Lo “Studio
Svimez” di Garegnani del 1962 – Note preliminari
Sergio Cesaratto
Cesaratto@unisi.it
Anni di alta teoria
Non c’è stato
modo di rintracciare con chiarezza quale sia stato il rapporto formale di
Garegnani con la Svimez, il che avrebbe implicato un lavoro d’archivio presso
l’associazione. Nel saggio “Note su consumi, investimenti e domanda effettiva”,
basato sulla prima parte dello “Studio Svimez” (Garegnani 1962), come per
brevità lo definiremo qui, e pubblicato in italiano da Economia internazionale nel 1964-65, Garegnani stesso ci informa
che lo Studio fu steso nel 1960-61 e pubblicato in forma ciclostilata (“per uso
interno degli uffici”) nel 1962. Quello che sappiamo dalle note biografiche di
Fabio Petri (2001), per le quali posso immaginare si sarà avvalso di Garegnani,
quest’ultimo, conseguito il dottorato a Cambridge, dal 1958 è a Roma assistente
di Volrico Travaglini; è visiting al
MIT nel 1961-62, e consegue la cattedra nel 1963 a Sassari (dove era
stato però assistente nei due anni precedenti). Anni molto intensi dunque. Nel
Rapporto Svimez Garegnani non ringrazia nessuno in particolare, mentre in “Note
su consumi” egli ringrazia “per i loro commenti ai manoscritti dell’articolo i
professori Claudio Napoleoni, Sergio Steve, Paolo Sylos-Labini, Volrico
Travaglini” (Garegnani 1979, p. 4). Da un resoconto di Fabrizio Barca, la Svimez di Pasquale
Saraceno della seconda metà degli anni cinquanta emerge come un vero e proprio
“ufficio studi dei governi che videro Ferrari Aggradi, Vanoni, Campilli e La
Malfa alla guida dei principali ministeri economici” (Barca 1997, p. 603). I
collaboratori stranieri includevano i maggiori studiosi dello sviluppo come
Colin Clark, Vera Lutz, Gardner Ackley, Richard Echaus, Hollis Chenery (manca
Raùl Prebisch). Nel consiglio direttivo sedevano Paul Rosenstein Rodan, Jan
Timbergen e Robert Marjolin. Interessante che il Piano Vanoni, che Garegnani
prende a riferimento nella parte empirica dello Studio Svimez, “venne
sicuramente elaborato nella sede romana della Svimez” e dovuto “soprattutto
alla stesura di Saraceno” (ibid, p. 604). Nel giudizio di Saraceno, scrive
Barca, le politiche meridionaliste nella fase successiva alla ricostruzione
dovevano realizzare l’azione coordinata di due modelli: quello del Centro-Nord
sostenuto dalla domanda e quello del Sud sostenuto dall’offerta” (ibid, p.
605).
La problematica: Keynes in economie a stadio
intermedio di sviluppo
La problematica
dello Studio Svimez si riferisce all’applicabilità della proposizione
keynesiana dell’indipendenza degli investimenti dai risparmi ad economie
“sottosviluppate” (come erano all’epoca definite) o a uno stadio intermedio di
sviluppo come quella italiana. Osserva Garegnani nell’introduzione allo Studio:
“la teoria economica dà a volte l’impressione
d’essere divisa come in due compartimenti stagni. L’uno si riferisce ad
economie sviluppate per le quali si ammette, per lo più, che aumenti dei
consumi non comportino diminuzioni degli investimenti e possano anzi, tranne
che in situazioni di generale eccesso di domanda effettiva, favorirne
l’aumento. L’altro si riferisce a economie sottosviluppate per le quali si
suppone invece, in generale, che aumenti dei consumi comportino diminuzioni dei
risparmi e degli investimenti” (Garegnani 1962, p. ii).[1]
Questo non è
completamente ingiustificato, precisa Garegnani, in quanto “nelle economie
sottosviluppate si richiede soprattutto lo sviluppo dell’attrezzatura
produttiva piuttosto che di beni di consumo” (ibidem). Purtuttavia, aggiunge,
“[a]ppare però che relativamente poca attenzione sia stata prestata
all’importanza che fenomeni di domanda effettiva possono avere sullo sviluppo
della capacità produttiva nel secondo tipo di economia” (ibid, p. ii-iii,
sottolineatura nell’originale). E in nota Garegnani precisa:
“Questo è probabilmente dovuto in parte a una scarsa
attenzione prestata all’ambiente istituzionale in cui lo sviluppo deve aver
luogo. E’ chiaro infatti che in un’economia completamente pianificata problemi
di domanda possono essere il risultato solo di cattiva pianificazione” (ibid,
p. iii).
Quello che
Garegnani suggerisce, e chiarisce nei passi successivi, è che in economie
“sottosviluppate” non pianificate, le forze di mercato non assicurano affatto
che la capacità produttiva, per quanto insufficiente ad assicurare il pieno
impiego delle forze di lavoro, sia a sua volta pienamente utilizzata.[2]
Questa situazione è reputata da Garegnani ancor più rilevante in economie a uno
stadio intermedio di sviluppo e con caratteristiche “dualistiche” come quella italiana.
Il mancato pieno utilizzo della capacità già installata, per il mancato
incentivo da parte della politica economica a un volume adeguato di
investimenti, avrebbe secondo Garegnani un “effetto cumulativo di riduzione
della capacità futura di accumulazione assai importante nel condizionare lo
sviluppo” (ibidem). Come si vede, v’è in Garegnani la compresenza degli
investimenti sia come componente decisiva della domanda aggregata, che come
variazione dello stock di attrezzature: la debolezza degli investimenti sotto
il primo profilo porta a un sottoutilizzo degli impianti e a un mancato
sfruttamento delle capacità di accumulazione, e con essa un mancato
riassorbimento della disoccupazione strutturale, caratteristica delle economie
in ritardo. In questo senso, conclude Garegnani, la “ipotesi keynesiana” (come
egli la definì più tardi sulla scorta di Kaldor, Garegnani 1992, p. 47) circa
l’indipendenza degli investimenti dai risparmi tanto nel breve quanto nel lungo
periodo, ha persino più pregnanza per un’economia quale quella italiana
rispetto a economie più avanzate, nelle quali un “eccesso” di investimento
troverebbe strozzature dal lato dell’offerta di lavoro:
“il principio dell’indipendenza degli investimenti
privati dai risparmi [può] avere per un’economia come quella italiana
un’importanza maggiore di quella che essa ha in economie dove l’attrezzatura
produttiva esistente è di già adeguata ad assorbire tutta l’offerta di lavoro.
Nel secondo tipo di economie infatti mancati utilizzi di risparmi potenziali,
se contenti entro certi limiti, non rappresentano perdite considerevoli per la
collettività poiché l’espansione dell’attrezzatura produttiva incontrerebbe
comunque un limite nella disponibilità di lavoro addizionale richiesto per
impiegarla; non è evidentemente così in un’economia come quella italiana.”
(Garegnani 1962, p.vi; v. anche p. 82).
Nelle economie
del primo tipo la perdita consisterebbe dunque meramente “della produzione di
beni di consumo ottenuti dagli impianti rimasti inutilizzati per il tempo in
cui sono rimasti inutilizzati” (ibid, p. 82); mentre per le economie del
secondo tipo:
“La perdita causata alla collettività da deficienze
anche piccole degli investimenti rispetto ai risparmi di pieno impiego, da
margini cioè anche piccoli di capacità produttiva inutilizzata, però allora
diviene considerevole. La perdita è infatti costituita non soltanto dai
prodotti ottenibili colla capacità rimasta inutilizzata per il periodo in cui
si è avuta la deficienza di domanda. Essa consiste anche dei prodotti che
sarebbe stato possibile ottenere in futuro dagli ampiamenti di attrezzatura
produttiva risultante dall’utilizzo per investimenti della capacità
inutilizzata. Poiché questo secondo elemento di perdita non è limitato nel
tempo come il primo ed è cumulativo, esso assume dimensioni che – quando si
considerino periodi di tempo misurabili in decenni, quali sono quelli a cui una
politica di sviluppo è riferita – di gran lunga superano quelle del primo
elemento di perdita” (ibid, p. 83, sottolineatura nell’originale).
La rilevanza
dell’analisi keynesiana per Paesi come l’Italia ha due aspetti connessi. Da un
lato essa smentisce il precetto di politica economica tradizionale per cui il
maggior volume di investimenti necessario per assorbire la disoccupazione
strutturale possa derivare da una più elevata propensione al risparmio, e
dall’altro che data la capacità esistente vi siano meccanismi che assicurino un
livello di investimenti adeguato ai risparmi potenziali (o di capacità, quelli
relativi al reddito che consegue a un pieno utilizzo degli impianti):[3]
“Quando …la teoria keynesiana nega la propensione
tradizionale secondo cui ad ogni aumento della propensione al risparmio della
collettività, corrisponde un aumento degli investimenti, essa afferma qualcosa
che è valido per qualsiasi economia di mercato ed è quindi valido
indipendentemente dall’esistenza o meno di una eccedenza di lavoro.
Per questo secondo aspetto, prevalentemente
critico, la teoria di Keynes non è meno importante per l’economia italiana
di quanto lo sia per economie “ricche”. Essa infatti pone in luce come lo
sviluppo dell’attrezzatura produttiva non possa in generale essere ottenuto
concentrando la politica economica in quelle misure che sono atte a provocare
un aumento della propensione al risparmio della collettività. Essa conduce
invece a concentrare l’attenzione sui fattori da cui dipende l’alto o basso
livello degli investimenti che devono dar luogo ad espansione dell’attrezzatura
produttiva e ad occupazione addizionale permanente. L’aumento della propensione
al risparmio che per la teoria tradizionale era la condizione necessaria e
sufficiente per questa espansione, non appare sufficiente. Essa può non essere
neppure necessaria poiché i risparmi necessari per l’aumento degli investimenti
possono risultare, in un primo tempo, da un più pieno utilizzo della capacità
produttiva disponibile e, in un secondo tempo, dall’espansione della capacità
produttiva che si viene realizzando.
Vi è un senso nel quale sembra possibile affermare
che la propensione centrale della teoria di Keynes può avere per l’economia
italiana un’importanza maggiore che per le economie ‘ricche’” (ibid, pp. 81-82,
sottolineatura nell’originale).
La discussione
circa la tesi keynesiana dell’indipendenza degli investimenti dai risparmi, e
più precisamente dell’assenza di forze che adeguino gli investimenti ai
risparmi di capacità, è dunque secondo Garegnani rilevante tanto con riguardo
alle economie sviluppate che a quelle in ritardo. La questione si ripercuote di
conseguenza “sulle discussioni correnti in Italia sulla politica salariale più
adatta a favorire lo sviluppo dell’occupazione” (ibid, p. iv). I termini della
questione sono ben noti: se fosse vera la tesi tradizionale che vede l’offerta
di risparmio come determinante delle capacità di accumulazione di un paese, un
aumento dei salari reali non potrebbe che
incidere negativamente sull’accumulazione attraverso una minore
propensione al risparmio; viceversa, la validità della tesi keynesiana
porterebbe a domandarsi se, invece, un aumento dei salari reali non possa agire
di stimolo agli investimenti privati.
L’argomentazione
Le tesi della
prima parte dello Studio Svimez sono state da tempo pubblicate[4]
e sono dunque ben note: Garegnani mostra come i risultati della critica alla
teoria marginalista del capitale che lui (Garegnani 1960) e Sraffa (1960) avevano da poco pubblicato
fossero funzionali a liberare Keynes dai “lacci e lacciuoli” che legavano la
sua teoria al marginalismo e che ne avevano permesso il rapido riassorbimento
nell’alveo tradizionale, relegandone i risultati alla spiegazione di periodi di
particolare depressione degli investimenti. Si tratta in particolare della
dimostrazione della non generalità di una relazione decrescente fra
investimenti e tasso d’interesse, laddove quest’ultimo fungeva nella teoria
tradizionale da prezzo che fa adeguare le decisioni di investimento ai risparmi
di capacità. Dimostrata l’invalidità di questo retaggio marginalista della Teoria Generale, resta così confermata
la proposizione più innovativa di quest’opera: che nei limiti della capacità
produttiva esistente, è il livello dei risparmi ad adeguarsi alle decisioni di
investimento dei capitalisti tramite variazioni del reddito (del grado di
utilizzo).
Quella di
Garegnani resta per molti di noi la reinterpretazione del pensiero di Keynes
più robusta. Questo di contro alle interpretazioni più diffuse in campo
post-keynesiano che enfatizzano altri aspetti dell’analisi keynesiana come
incertezza, aspettative e animal spirits
quali determinanti degli investimenti. Questi sono giudicati da Garegnani
elementi troppo soggettivi e nebulosi per essere di base a una solida teoria
dell’accumulazione (1979b, p. 114-116). Ma anche contro la tesi prevalente fra
i keynesiani del mainstream – oggi
rappresentati per esempio da Stiglitz e Krugman - che riducono il caso
keynesiano a periodi di particolare depressione degli investimenti, quando
questi si mostrano poco sensibili ai tassi d’interesse, oppure di “trappola
della liquidità” (Garegnani 1962, pp. 56-64). Più in generale, secondo la
vulgata mainstream, condivisa talvolta anche da economisti “eterodossi” (come
Duncan Foley), i risultati di Keynes sarebbero validi nel breve periodo quando
i fattori ciclici sono prominenti, mentre in media nel lungo i risparmi di
pieno impiego riprenderebbero il loro ruolo di determinante degli investimenti.
I risultati della critica in tema di teoria
marginalista del capitale portano naturalmente a smentire l’adeguamento degli
investimenti dai risparmi di capacità tanto nel breve che nel lungo periodo. Ma
Garegnani va oltre e nella seconda parte dello Studio Svimez si domanda
attraverso quali meccanismi anche nel lungo periodo sono i risparmi ad
adeguarsi agli investimenti. Ed oltre a ciò, egli conduce una esplorazione
delle determinanti oggettive degli investimenti nel lungo periodo, e della
relazione fra livello dei salari reali e decisioni di investimento. La risposta
alla prima questione è che, come nel breve periodo - nei limiti della data
capacità produttiva - maggiori decisioni di investimento determinano una
maggiore offerta di risparmio attraverso un più elevato grado di utilizzo della
capacità esistente, così nel lungo periodo le maggiori attrezzature installate
attraverso un più completo utilizzo della capacità esistente consentiranno nel
futuro un’offerta di risparmio potenziale adeguata a decisioni di investimento
prese su scala ancora più allargata. In sintesi, mentre del breve periodo i
risparmi si adeguano agli investimenti attraverso le variazioni nel grado di
utilizzo della capacità esistente, nel lungo periodo l’adeguamento avviene
attraverso le variazioni della capacità medesima. Questo appare forse ancor più
chiaro prendendo il caso, già precedentemente richiamato, di un volume di
investimenti inadeguato a impiegare la capacità esistente: mentre nel breve
periodo i risparmi si adegueranno attraverso un minore grado di utilizzo della
capacità, il perdurare di tale situazione porterebbe nel lungo periodo a
distruzione della capacità in eccesso e dunque dei risparmi potenziali di
questa economia.
“Abbiamo quindi che il principio dell’indipendenza
degli investimenti dai risparmi il quale nel breve periodo può manifestarsi in
una deficienza degli investimenti dai risparmi ottenibili col pieno impiego
della capacità produttiva, si può manifestare nel periodo lungo anche in un
minore sviluppo della capacità produttiva e quindi minori livelli dei risparmi
di pieno impiego” (ibid, p. 78)
Circa la seconda
questione relativa alle determinanti degli investimenti, Garegnani ha
fondamentalmente l’idea che gli investimenti siano una componente indotta di
ciò che definisce “domanda finale”, oltre a una quota che dipende dal progresso
tecnico ed è dunque indipendente dalla domanda finale (ibid, pp. 91-92).
Quest’ultima viene definita come “quella domanda il cui fine non è l’ulteriore
produzione di beni all’interno dell’economia” comprendendo dunque la “domanda
interna per beni di consumo” [privati e pubblici] e le “esportazioni al netto
delle importazioni” (ibid, p. 92).[5] La domanda di beni di investimento
viene esclusa dalla domanda finale in quanto, a parte la quota determinata dal
progresso tecnico, essa dipende proprio ed è da ultimo giustificata
dall’espansione della domanda finale. Garegnani richiama qui esplicitamente
tanto il “principio dell’acceleratore” quanto l’esperienza comune per cui è la
domanda di beni che premendo sulla capacità ne stimola l’espansione (ibid, p.
93). Ciò che ha offuscato questo principio “determinante” dello sviluppo
economico è stata l’idea tradizionale dell’adeguamento degli investimenti ai
risparmi di capacità per cui “gli investimenti e l’espansione del sistema
produttivo apparivano completamente indipendenti dai mercati dei prodotti” la
cui espansione “appariva soltanto come conseguenza della espansione del sistema
produttivo senza alcuna possibilità di rovesciamento del rapporto causa ed
effetto” (ibid, pp. 93-94).
Per rispondere
alla terza questione, l’influenza dei salari reali sugli investimenti, siamo
perciò rimandati allo studio degli effetti di variazioni dei salari reali su
consumi e esportazioni, grandezze che a loro volta influenzano gli investimenti.
La risposta di Garegnani è complessa (1962, pp. 98-104). Da un lato egli
ritiene che più elevati salari reali possano esercitare attraverso una maggiore
domanda finale per beni di consumo un effetto di incentivo agli investimenti
privati; dall’altro, tuttavia, l’aumento dei salari può esercitare un effetto
negativo sulle esportazioni e dunque sulla bilancia dei pagamenti (Garegnani
sembra invece trascurare l’effetto della maggiore domanda di beni di consumo
sulle importazioni). Il ragionamento di Garegnani è assai complesso (ma molto
limpido), e si estende alla considerazione degli effetti di aumenti dei salari
reali sul progresso tecnico (pp. 104-105).
Garegnani applicato
Contrariamente a
qualche malevolo interprete di Garegnani (Cesaratto 2011), questi ha sempre
mostrato uno straordinario interesse per l’economia applicata, ed ha sempre
incitato i suoi allievi tanto al lavoro teorico quanto a “guardare ai ‘dati’”.
Nella parte empirica dello Studio Svimez (ancora non pubblicata) Garegnani
esamina la questione se nel periodo appena trascorso 1955-60 – che coincide sia
con “miracolo economico” italiano che con la prima parte del periodo di
previsione del Piano Vanoni - il Paese avrebbe potuto effettuare un volume di
investimenti superiore a quello effettivo, in modo da generare 350 mila posti
di lavoro addizionali (per effetto dell’allargamento della capacità produttiva)
senza dover ridurre i consumi, dunque attraverso un più pieno utilizzo della
capacità esistente, e senza generare pressioni insostenibili sulla bilancia dei
pagamenti. Data la distribuzione lungo i sei anni degli investimenti
addizionali, la nuova capacità progressivamente creata avrebbe agevolato gli
investimenti successivi (ibid, p. 120). Per queste stime, che comprendono gli
effetti diretti e indiretti dei maggiori investimenti, Garegnani utilizza una
serie di fonti statistiche e ipotesi, incluse quelle adottate nel Piano Vanoni
medesimo e la tavola delle interdipendenze strutturali per l’economia italiana
per il 1956.
I risultati cui
Garegnani perviene sono positivi nel senso che un investimento addizionale di
875 miliardi di lire (del 1953) lungo il periodo suddetto avrebbero consentito
l’aumento di occupazione ipotizzato senza una riduzione dei consumi dei già
occupati (ibid, p. 142). Il mancato incremento di investimenti avrebbe comportato,
nelle stime di Garegnani, un mancato “incremento dell’occupazione che potremmo
definire ‘keynesiano’ (un incremento di occupazione cioè ottenuto semplicemente
con un aumento della domanda effettiva presente)” (ibid, p. 144) pari a 60-70
mila lavoratori in ciascuno dei sei anni, una cifra di per sé non
considerevole. Tuttavia (ibidem)
“Tale disoccupazione ‘keynesiana” protrattasi per i
sei anni 1955-60, ha però comportato un mancato incremento di attrezzatura
produttiva nell’industria, che avrebbe potuto fornire 350.000 posti addizionali
di lavoro, capace cioè di assorbire il 32% della disoccupazione ‘aperta’. Una
disoccupazione ‘keynesiana’ relativamente piccola sembra perciò spiegare già in un periodo di sei anni, una
disoccupazione ‘strutturale’ considerevole.” (ibid, p. 144).[6]
Sulla scorta di
questo risultato Garegnani si domanda come mai il settore privato non avesse
effettuato quegli investimenti, e la risposta è che, evidentemente, esso non
aveva ritenuto la domanda di prodotti tale “da giustificare questa espansione
addizionale di capacità produttiva” (ibidem). Certamente, dunque, di ostacolo
agli investimenti nel periodo esaminato non è stato il livello dei consumi, che
anzi un minore aumento dei salari reali avrebbe inciso negativamente
sull’accumulazione (ibid, p. 143).
Sarà assai
interessante in un eventuale prosieguo di questa ricerca un confronto fra i
risultati dell’analisi (e nel metodo di studio) di Garegnani, e quelli di
Ackley l’anno successivo per la stessa Svimez. Mentre nel saggio del 1957
Ackley, in maniera (in un certo senso) deludente, dava credito allo scetticismo
della maggioranza degli economisti italiani circa le politiche keynesiane
argomentando che l’esistenza di “strozzature” avrebbe reso necessaria una sorta
di politica dei due tempi nella composizione della domanda aggregata - una contrazione
iniziale dei consumi per consentire un accrescimento degli investimenti e della
capacità, seguita da un aumento dei consumi a sfavore degli investimenti una
volta adeguata la capacità[7] - l’interpretazione
avanzata nel 1963 appare (a una prima ispezione) non in contrasto con
l’impostazione di Garegnani. Per comodità riporto qui la presentazione
sintetica che ne fa la Svimez:
“Si tratta di
un'interpretazione dello sviluppo dell'economia italiana nel corso degli « anni
'50 ». Il rapido e continuo incremento dei reddito durante il decennio
1951-1960 viene infatti « spiegato » dal modello in base allo sviluppo,
altrettanto rapido e continuo, delle componenti « autonome » della domanda
effettiva, individuata nella spesa pubblica, nelle esportazioni nette e negli
investimenti fissi realizzati nell'agricoltura, nelle abitazioni e, in parte,
nel trasporti e nelle comunicazioni.”
I problemi lasciati aperti da Garegnani
Voglio segnalare
alcune questioni lasciate aperte da Garegnani, col rammarico naturalmente che
egli non sia ancora qui per poterle discutere (ma forse Franklin ha avuto modo
di discuterne con lui).
La prima
questione riguarda il concetto di “domanda finale” quale determinante ultima
degli investimenti.[8]
Garegnani vi include i consumi indotti (dal reddito e in particolare dal
livello dei salari reali), i consumi pubblici e le esportazioni nette. E’
tuttavia questionabile che una componente indotta, come i consumi indotti,
possa far da traino a una seconda componente indotta, gli investimenti. In
realtà sarebbe più coerente considerare come “domanda finale” solo quella parte
dei consumi che è indipendente dal reddito (i cosiddetti consumi autonomi), i
consumi pubblici (e gli investimenti pubblici non indotti da considerazioni di
domanda), e le esportazioni. Questo non significa che il livello dei salari
reali non abbia influenza su domanda e investimenti, l’avrà attraverso le
variazioni della propensione marginale al consumo, come accenneremo fra poco.
Curiosamente inoltre, Garegnani sembra compiere il medesimo errore di Kalecki
nell’includere nella domanda finale solo le esportazioni nette (nette dalle
importazioni) e non le esportazioni tout
court (Kalecki includeva solo le esportazioni nette nei “mercati esterni”,
v. Serrano 2008, pp. 13-4). Per capire perchè questo non è corretto, basti
pensare che se applicassimo la medesima logica alla politica fiscale, solo la
spesa in disavanzo avrebbe effetti espansivi, contro ai risultati del ben noto
moltiplicatore del bilancio in pareggio (e infatti né Garegnani né Kalecki
fanno questo secondo errore e correttamente includono tutta la spesa pubblica
in ciò che rispettivamente definiscono domanda finale e mercati esterni).[9]
Una seconda
questione riguarda un quesito che Garegnani si pone proprio in coda alla parte
empirica. In questa egli aveva studiato, come sopra ricordato, la possibilità
di incrementare l’occupazione di 350 mila unità attraverso un maggiore
ammontare di investimenti nell’arco di sei anni, valutando se questo fosse
stato permesso da un più elevato grado di utilizzo della capacità installata (e
di quella di nuova installazione) senza gravare in maniera troppo onerosa sulla
bilancia dei pagamenti. Il quesito che si pone Garegnani è se, tuttavia, tale
investimento fosse giustificato dall’incremento atteso della domanda da esso
stesso generato, a ben vedere un quesito molto harroddiano (sebbene Harrod non
venga mai menzionato):[10]
”Occorre infatti considerare che l’aumento di
reddito che avrebbe origine da un’espansione delle attività industriali e
terziarie (le sole capaci di fornire occupazione addizionale) non sarebbe in sé
sufficiente a fornire la domanda per i prodotti ottenuti con quella espansione.
Una parte di quel reddito verrebbe infatti risparmiata, o opera su beni
importati, o opera su beni e servizi provenienti dall’agricoltura. Si ha così
un vuoto di domanda che può essere colmato
soltanto da ulteriori investimenti, esportazioni, o aumenti dei consumi.
Se questo vuoto non viene colmato, gli impianti addizionali non possono essere
profittevolmente utilizzati e, prima ancora, non vi è incentivo a compiere gli
investimenti destinati a porli in essere” (ibid p. 150).
Le stime di
Garegnani in merito sono pessimistiche, vale a dire l’incremento di produzione
e reddito che conseguirebbe dall’aumento di capacità produttiva tale da
occupare 550 mila unità aggiuntive (350 mila nel manifatturiero + 200 mila nel
terziario) non avrebbe generato spontaneamente un aumento adeguato della
domanda, rendendo così gli investimenti effettuati “ingiustificati”:
“nelle ipotesi qui considerate, la domanda originata
da un generale incremento di occupazione nel settore industriale e terziario
potrebbe da sé fornire domanda soltanto per il 65% della roduzione addizionale.
Se non si fosse avuta una domanda d’altra origine le nuove capacità produttive
anche se si fossero costituite, non avrebbero potuto essere utilizzate: il loro
utilizzo avrebbe dovuto avvenire in perdita” (ibid p. 154).
La via d’uscita
che Garegnani avanza è che o sarebbe stato necessario un incremento della
domanda sotto forma di ulteriori investimenti - che però solo procrastinerebbe
il problema in avanti[11] - o sotto forma di
maggiori esportazioni e/o maggiori consumi:
“Il vuoto di domanda che … si crea avrebbe dovuto
essere colmato da un ulteriore incremento di investimenti (per le capacità
produttive originate dai quali si presenterebbe poi lo stesso problema) o da un
incremento delle esportazioni, o da un generale incremento dei consumi dei
prodotti dei settori industriali e terziari. In un primo tempo il problema
avrebbe potuto essere risolto dalla domanda di investimenti necessari per
espandere i settori dell’agricoltura e delle abitazioni in corrispondenza
dell’espansione della domanda ad essi rivolta, ma una volta realizzata quell’espansione
il problema si riproporrebbe” (ibid, pp. 154-5).[12]
Lo Studio Svimez
si chiude dunque con questo puzzle invero un po’ pessimista circa l’adeguatezza
strutturale della domanda aggregata nel capitalismo. Ciò che Garegnani sta
anche suggerendo per colmare il “vuoto di domanda” - ulteriori investimenti
(che però solo procrastinerebbero il problema) o un aumento delle esportazioni
(o dei consumi) - ricorda la problematica di Michal Kalecki nel famoso saggio
del 1967.[13]
L’impatto del numero speciale di RoPE
E’ mia
presunzione che una razionalizzazione di alcune di queste questioni è possibile
avendo come punto di riferimento l’analisi del supermoltiplicatore riproposta
negli scorsi decenni da Heinrich Bortis, Franklin Serrano e altri – a cui lo
studio di Ackley del 1963 e per molti aspetti quello di Garegnani del 1962, oltre
naturalmente ai saggi di Kalecki (1934, 1967) sui mercati esterni, aprono la
strada. Nell’affermare questo sono consapevole dei limiti dei modelli in
economia, limiti da cui Garegnani ci ha sempre invitato a stare in guardia.
Però un modello può servire a verificare certe relazioni e conclusioni. Per
esempio, la non inclusione dei consumi indotti nella “domanda finale”, che va
ristretta alle componenti autonome che non creano capacità produttiva,[14]
permette di poter affermare che variazioni dei salari reali hanno effetti di livello sul reddito (o sul sentiero di
crescita), via gli effetti sulla propensione marginale al consumo, ma non sul tasso di crescita. Un effetto sui tassi di crescita v’è invero nella
transizione fra un sentiero di crescita e l’altro, e questo ci rimanda a una
valutazione empirica della faccenda.[15]
Credo di poter
anche dire che, con il moltiplicarsi delle prove di una sufficiente stabilità
del supermoltiplicatore, cadano anche le iniziali critiche che quest’ultimo
presupponesse un tasso di crescita delle componenti autonome tale da indurre un
livello di investimenti pari ai risparmi di capacità (sicché da ultimo
sarebbero stati questi ultimi a governare la crescita). Al contrario, nel modello
del supermoltiplicatore sono i risparmi di capacità ad aggiustarsi agli
investimenti determinati dall’andamento medio, nelle circostanze
storico-politiche date, della domanda autonoma. Mentre per la risposta a queste
e altre critiche si rimanda a Cesaratto (2015) e Freitas e Serrano (2015), mi
sembra importante sottolineare come l’idea della crescita tirata dalla “domanda
finale”, o dai “mercati esterni” o dalla domanda autonoma, concetti largamente
coincidenti, è anche fondamentalmente legata all’analisi delle crisi
finanziarie nel capitalismo, laddove queste sorgano dall’indebitamento dei
soggetti che effettuano le spese finali/esterne/autonome – come per esempio la
spesa per consumi autonomi e abitazioni, o l’indebitamento estero degli Stati che
sorreggono con le proprie importazioni il mercantilismo dei Paesi export-led.
E’ infine motivo
di soddisfazione che non solo il numero speciale di RoPE sia stato guardato nel
suo complesso con apprezzamento a livello internazionale, ma che due paper,
quello di Freitas e Serrano e, si parva licet, il mio, abbiano dato l’innesco a
un grande interessamento da parte del filone eterodosso di teoria della
crescita ancora dominante, vale a dire quello neo-kaleckiano, verso il
supermoltiplicatore.[16] Il che significa
che quando a un lavoro critico[17] se ne accompagna
uno propositivo, la Moderna Teoria Classica può compiere significativi passi in
avanti.
Referenze
Ackley, G. (1957) Analisi "keynesiana" e problemi economici italiani, Moneta e credito, vol 10, N° 39 (1957)
Barca, F. (1997), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad
oggi, Bari, Laterza.
Bortis, H.
(1997) Institutions, Behaviour and Economic Theory: A
Contribution to Classical-Keynesian Political Economy
(Cambridge: Cambridge University Press).
Cesaratto, S.
(2011), L’eredità di Garegnani è nella politica economica,
http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2011/10/leredita-di-garegnani-e-nella-politica.html
Cesaratto, S. (2015) Neo-Kaleckian and
Sraffian Controversies on the Theory of Accumulation, in Review of Political
Economy, 27 (2), 154-182.
Cesaratto, S. (2016a), Initial and Final Finance in the Monetary Circuit and the Theory of
Effective Demand, Metroeconomica, version online: 24
MAY 2016 | DOI: 10.1111/meca.12132
Cesaratto, S. (2016b) The State Spends First: Logic,
Facts, Fictions, Open Questions, Journal
of Post Keynesian Economics, 39 (1), 44-71.
Cesaratto,
S., Stirati, A. & Serrano, F. (2003) Technical change, effective demand and
employment, Review of Political Economy,
15, pp. 33–52.
Cesaratto,
S. and Mongiovi, G. (2015) Pierangelo Garegnani, the Classical Surplus Approach
and Demand-led Growth. A Symposium, Review of Political Economy,
27 (2), 103-110
Ciampalini, A. e
Vianello, F. (2000) Concorrenza, accumulazione del capitale e saggio del
profitto. Critica del moderno sottoconsumismo, in: M. Pivetti (Ed.) Piero Sraffa: contributi per una biografia intellettuale (Roma: Carocci).
Committeri,
M. (1986) Some comments on recent contributions on capital accumulation, income
distribution and capacity utilization, Political Economy: Studies in the Surplus
Approach, 2(2), pp.161–186.
Freitas F., Serrano F. (2015): ‘Growth rate and
level effects, the adjustment of capacity to demand and the Sraffian Supermultiplier, Review of
Political Economy, 27(3), pp. 258-281.
Garegnani, P. 1960. Il capitale nelle teorie della distribuzione. Milano: Giuffre´.
Garegnani, P. 1962. Il problema della domanda
effettiva nello sviluppo economico italiano, Roma, Svimez.
Garegnani, P. 1964-65
“Note su consumi, investimenti e domanda effettiva, part I.” Economia Internazionale vol. 17: 591–631; vol. 18: 575–617.
Garegnani, P. (1978‒79) Notes on consumption, investment
and effective demand, parts I & II, Cambridge Journal of Economics,
2 & 3, pp. 335‒353, 63‒82.
Garegnani, P. (1979a), “Note su consumi, investimenti e domanda effettiva”,
in ID, Valore e domanda effettiva,
Torino, Einaudi.
Garegnani, P. (1979b), “Di un cambiamento della nozione di equilibrio”, in
ID, Valore e domanda effettiva,
Torino, Einaudi.
Garegnani, P. 1992. “Some Notes for an Analysis of Accumulation.” In Beyond
the Steady-State, edited by J. Halevi, D. Laibman and E. J.
Nell, 47–71. Basingstoke: Macmillan.
Garegnani, P. (2015) On the factors that determine the volume of
investment, English translation of chapters III & IV of Garegnani (1962), Review of Political Economy, 27 (2), pp.
Kalecki M.
(1934), On Foreign Trade and ‘Domestic Exports’, in Kalecki (1971)
Kalecki M. (1967), The Problem of
Effective Demand with Tugan-Baranowski and Rosa Luxemburg, in Kalecki (1971)
Kalecki, M. (1971). Selected Essays on the Dynamics of the
Capitalist Economy 1933 – 1970. Cambridge: Cambridge University Press.
Lavoie, M. (2016a)
Convergence Towards the Normal Rate of Capacity Utilization in Neo-Kaleckian
Models: The Role of Non-Capacity Creating Autonomous Expenditures, Metroeconomica.
Lavoie, M. (2016b) Prototypes, Reality and the Growth Rate of Autonomous Consumption Expenditures: A Rejoinder, Metroeconomica, 12 September 2016,
Palumbo,
A. e Trezzini, A. (2003) Growth without normal capacity
utilization, European Journal
of the History of Economic Thought,
10, pp. 109–135.
Petri,
F. (1994) The Golden Age,
investment, efficiency wages: a review article, Economic Notes, 23, pp. 142–159.
Petri, F. (2001),
Pierangelo Garegnani, in P.Arestis, M.C. Sawyer, A Biographical Dictionary of Dissenting Economists, Edward Elgar.
Serrano, F. (2008) Kalecki y la economia americana en los anos
2000, Circus, 1, pp. 7-24.
Sraffa, P. (1960,
Produzione di merci a mezzo di merci,
Einaudi, Torino.
Trezzini,
A. (2011) Steady state and the analysis of long-run tendencies: the case of
Kaleckian models, in: R.Ciccone, C. Gehrke & G. Mongiovi,
G. (Eds) Sraffa and Modern Economics,
Vol. 2 (London: Routledge).
Vianello, F. (1989) Effective demand and the rate of profits.
Some thoughts on Marx, Kalecki and Sraffa, in: M. Sebastiani (Ed.) Kalecki’s Relevance Today (London:
Macmillan).
[1] Con una
problematica simile esordisce Gardner Ackley, fra i frequentatori della Svimez,
in un articolo del 1957: “Durante un mio soggiorno di studio in Italia ho
spesso notato tra gli economisti italiani riserve e dubbi circa l’applicabilità
dell’analisi <keynesiana> allo studio dei problemi economici del loro
Paese” (p. 271). E più avanti si precisa: “Secondo alcuni economisti italiani,
il principale problema economico dell’Italia è la scarsità di risparmio, intesa
spesso come una deficienza di fondi prestabili rispetto alle domande dei
mutuatari (Governo e imprese bisognose di disponbilità per programmi di
investimento). Di qui la tentazione, aggiungono questi economisti, di ricorrere
alla creazione di moneta (direttamente e indirettamente) per fornire i fondi
richiesti. Ma la creazione di moneta, almeno oltre un certo limite, ha effetti
inflazionistici. Onde la scarsità di risparmio significa minaccia di
inflazione” (ibdi p. 273). Le risposte di Ackley agli “economisti italiani” nel
1957 sono però diverse da quelle di Garegnani, ma auna prima approssimativa
ispezione sembrano ben più vicine in un successivo studio pubblicato nel 1963
per la Svimez, come accenneremo più avanti.
[2] Si veda anche
Garegnani (1979a), p. 6.
[3] Impieghiamo il
termine “risparmi di capacità” sì da comprendere sia le economie avanzate, in
cui gli impianti sono, in generale, sufficienti a offrire un impiego potenziale
a tutta la forza lavoro (economie per le quali si potrebbe utilizzare anche
l’espressione “risparmi di pieno impiego”); che le economie più arretrate in
cui lo stock di capitale non è sufficiente, neppure se pienamente utilizzato, a
offrire occupazione a tutta la forza lavoro (Paesi con disoccupazione
strutturale). Invero, Garegnani indulge a impiegare il termine “risparmi di
pieno impiego” per ambedue le economie.
[4] In italiano
Garegnani (1964, 1965), e in inglese (1978, 1979).
[5] Su questa
definizione torneremo più avanti.
[6] Gli incrementi
di occupazione sarebbero stati in realtà, secondo Garegnani, più cospicui
includendo 200 mila occupati addizionali nel terziario (ibid, p. 145 e succ.).
Gli investimenti originariamente effettuati nel settore manifatturiero avrebbero
consentito la produzione dei beni di investimento necessari a tale espansione
del terziario che avrebbe così, a sua volta, rafforzato l’utilizzo della
capacità produttiva addizionale istallata nel manifatturiero. Incidentalmente,
Garegnani sembra intendere per “industria” il settore manifatturiero, con
l’esclusione dunque del settore delle costruzioni.
[7] “In realtà, il
contrasto tra questa formulazione e l’usuale dottrina keynesiana è più
apparente che reale. Il tipico rimedio keynesiano contro la disoccupazione, la
richiesta di una maggiore spesa (o aumento di ambedue le componenti, C e I,
o aumento di I senza riduzione di C), si riferisce a un singolo istante o
periodo di tempo. Il rimedio alla disoccupazione per l’Italia, che richiede un
aumento di I a detrimento di C, si
riferisce a due diversi periodi di tempo. Un semplice mutamento nella
composizione della domanda complessiva – più I e meno C – non influenza la
domanda complessiva o l’occupazione attuali; esso è destinato unicamente a
favorire una maggiore occupazione in un successivo periodo di tempo. E’ ancora
vero che, fino ai limiti posti dalla capacità produttiva, è la dimensione
totale e non la composizione della domanda complessiva che importa per
l’occupazione attuale. Ma se la domanda complessiva è oggi adeguata per un
funzionamento dell’economia ai limiti della capacità e se la capacità è
limitata da carenza di capitale, allora un cambiamento nella composizione
dell’attuale domanda globale (in direzione degli investimenti) può permettere
in futuro un livello di occupazione più elevato di quello che si avrebbe senza
un tal mutamento qualitativo” (Ackley, 1957, p. 278, corsivo nell’originale).
[8] Una seconda
influenza è quella del progresso tecnico. Su questa influenza Cesaratto,
Serrano e Stirati (2003) hanno espresso un parere diverso.
[9] In sostanza
Garegnani e Kalecki partono dalla definizione di domanda aggregata AD = C + I +
G + (E- M) (i simboli sono quelli consueti da libro di testo), ed escludono gli
investimenti (I) in quanto componente indotta. Ma anche la parte dei consumi
che dipende dal reddito e le importazioni (che anch’esse dipendono dal reddito)
sono componenti indotte e vanno perciò escluse. Rimangono dunque consumi
autonomi, spesa pubblica ed esportazioni, componenti finanziate dalla creazione
endogena di moneta (Cesaratto 2016 a e 2016b). [Sulla base del breve resoconto
dal sito della Svimez, anche Ackley (1963) sembra considerare solo le
esportazioni nette nella domanda autonoma].
[10] Questo può
riflettere lo scetticismo di Garegnani nei confronti dei modelli d crescita prevalenti
(ibid, p. II). Un aspetto da verificare al riguardo è se è vero, come lessi,
che il Piano Vanoni fosse basato sul modello di Harrod, e come dunque questo
affrontasse le problematiche sollevate da quel modello.
[11] Nei passaggi
che seguono Garegnani sembra indicare nell’agricoltura e nel settore abitativo
come settori dove poterebbero aver luogo gli ulteriori investimenti.
[12] In nota
Garegnani osserva come: “Nelle nostre ipotesi circa l’espansione delle attività
terziarie il vuoto di domanda rivolta all’industria sarebbe stata dapprima
colmata in parte anche dalla domanda di beni di investimento destinati al
settore delle attività terziarie” (ibid, nota 1, p. 155)
[13] La prima via
evocata da Garegnani per colmare il vuoto di domanda, cioè di un ulteriore
aumento degli investimenti ricorda la soluzione (paradossale) che Kalecki (1967)
attribuisce a Tugan-Baranowski, produzione di beni di investimento per produrre
ulteriori beni di investimento. La seconda via, maggiori esportazioni o consumi
ricorda i “mercati esterni” di Rosa Luxemburg. Nelle conclusioni del proprio
studio anche Ackley (1963, p. 84) indica in un a crescita adeguata delle
componenti autonome la chiave per la stabilizzazione della crescita.[13]
[14] Come s’è detto, Garegnani
definisce la domanda finale sulla base delle componenti della domanda aggregata
che non creano capacità (1962, p. 92), ma includendovi anche le componenti
indotte.
[15] L’effetto di
una variazione dei salari reali sul tasso di crescita è il regno del modello
“wage-led” dei neo-kaleckiani. In effetti la prima reazione di Marc Lavoie dopo
che gli inviai la traduzione della seconda parte dello Studio Svimez fu che
Garegnani stava dando ragione a questa impostazione. Alla luce del
supermoltiplicatore possiamo dire che l’influenza positiva di un aumento dei
salari reali sul tasso di crescita sia un fenomeno relativo alla transizione
fra due sentieri di crescita i quale, naturalmente, può essere empiricamente rilevante
in determinate circostanze storiche. La reazione di Lavoie era ingiustificata
anche dietro un altro profilo: i modelli neo-kaleckiani sono pieni di ipotesi
insostenibili messe da tempo in luce, fra gli altri, dagli economisti
sraffiani: Committeri (1986), Vianello (1989), Ciampalini e Vianello (2000),
Petri (1994), Palumbo e Trezzini (2003), Trezzini (2011), Cesaratto (2015),
Freitas e Serrano (2015).
[16] Con la consueta
cortesia Marc Lavoie ha recentemente scritto che l’obiettivo principale del suo
lavoro sul supermoltiplicatore (Lavoie 2016a) è stato quello di “stabilire un
nesso con la letteratura sul ruolo della spesa autonoma non-creatrice di
capacità produttiva, che nella mia opinione è stata ingiustamente trascurata
dagli autori eterodossi, me incluso, negli ultimi 20 anni” (Lavoie 2016b, p. 1,
mia traduzione). Non tutti gli altri economisti neo-kaleckiani hanno, ahimè,
mostrato altrettanta delicatezza nel riconoscere con la dovuta enfasi i meriti
in particolare di Serrano.
[17] Si veda sopra
la nota 15 .
Nessun commento:
Posta un commento