, anzi fondamentale



Conoscenze necessarie 1

 Il vincolo estero è irrilevante, anzi fondamentale

Sergio Cesaratto

Questo è il primo post che fa seguito alla promessa del libro di approfondirne parti, discutere critiche e quant’altro. Intenderei cominciare con la vexata quaestio del vincolo estero discussa nella quarta lezione del libro. Lo faccio perché è politicamente oltre che economicamente centrale.
La questione è posta semplicemente: “E’ la piena sovranità monetaria, vale a dire il possesso di una banca centrale di emissione di una valuta non convertibile, condizione necessaria e sufficiente per l’implementazione di politiche di pieno impiego?”. Questa è la tesi in genere sostenuta dagli esponenti e sostenitori della Modern Monetary Theory (MMT).

La tesi opposta è quella che vede nell’insorgere di squilibri nei conti esteri l’ostacolo principale alla conduzione di politiche di piena occupazione, problema a fronte del quale la piena sovranità monetaria può solo limitatamente essere d’aiuto. Per vincolo estero si intende l’insorgere di squilibri commerciali (e in generale di partite correnti) prima che le politiche fiscali e monetarie abbiano condotto l’economia in piena occupazione. Un MMT, Philip Pilkington (2013), definisce questa tradizione “kaldoriana” dal nome del grande economista eterodosso Nicholas Kaldor (1908-1986). Questo secondo punto di vista è spesso ricondotto anche all’economista britannico Anthony Thirlwall.
“La questione scocciante – afferma Pilkington – è che i problemi sollevati dai kaldoriani sono veramente molto importanti”, sebbene “in contesti specifici”, si precisa. Non per gli Stati Uniti, egli sottolinea, e qui siamo tutti d’accordo. Gli USA stampano una moneta accettata da tutti per i pagamenti, spesso definita moneta di riserva, per cui possono finanziare disavanzi persistenti di bilancia dei pagamenti senza particolari problemi. Pilkington e altri autori MMT sembrano voler restringere la pregnanza della problematica dei kaldoriani ai paesi più arretrati. I kaldoriani sembrano avere invece in mente anche molti, sebbene non tutti, i paesi a uno stadio più avanzato di sviluppo.
La mia strategia in questo post sarà quella di dimostrare come alla fine ci possa trovare d’accordo, in maniera che ciascuno/a non si senta ferito/a nelle proprie suscettibilità e si possa archiviare questo punto (ma non le problematiche che lascia aperte) con reciproca soddisfazione. La critica che mi può essere mossa è di un cherry picking, ovvero di scegliermi passi degli autori MMT in maniera pro domo mea, isolandoli dal contesto. Mi reputo un giocatore piuttosto onesto, per cui preferisco vedere la cosa come la ricerca del diavolo che è nei dettagli, dunque nelle puntualizzazioni, nei caveat, nelle clausole contrattuali scritte in piccolo che gli autori MMT fanno alle loro preposizioni più impegnative, nell’arsenico che secondo Voltaire va aggiunto affinché il sortilegio con cui intendi uccidere un gregge di pecore abbia effetto.
Cambi fissi o flessibili?
Correttamente Sardoni & Wray (2007, p. 2) sostengono che gli economisti di tradizione keynesiana sono generalmente più favorevoli ai tassi di cambio fissi (ma aggiustabili) che a quelli flessibili. I due autori non spiegano questa preferenza, che può tuttavia essere riferita all’evitare il disordine nel commercio internazionale arrecato dalle svalutazioni competitive e agli effetti redistributivi sfavorevoli ai salari che possono risultare dal peggioramento delle ragioni di scambio con l’estero. Correttamente i due autori spiegano come la preferenza keynesiana per i tassi fissi si associ alla necessità di un ordine monetario internazionale, quale quello proposto da Keynes alla conferenza di Bretton Woods (un succinto ma efficace sunto della proposta di Keynes è in Lavoie 2015, pp. 2-5). Tale ordine avrebbe lo scopo di evitare che gli aggiustamenti delle bilance dei pagamenti avvengano solo attraverso misure deflazionistiche dei paesi in disavanzo tali da imprimere una tendenza deflativa all’economia globale, imponendo che l’aggiustamento ricada piuttosto sui paesi in surplus. Gli autori (pp. 3-4) concludono che, nell’impossibilità, oggi come ieri, di instaurare tale ordine a livello globale, cade anche l’argomento a favore dei cambi fissi (sebbene aggiustabili). Infatti:
To adopt a regime of fixed exchange rates without the creation of some sort of ‘world government’ implies that single countries renounce their sovereignty, i.e., their ability to maintain fiscal and currency independence.
Accordo fra “kaldoriani” e MMT: Ordine e istituzioni monetarie internazionali (o al limite europee) sulle linee della International Currency Union di Keynes sono in via di principio desiderabili. In loro assenza è tuttavia preferibile l’adozione di cambi flessibili, o meglio la non adesione a sistemi (accordi) di cambio fissi – evidentemente a seconda delle circostanze un governo monetariamente sovrano cercherà di pilotare il cambio nella direzione desiderata.
I tassi di cambio aggiustabili aggiustano sempre?
Proporre politicamente in Europa un sistema alla Keynes come proposto da Fantacci e Papetti o dal Keynes blog per superare l’euro può dunque essere strumentalmente opportuno, anche se il realismo ci suggerisce di pensare che il recupero della flessibilità del cambio sia una prospettiva più concreta. Ma funziona sempre? La questione che molti “kaldoriani” sollevano è che la flessibilità del cambio come “spazio” per perseguire politiche domestiche di piena occupazione senza preoccuparsi (troppo) del vincolo esterno incontra almeno tre problemi: 1) richiede una elevata elasticità delle esportazioni (che devono aumentare) e delle importazioni (che devono diminuire); 2) il deprezzamento del cambio, accrescendo il prezzo dei beni importati può avere effetti redistributivi sfavorevoli ai salari; 3) questi effetti possono addirittura essere tali da incidere negativamente sulla domanda aggregata – sia nel caso in cui i beni salario importati non abbiamo sostituti domestici, e questo comporti una contrazione dei consumi di beni domestici), che per l’aumento del valore reale del debito estero, pubblico e privato, se denominato in valuta estera (su quest’ultimo aspetto torneremo diffusamente) (Medeiros & Trebay, 2016: 21).
Wray & Sardoni (2007: 15-16) non discutono esplicitamente di questi problemi, ma traspare un’evidente cautela circa le virtù taumaturgiche dei cambi flessibili. Si vedano per esempio questi passi, che contengono parecchi spunti che commentiamo di seguito:
A sovereign nation is able to use domestic policy to achieve domestic or internal stability. As discussed above, this comes at the cost of possibly greater external instability. A floating exchange rate will not necessarily move trade toward balance, as discussed above. However, it must be remembered that from the macro perspective, imports are a benefit while exports are a cost. Hence, a trade deficit means net benefits. This is usually neglected in discussions of trade balances because of the presumed impacts on domestic employment. However, so long as the nation’s domestic policy is geared toward stability, it can achieve full employment, even in the presence of a trade deficit. This, in turn, requires sovereignty, which necessitates a floating exchange rate. It is possible that a trade deficit can exert downward pressure on the exchange rate, which can generate some “pass through” impacts on domestic inflation. If desired, domestic policy can turn to inflation-fighting, including the conventional method of using unemployment to attenuate inflation pressures. While we would not advocate such a method, we merely point out that the sovereign nation can implement policy geared toward achieving internal stability. (miei corsivi)
L’argomentazione è parecchio complessa. Mi sembra che emergano i seguenti punti-arsenico:
-        tassi di cambio flessibili non assicurano necessariamente l’equilibrio commerciale.
-        la flessibilità del cambio può avere  effetti sull’inflazione domestica per contrastare la quale si può dover ricorrere a un accrescimento della disoccupazione.
Da ambedue i punti di vista, oltre ai punti 1-3 più sopra, sembra che si debba guardare con cautela ai cambi flessibili ai fini dell’obiettivo della piena occupazione.
Accordo: la flessibilità del cambio va usata con cautela ed a seconda delle circostanze specifiche di un paese.
In passing, nella citazione i due autori ribadiscono la tradizionale proposizione MMT per cui per un paese è in fondo vantaggioso avere una bilancia commerciale in passivo sì da vivere al di sopra dei propri mezzi. Nulla da obiettare, naturalmente, tutti vorremmo fare come gli americani, ed è un peccato che l’Europa che potrebbe permetterselo non lo faccia, non finanzi cioè persistenti disavanzi commerciali stampando euro. Questo punto ci conduce a un'altra vexata quaestio: quali paesi si possono permettere persistenti disavanzi della bilancia dei pagamenti indebitandosi nella propria valuta? Il punto è importante perché se è vero che non possiamo affidare l’equilibrio con l’estero al sortilegio dei cambi, un po’ il debito estero per finanziare i disavanzi esterni può apparire inevitabile (ma se in valuta estera può diventare un vero arsenico e far fuori noi assieme al gregge).
Solvibile sin tanto che hai la printing press
Se la flessibilità del cambio va usata con cautela e a seconda delle situazioni specifiche, una strada alternativa al finanziamento dei disavanzi esteri risultanti dalle politiche di pieno impiego è quello dell’indebitamento con l’estero. MMT e “kaldoriani” sono d’accordo che un paese monetariamente sovrano è sempre solvibile nel proprio debito estero se denominato nella valuta nazionale (di emissione). Non credo che vi sia bisogno di citazioni al riguardo. Voglio solo notare come questa posizione MMT sia stata spudoratamente plagiata da decine di economisti mainstream (Paul De Grauwe in primis) che l’hanno appresa dalla rete e fatta propria, senza il minimo riconoscimento a chi per primo l’ha sostenuta.
Si noti di passaggio che da ultimo il debito estero che conta è quello relativo al settore pubblico nell’ipotesi che quest’ultimo si assuma un eventuale debito estero delle banche insostenibile per queste ultime, come sostiene Daniel Gros (2013: 512): “Durante una crisi finanziaria il debito privato accumulato durante il precedente boom è solitamente trasformato in debito pubblico”.
Accordo: un paese che emetta debito estero denominato nella propria valuta è sempre solvibile.

Original sin
La questione sembra dunque essere che molti paesi nella loro storia sono incorsi in quello che è stato definito “peccato originale” di aver emesso debito estero denominato in una valuta straniera (Eichengreen et al. 2003). Questo spiana la via degli inferi, o almeno la cacciata dal Paradiso terrestre: il default sul debito estero.
“The alternative theory, ‘original sin’, seeks to explain why many emerging markets are volatile and prone to crisis by focusing on three characteristics that such countries often share: good economic prospects, a certain degree of openness to international capital flows, and a national currency that cannot be used by local firms or the government to borrow abroad, and cannot be used, even at home, for long-term borrowing— a weakness, or ‘sin’, shared by the currencies of almost all emerging market economies.
If a country is economically promising and reasonably open, then people will want to invest. But if its currency cannot be used for either foreign or long-term borrowing, would-be investors must choose between borrowing in a foreign currency such as dollars or borrowing short-term. If a company borrows in dollars to finance a project that generates pesos, a subsequent devaluation of the peso could lead to bankruptcy. If instead the company undertakes a longer-term project and finances it with short-term loans, it will go bust if liquidity dries up and it cannot get the loans
renewed. In other words, investments will suffer either from a currency mismatch, because projects that generate local currency are financed with dollar loans, or a maturity mismatch, because longer-term investments have been financed with short-term loans.
This scenario is a recipe for financial fragility. Such systems will be extremely vulnerable to sudden declines in the amount of liquidity in the banking system and to sudden depreciations of the currency. In fact, as the domestic currency starts to decline, companies fearful of further depreciation will attempt to buy foreign currency in order to cover their exposures. This decision will only make matters worse by causing the domestic currency to depreciate even further— a dynamic that can take place even in a floating-rate country, as was the case of Indonesia at the time of its final collapse. For its part, the government will seek to defend the currency by using its international reserves. But using those reserves will dry up the amount of money in the domestic banking system, and as liquidity declines, banks will be forced to call in their loans, precipitating a banking crisis caused by the maturity mismatches. So the two mismatches interact. In fact, such a system is subject to self-fulfilling crises, as in a bank run: If people fear that others may take their money out, they will want to be the first to the door.” Hausmann (1999)

Accordo: La storia suggerisce che il peccato originale porta alla cacciata da un temporaneo paradiso, dunque dopo un periodo di euforia economica segue una crisi finanziaria con un default sul debito estero.
Dimmi allora quel che hai fatto, chi te l'ha mai messo in testa…
La domanda è allora: perché molti paesi nei secoli dei secoli hanno reiterato il peccato originale (lo reiterano e lo reitereranno)?
Una risposta plausibile è che lo fanno paesi con bilance dei pagamenti e valute “deboli”, i cuori deboli insomma: l’indebitamento in valuta straniera o l’adozione di sistemi di cambio in cui si assicura la convertibilità della propria moneta in una moneta internazionale a un tasso fisso sono veicoli con cui raccogliere capitali esteri altrimenti non raccoglibili emettendo titoli in valuta nazionale, considerati insicuri dagli investitori stranieri (insicuri nel senso di portatori di un rischio di svalutazione rispetto alle monete internazionali).
Il punto di vista MMT quale espresso da Bill Mitchell (2009) è il seguente.
Il finanziamento estero da parte dei paesi in surplus dei disavanzi dei paesi in deficit corrisponde a ricchezza desiderata da parte dei primi, per cui il settore estero dovrebbe essere in via di principio disponibile a finanziare i disavanzi anche se emessi nella moneta del debitore. (Il lettore MMT potrà qui percepire un’assonanza con l’argomento per cui in economia chiusa ai disavanzi pubblici corrisponde la creazione di ricchezza netta desiderata dal settore privato). Il paese in disavanzo “finanzia” (so to speak) il desiderio di ricchezza netta del settore estero (del paese in surplus) potendo in tal modo vivere “al di sopra dei propri mezzi”.[1]
Qui Mitchell introduce un punto-arsenico, e cioè che il desiderio del paese in surplus di accumulare titoli denominato nella moneta del debitore non sia illimitato. [2] Più in là Mitchell appare più ottimista argomentando che non v’è ragione perché i paesi in surplus perdano il loro appetito per i titoli dei paesi in disavanzo.[3] Ma aggiunge però un nuovo punto-arsenico: l’appetito non scompare nella misura in cui il paese offra sufficienti garanzie di stabilità economica per cui continuerà a servire il debito estero.[4] L’esperienza storica ci suggerisce al riguardo che pochi paesi offrono tale garanzia, paesi come Australia, Nuova Zelanda e Canada che gli MMT, in linea con Eichengreen et al. (2005), indicano come quelli che hanno potuto conciliare persistenti disavanzi esteri (e connesso indebitamento) con la continua emissione di titoli del debito estero denominati in moneta nazionale. Purtroppo l’esperienza della stragrande maggioranza dei paesi fuori del piccolo club dei paesi che emettono monete internazionali o sono ex colonie WASP evidenzia l’assenza di tali garanzie di stabilità. Randall Wray (2011a) lo suggerisce con chiarezza esemplare.[5]










Fonte: B. De Conti, A. Biancarelli, P. Rossi, Currency hierarchy, liquidity preference and exchange rates: a Keynesian/minskyan approach, Congrès de l’Association Française d’Économie Politique, Université Montesquieu Bordeaux IV, 2013.

 Mamma li turchi! Si possono pagare le importazioni nella propria valuta nazionale? Esistono delle valute definite di riserva o internazionali che sono quelle in cui preferibilmente si svolge il commercio internazionale. Poiché le riserve valutarie sono in genere investite nei titoli di Stato del paese che ha emesso quella valuta (per esempio i cinesi investono i dollari che hanno nelle riserve ufficiali in T-bonds americani), la stabilità politico-economica del paese in oggetto conta molto (Eichengreen at al. 2005).
Nel primo trimestre 2016 la composizione percentuale delle riserve era suddivisa in: 20,37% €; 63,59% $ USA; 4,08% Yen; 4,79% £ britannica; 0,28% franco svizzero; 6,89% altro (di cui 1,95% $ australiano e 1,90% $ canadese). (Fonte: Natixis)
La fatturazione del commercio internazionale è poi soggetta a rapporti di forza: in genere è decisa da chi emette la fattura. E’ vero quanto dice Wray che: “if you offer US or Canadian or Australian Dollars, or UK Pounds, or Japanese Yen, or Euroland Euros, you will NEVER find a lack of bidders. The only question is over the price. Heck, I’ve offered Mexican Pesos, and Colombian Pesos, and Turkish Lira and many other currencies  many times, and never found a lack of bidders”, cioè che anche monete “non di riserva” hanno mercato e possono essere accettate per i pagamenti internazionali. La domanda proverrà da chi intende effettuare acquisti presso il paese di emissione, per esempio beni turchi. Ma in assenza di una sufficiente domanda di questi beni, vale a dire se per esempio la Turchia emette 100 miliardi di £ turche per finanziare le importazioni dall’estero (supponendo che gli stranieri accettino la fatturazione in lire), ma la domanda di beni turchi è di soli 80 miliardi, è possibile che 20 miliardi di £ turca vengano scambiati, per esempio, con dollari USA. La Turchia può a quel punto decidere se lasciar cadere il valore della lira rispetto al dollaro, o se il deprezzamento è indesiderato, può soddisfare la domanda di dollari acquistando lire e cedendo dollari dalle riserve. Se questi dollari non ci sono, o non si vogliono toccare le riserve, la banca centrale o le banche commerciali turche possono ricorrere a presiti esteri. Con un po’ di fantasia quello che accade è che gli stranieri in possesso dei 20 miliardi di lire turche di cui si vogliono disfare ottengono $ dalla Turchia che se li fa prestare dai medesimi stranieri. [In altri termini, la Turchia si riprende i 20 miliardi di lire turche e in cambio rilascia un “pagherò” (un IOU ben noto agli amici MMT) in cui c’è scritto “ti vedo 20 miliardi di dollari”]. Ecco che, nonostante all’inizio la Turchia abbia fatturato in moneta nazionale, alla fine ha maturato un debito netto in valuta straniera. Oh, è evidente che la Turchia avrebbe dal principio potuto dichiarare la non-convertibilità della propria moneta: ma siamo sicuri che gli esportatori tedeschi, giapponesi o italiani avrebbero accettato di essere pagati in £? E’ evidente che se ripetessimo l’esercizio per il Canada, voi mi potreste dire che il problema non c’è: il Canada fattura in $ canadesi, e se c’è un disavanzo di bilancia dei pagamenti, i dollari canadesi verranno prestati al Canada medesimo che matura così un debito estero nella propria valuta (come i cinesi riprestano al Tesoro USA i dollari guadagnati col surplus commerciale). E infatti il $ canadese è valuta di riserva. La lira turca non lo è, e non lo era la lira italiana (e probabilmente non lo era il franco francese). Insomma, non è che proprio non si possa fatturare nella famosa Pizza di fango del Camerun, o nella lira italiana, ma ci sono dei limiti molto seri.
Accordo: l’esperienza storica suggerisce che al di fuori di un relativamente ristretto numero di paesi caratterizzati da notevole affidabilità politico-finanziaria, per altri paesi è complicato indebitarsi nella valuta nazionale; sono questi i paesi che poi cadono facilmente nell’original sin.
Come menzionato nel mio libro (p. 201), almeno con riguardo ai paesi più arretrati, Mitchell sembra suggerire misure diverse dall’indebitamento in valuta straniera per aggirare il vincolo estero, come il controllo delle importazioni o la sostituzione delle importazioni.[6]
Accordo: se la flessibilità del tasso di cambio non è misura sufficiente a rendere compatibili vincolo esterno e piena occupazione, mentre il paese non desidera indebitarsi in valuta estera, altre misure sono possibili come il controllo delle importazioni o una politica industriale volta a sostituire le importazioni.[7]
Queste ultime sono naturalmente misure politicamente difficili (il controllo delle importazioni) o molto complicate da condursi in maniera efficiente (la politica industriale di sostituzione delle importazioni), ma ciò che qui ci preme sottolineare è che vi sia un’ampia convergenza di vedute sul fatto che non vi siano sortilegi, ma una varietà di arsenici a cui ricorrere.
Accordo finale: il vincolo estero è tale da rendere impossibili le politiche di pieno impiego? No. C’è una varietà di strumenti che si possono impiegare, nessuno miracolistico, alcuni politicamente difficili da adottare.

Guida bibliografica:
Una buona guida al modello di Thirlwall è dovuta alla sempre ottima (e sempre troppo critica) Antonella Palumbo Palumbo, A.2011. On the theory of the balance-of-payments-constrained growth.” In Sraffa and Modern Economics, edited by R. Ciccone, C. Gehrke and G. Mongiovi, vol. II, 240259. London and New York: Routledge. Sul ruolo delle esportazioni in Kaldor si veda di Antonella anche: Adjusting Theory to Reality: The Role of Aggregate Demand in Kaldor's Late Contributions on Economic Growth, Review of Political Economy, 21/2009 (pdf al link). I mutamenti del punto di vista di Kaldor sull’efficacia della flessibilità del cambio sono segnalati da Ramanan nel suo bel blog: http://www.concertedaction.com/2013/04/25/nicholas-kaldor-on-floating-exchange-rates/. Sui default sul debito estero (denominato, com’è tipico in valuta straniera), la letteratura è immensa; studi recenti includono: E.Cavallo, B.Eichengreen, U. Panizza, Foreign savings: No gain, some pain,http://voxeu.org/article/foreign-savings-no-gain-some-pain (e il WP lì citato); antesignano di questi studi è un grande economista nato a Cuba, Díaz Alejandro: si veda al riguardo , Carmen M. Reinhart,The Antecedents and Aftermath of Financial Crises as told by Carlos F. Díaz Alejandro, NBER Working Paper No. 21350 (scaricabile anche da altri siti cercando su google). Che il problema della crisi europea siano i debiti esteri (stipulati, appunto, in una moneta straniera, l’euro), e che dunque la crisi europea nasca come una variante delle tradizionali crisi di bilance dei pagamenti, è esemplarmente esposto da Daniel Gros, Foreign debt versus domestic debt in the euro area, Oxford Review of Economic Policy, 29(3):502-517 · December 2013, che purtroppo richiede chiavi di accesso da biblioteche accreditate, ma si veda il sommario qui: http://voxeu.org/article/external-versus-domestic-debt-euro-crisis. Gros (che ha studiato Economia alla Sapienza) è ahimè spesso un economista molto bacchettone, ma a volte scrive cose molto chiare e condivisibili.
Teorico della necessità di una politica industriale di sostituzione delle importazioni fu l’economista argentino Raul Prebisch (1901-1986). Per una recente discussione di questa strategia v. F. Amico, Notas sobre la Industrialización por Sustitución de Importaciones en Argentina: Buscando adentro la fuente de la competitividad externa, http://ojs.econ.uba.ar/ojs/index.php/H-ind/article/view/391/715. Non sorprendentemente l’articolo esordisce con il seguente passo: “En los textos fundacionales del estructuralismo, un problema central de la industrialización latinoamericana fue la  escasez de divisas” (“Nei testi fondativi dello strutturalismo, un problema centrale della industrializzazione latino-americana è stata la scarsità di valuta estera”). La scuola strutturalista latino-americana è stata la scuola eterodossa indiscutibilmente dominante in quel continente, da Andre Gunder Frank (1929-2005) a Celso Furtado (1920-2004).

Altri riferimenti
Eichengreen, B., Hausmann, R. & Panizza, U., The Mystery of Original Sin, elsa.berkeley.edu/~eichengr/research/osmysteryaug21-03.pdf (pubblicato in Barry Eichengreen and Ricardo Hausmann (eds.), OtherPeople's Money, Chicago University Press, 2005)
Lavoie, M. 2015a. “The Eurozone: Similarities to and Differences from Keynes’s Plan.” International Journal of Political Economy 44, no. 1 (Spring): 3–17. Versione WP: www.boeckler.de/pdf/p_imk_wp_145_2015.pdf
De Medeiros C.A. & N. Trebat (2016), Latin America atCrossroads: Controversies on Growth, Income Distribution and StructuralChange,www.ie.ufrj.br/index.php/index-publicacoes/textos-para-discussao
Hausmann, R. (1999), “Shouldthere be fivecurrencies or 105?”, Foreign Policy (Fall). www.iadb.org/res/publications/pubfiles/pubS-121.pdf
Mitchell, B. (2009) Modernmonetarytheory in an open economy,billy blog, bilbo.economicoutlook.net/blog/?p=5402
Sardoni, C. &Wray , L.R. (2007), Fixed and Flexible Exchange Rates and Currency Sovereignty, Levy Institute, Working Paper No. 489 | January 2007
Wray, R. (2011a), Currency Solvency and the Special Case of the US Dollar,MMP Blog n. 25, http://neweconomicperspectives.org/2011/11/mmp-blog-25-currency-solvency-and.html
Wray, R. (2014), MMT AND EXTERNAL CONSTRAINTS, http://neweconomicperspectives.org/2014/02/mmt-external-constraints.html

(Come al solito ringrazio Giancarlo Bergamini per aver riletto ed emendato il testo. Mi scuso per aver lasciato in inglese molte citazione, ma il tempo è tiranno!)





[1]As I have indicated often a CAD [current account deficit] can only occur if the foreign sector desires to accumulate financial (or other) assets denominated in the currency of issue of the country with the CAD. This desire leads the foreign country (whichever it is) to deprive their own citizens of the use of their own resources (goods and services) and net ship them to the country that has the CAD, which, in turn, enjoys a net benefit (imports greater than exports). A CAD means that real benefits (imports) exceed real costs (exports) for the nation in question.
This is why I always say that the CAD signifies the willingness of the citizens to “finance” the local currency saving desires of the foreign sector. MMT thus turns the mainstream logic (foreigners finance our CAD) on its head in recognition of the true nature of exports and imports.”
[2]Subsequently, a CAD will persist (expand and contract) as long as the foreign sector desires to accumulate local currency-denominated assets. When they lose that desire, the CAD gets squeezed down to zero. This might be painful to a nation that has grown accustomed to enjoying the excess of imports over exports. It might also happen relatively quickly.”
[3]As the global economy grows, there is no reason to believe that the rest of the world’s desire to diversify portfolios will not mean continued accumulation of claims on any particular country.”
[4]As long as a nation continues to develop and offers a sufficiently stable economic and political environment so that the rest of the world expects it to continue to service its debts, its assets will remain in demand.”
[5]There is little doubt that US dollar-denominated assets are highly desirable around the globe; to a lesser degree, the financial assets denominated in UK Pounds, Japanese Yen, European Euros, and Canadian and Australian dollars are also highly desired. This makes it easier for these nations to run current account deficits by issuing domestic-currency-denominated liabilities. They are thus “special.”
Many developing nations will not find a foreign demand for their domestic currency liabilities. Indeed, some nations could be so constrained that they must issue liabilities denominated in one of these more highly desired currencies in order to import. This can lead to many problems and constraints—for example, once such a nation has issued debt denominated in a foreign currency, it must earn or borrow foreign currency to service that debt. These problems are important and not easily resolved.
If there is no foreign demand for IOUs (government currency or bonds, as well as private financial assets) issued in the currency of a developing nation, then its foreign trade becomes something close to barter: it can obtain foreign produce only to the extent that it can sell something abroad. This could include domestic real assets (real capital or real estate) or, more likely, produced goods and services (perhaps commodities, for example). It could either run a balanced current account (in which case revenues from its exports are available to finance its imports) or its current account deficit could be matched by foreign direct investment.
Alternatively, it can issue foreign currency denominated debt to finance a current account deficit. The problem with that option is that the nation must then generate revenues in the foreign currency in order to service that debt. This is possible if today’s imports allow the country to increase its productive capacity to the point that it can export more in the future—servicing the debt out of foreign currency earned on net exports. However, if such a nation runs a continuous current account deficit without enhancing its ability to export, it will almost certainly run into debt service problems.”

[6]well targetted government spending can create domestic activity which replaces imports. For example, Job Guarantee workers could start making things that the nation would normally import including processed food products” Mitchell (2009).
[7]Wray(2014) si esprime in termini simili riassumendo il suo pensiero: “the MMT principles apply to all sovereign countries. Yes, they can have full employment at home. Yes, that could lead to trade deficits. Yes that could (possibly) lead to currency depreciation. Yes that could lead to inflation pass-through. But they have lots of policy options available if they do not like those results. Import controls and capital controls are examples of policy options. Directed employment, directed investment, and targeted development are also policy options.”








6 commenti:

  1. Grazie professor Cesaratto per l'articolo, andrà letto e studiato a fondo, mi sembra da parte sua un passo avanti rispetto ad alcune rigidità del passato ;)

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    1. beh che il rigido sia proprio io... ma dai, va bene così, l'importante è capirsi su un punto importante per tutti.

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  2. Buonasera professore, oggi mi è finalmente arrivato il suo libro e mi sono subito fiondato a leggere la quarta lezione, che tratta appunto la bilancia dei pagamenti e il vincolo estero. C' è un aspetto che però non mi è chiaro, aspetto a cui ultimamente ho dedicato molto tempo ma che ancora mi sfugge. Mi permetto quindi di chiederle una delucidazione, senza la pretesa di avere una risposta. Magari la domanda potrà sembrare banale, ma mi sono approcciato alla materia solo da qualche mese. Se non avrà tempo o modo di rispondere, capirò.
    Comunque: non riesco ad afferrare del tutto la correlazione fra deficit delle partite correnti e indebitamento estero. Nel libro lei fa l' esempio di un paese che non abbia la fortuna di emettere una moneta internazionalmente accettata come mezzo di pagamento, ovvero un paese che non siano gli Usa o qualche altra ex colonia del commonwealth e che quindi per comprare un bene dall' estero debba necessariamente procurarsi dei dollari; o esportando a sua volta merci, o utilizzando le sue riserve di dollari, o importando capitali. Ecco, in questo caso la correlazione è chiara e la capisco.
    Invece, nel caso in cui il paese emetta una valuta "importante", (es USA), il legame fra deficit delle partite correnti e indebitamento estero mi sembra meno immediato. Io mi immagino, semplificando, la seguente situazione: Nel paese x una banca crea un deposito di 5$ a favore di Tizio, Tizio compra un bene da Caio per 5$ e Caio, invece di comprare un bene da Sempronio, importa un bene dal paese di Fritz, sempre per 5$. In questo caso abbiamo un deficit delle partite correnti di 5$, ma non mi sembra che ci sia un indebitamento con l' estero...la ringrazio per il suo tempo,

    Francesco Guidi

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  3. Grazie per il quesito. Le banconote che un paese emette sono una passività per la banca centrale, la banca centrale "deve qualcosa" al portatore, come un tempo c'era scritto sulle banconote: "pagabile al portatore". In parte è una ipocrisia: la banca centrale non deve nulla, né oro né alcunché: al massimo se una banconota da 5$ è vecchia, la cambia con una nuova. Però è anche vero che Fritz ha un diritto di prelazione sui beni del paese x per 5 $: o l'esercita e le due bilance commrciali si pareggiano; o se non le esercita egli rimane con questi diritto di prelazione non esercitato (che è un debito materiale pendente sul paese x). Nei fatti inoltre, se Fritz non esercita il diritto, per non lasciare i 5 $ infruttiferi, li userà per acquistare titoli del paese x (i cinesi comprano titoli del Tesoro americani, per esempio), un vero e proprio prestito dunque. Spero ora sia più chiaro.

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  4. È stato chiarissimo, grazie mille! Se ho ben capito, nel caso dell' € succede più o meno la stessa cosa (alla faccia di chi sosteneva l' abolizione del vincolo estero fra gli stati dell' eurozona grazie alla moneta unica), con le banche del paese di Caio che hanno bisogno di riserve e vanno a chiederle a quelle del paese di Fritz (non essendoci in questo caso una banca centrale nazionale che funga da "printing press")...insomma, lo stesso meccanismo che descrive a pag. 204 del suo libro.
    Grazie ancora per il chiarimento.

    Francesco Guidi

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  5. Buonasera professore. Il suo libro mi è stato regalato a Natale ed è illuminante. Però su questo punto del vincolo esterno ancora non mi è tutto completamente chiaro: supponiamo (apriscatole) che il settore privato sia in deficit, e anche le partite correnti: lo stato monetariamente sovrano non può finanziare i due deficit (sempre che non siano degli abissi) svalutando e monetizzando in parte il debito come faceva l'Italia? Oppure prima o poi dovrà fare in modo che almeno uno dei due deficit rientri con manovre di austerità? Ecco forse non mi sono chiare le controindicazioni di un'eccessiva monetizzazione del deficit statale coniugata a svalutazione. Penso in particolare al caso del Brasile che ha una cronica dipendenza dai capitali esteri per finanziare il suo strutturale deficit delle partite correnti, ovvero per finanziare gli investimenti privati(http://www.minds.org.br/media/papers/wp-minds-201601-rezende.pdf) ma ha una bilancia commerciale in attivo. Lo stato non potrebbe in questo caso sostituirsi ai finanziatori esteri senza problemi visto che il problema non è il commercio? C'entrano per caso le elasticità delle importazioni in funzione della crescita del reddito?

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