sabato 15 ottobre 2016

Anni di alta teoria (e non solo): Garegnani alla Svimez

Pubblichiamo il mio intervento all'incontro organizzato dalla Svimez e dal Centro Sraffa



Lo “Studio Svimez” di Garegnani del 1962 – Note preliminari
Sergio Cesaratto
Cesaratto@unisi.it
Anni di alta teoria
Non c’è stato modo di rintracciare con chiarezza quale sia stato il rapporto formale di Garegnani con la Svimez, il che avrebbe implicato un lavoro d’archivio presso l’associazione. Nel saggio “Note su consumi, investimenti e domanda effettiva”, basato sulla prima parte dello “Studio Svimez” (Garegnani 1962), come per brevità lo definiremo qui, e pubblicato in italiano da Economia internazionale nel 1964-65, Garegnani stesso ci informa che lo Studio fu steso nel 1960-61 e pubblicato in forma ciclostilata (“per uso interno degli uffici”) nel 1962. Quello che sappiamo dalle note biografiche di Fabio Petri (2001), per le quali posso immaginare si sarà avvalso di Garegnani, quest’ultimo, conseguito il dottorato a Cambridge, dal 1958 è a Roma assistente di Volrico Travaglini; è visiting al MIT nel 1961-62, e consegue la cattedra nel 1963 a Sassari (dove era stato però assistente nei due anni precedenti). Anni molto intensi dunque. Nel Rapporto Svimez Garegnani non ringrazia nessuno in particolare, mentre in “Note su consumi” egli ringrazia “per i loro commenti ai manoscritti dell’articolo i professori Claudio Napoleoni, Sergio Steve, Paolo Sylos-Labini, Volrico Travaglini” (Garegnani 1979, p. 4). Da un resoconto di  Fabrizio Barca, la Svimez di Pasquale Saraceno della seconda metà degli anni cinquanta emerge come un vero e proprio “ufficio studi dei governi che videro Ferrari Aggradi, Vanoni, Campilli e La Malfa alla guida dei principali ministeri economici” (Barca 1997, p. 603). I collaboratori stranieri includevano i maggiori studiosi dello sviluppo come Colin Clark, Vera Lutz, Gardner Ackley, Richard Echaus, Hollis Chenery (manca Raùl Prebisch). Nel consiglio direttivo sedevano Paul Rosenstein Rodan, Jan Timbergen e Robert Marjolin. Interessante che il Piano Vanoni, che Garegnani prende a riferimento nella parte empirica dello Studio Svimez, “venne sicuramente elaborato nella sede romana della Svimez” e dovuto “soprattutto alla stesura di Saraceno” (ibid, p. 604). Nel giudizio di Saraceno, scrive Barca, le politiche meridionaliste nella fase successiva alla ricostruzione dovevano realizzare l’azione coordinata di due modelli: quello del Centro-Nord sostenuto dalla domanda e quello del Sud sostenuto dall’offerta” (ibid, p. 605).

La problematica: Keynes in economie a stadio intermedio di sviluppo
La problematica dello Studio Svimez si riferisce all’applicabilità della proposizione keynesiana dell’indipendenza degli investimenti dai risparmi ad economie “sottosviluppate” (come erano all’epoca definite) o a uno stadio intermedio di sviluppo come quella italiana. Osserva Garegnani nell’introduzione allo Studio:
“la teoria economica dà a volte l’impressione d’essere divisa come in due compartimenti stagni. L’uno si riferisce ad economie sviluppate per le quali si ammette, per lo più, che aumenti dei consumi non comportino diminuzioni degli investimenti e possano anzi, tranne che in situazioni di generale eccesso di domanda effettiva, favorirne l’aumento. L’altro si riferisce a economie sottosviluppate per le quali si suppone invece, in generale, che aumenti dei consumi comportino diminuzioni dei risparmi e degli investimenti” (Garegnani 1962, p. ii).[1]
Questo non è completamente ingiustificato, precisa Garegnani, in quanto “nelle economie sottosviluppate si richiede soprattutto lo sviluppo dell’attrezzatura produttiva piuttosto che di beni di consumo” (ibidem). Purtuttavia, aggiunge, “[a]ppare però che relativamente poca attenzione sia stata prestata all’importanza che fenomeni di domanda effettiva possono avere sullo sviluppo della capacità produttiva nel secondo tipo di economia” (ibid, p. ii-iii, sottolineatura nell’originale). E in nota Garegnani precisa:
“Questo è probabilmente dovuto in parte a una scarsa attenzione prestata all’ambiente istituzionale in cui lo sviluppo deve aver luogo. E’ chiaro infatti che in un’economia completamente pianificata problemi di domanda possono essere il risultato solo di cattiva pianificazione” (ibid, p. iii).
Quello che Garegnani suggerisce, e chiarisce nei passi successivi, è che in economie “sottosviluppate” non pianificate, le forze di mercato non assicurano affatto che la capacità produttiva, per quanto insufficiente ad assicurare il pieno impiego delle forze di lavoro, sia a sua volta pienamente utilizzata.[2] Questa situazione è reputata da Garegnani ancor più rilevante in economie a uno stadio intermedio di sviluppo e con caratteristiche “dualistiche” come quella italiana. Il mancato pieno utilizzo della capacità già installata, per il mancato incentivo da parte della politica economica a un volume adeguato di investimenti, avrebbe secondo Garegnani un “effetto cumulativo di riduzione della capacità futura di accumulazione assai importante nel condizionare lo sviluppo” (ibidem). Come si vede, v’è in Garegnani la compresenza degli investimenti sia come componente decisiva della domanda aggregata, che come variazione dello stock di attrezzature: la debolezza degli investimenti sotto il primo profilo porta a un sottoutilizzo degli impianti e a un mancato sfruttamento delle capacità di accumulazione, e con essa un mancato riassorbimento della disoccupazione strutturale, caratteristica delle economie in ritardo. In questo senso, conclude Garegnani, la “ipotesi keynesiana” (come egli la definì più tardi sulla scorta di Kaldor, Garegnani 1992, p. 47) circa l’indipendenza degli investimenti dai risparmi tanto nel breve quanto nel lungo periodo, ha persino più pregnanza per un’economia quale quella italiana rispetto a economie più avanzate, nelle quali un “eccesso” di investimento troverebbe strozzature dal lato dell’offerta di lavoro:
“il principio dell’indipendenza degli investimenti privati dai risparmi [può] avere per un’economia come quella italiana un’importanza maggiore di quella che essa ha in economie dove l’attrezzatura produttiva esistente è di già adeguata ad assorbire tutta l’offerta di lavoro. Nel secondo tipo di economie infatti mancati utilizzi di risparmi potenziali, se contenti entro certi limiti, non rappresentano perdite considerevoli per la collettività poiché l’espansione dell’attrezzatura produttiva incontrerebbe comunque un limite nella disponibilità di lavoro addizionale richiesto per impiegarla; non è evidentemente così in un’economia come quella italiana.” (Garegnani 1962, p.vi; v. anche p. 82).
Nelle economie del primo tipo la perdita consisterebbe dunque meramente “della produzione di beni di consumo ottenuti dagli impianti rimasti inutilizzati per il tempo in cui sono rimasti inutilizzati” (ibid, p. 82); mentre per le economie del secondo tipo:
“La perdita causata alla collettività da deficienze anche piccole degli investimenti rispetto ai risparmi di pieno impiego, da margini cioè anche piccoli di capacità produttiva inutilizzata, però allora diviene considerevole. La perdita è infatti costituita non soltanto dai prodotti ottenibili colla capacità rimasta inutilizzata per il periodo in cui si è avuta la deficienza di domanda. Essa consiste anche dei prodotti che sarebbe stato possibile ottenere in futuro dagli ampiamenti di attrezzatura produttiva risultante dall’utilizzo per investimenti della capacità inutilizzata. Poiché questo secondo elemento di perdita non è limitato nel tempo come il primo ed è cumulativo, esso assume dimensioni che – quando si considerino periodi di tempo misurabili in decenni, quali sono quelli a cui una politica di sviluppo è riferita – di gran lunga superano quelle del primo elemento di perdita” (ibid, p. 83, sottolineatura nell’originale).
La rilevanza dell’analisi keynesiana per Paesi come l’Italia ha due aspetti connessi. Da un lato essa smentisce il precetto di politica economica tradizionale per cui il maggior volume di investimenti necessario per assorbire la disoccupazione strutturale possa derivare da una più elevata propensione al risparmio, e dall’altro che data la capacità esistente vi siano meccanismi che assicurino un livello di investimenti adeguato ai risparmi potenziali (o di capacità, quelli relativi al reddito che consegue a un pieno utilizzo degli impianti):[3]
“Quando …la teoria keynesiana nega la propensione tradizionale secondo cui ad ogni aumento della propensione al risparmio della collettività, corrisponde un aumento degli investimenti, essa afferma qualcosa che è valido per qualsiasi economia di mercato ed è quindi valido indipendentemente dall’esistenza o meno di una eccedenza di lavoro.
Per questo secondo aspetto, prevalentemente critico, la teoria di Keynes non è meno importante per l’economia italiana di quanto lo sia per economie “ricche”. Essa infatti pone in luce come lo sviluppo dell’attrezzatura produttiva non possa in generale essere ottenuto concentrando la politica economica in quelle misure che sono atte a provocare un aumento della propensione al risparmio della collettività. Essa conduce invece a concentrare l’attenzione sui fattori da cui dipende l’alto o basso livello degli investimenti che devono dar luogo ad espansione dell’attrezzatura produttiva e ad occupazione addizionale permanente. L’aumento della propensione al risparmio che per la teoria tradizionale era la condizione necessaria e sufficiente per questa espansione, non appare sufficiente. Essa può non essere neppure necessaria poiché i risparmi necessari per l’aumento degli investimenti possono risultare, in un primo tempo, da un più pieno utilizzo della capacità produttiva disponibile e, in un secondo tempo, dall’espansione della capacità produttiva che si viene realizzando.
Vi è un senso nel quale sembra possibile affermare che la propensione centrale della teoria di Keynes può avere per l’economia italiana un’importanza maggiore che per le economie ‘ricche’” (ibid, pp. 81-82, sottolineatura nell’originale).
La discussione circa la tesi keynesiana dell’indipendenza degli investimenti dai risparmi, e più precisamente dell’assenza di forze che adeguino gli investimenti ai risparmi di capacità, è dunque secondo Garegnani rilevante tanto con riguardo alle economie sviluppate che a quelle in ritardo. La questione si ripercuote di conseguenza “sulle discussioni correnti in Italia sulla politica salariale più adatta a favorire lo sviluppo dell’occupazione” (ibid, p. iv). I termini della questione sono ben noti: se fosse vera la tesi tradizionale che vede l’offerta di risparmio come determinante delle capacità di accumulazione di un paese, un aumento dei salari reali non potrebbe che  incidere negativamente sull’accumulazione attraverso una minore propensione al risparmio; viceversa, la validità della tesi keynesiana porterebbe a domandarsi se, invece, un aumento dei salari reali non possa agire di stimolo agli investimenti privati.
L’argomentazione
Le tesi della prima parte dello Studio Svimez sono state da tempo pubblicate[4] e sono dunque ben note: Garegnani mostra come i risultati della critica alla teoria marginalista del capitale che lui (Garegnani 1960) e  Sraffa (1960) avevano da poco pubblicato fossero funzionali a liberare Keynes dai “lacci e lacciuoli” che legavano la sua teoria al marginalismo e che ne avevano permesso il rapido riassorbimento nell’alveo tradizionale, relegandone i risultati alla spiegazione di periodi di particolare depressione degli investimenti. Si tratta in particolare della dimostrazione della non generalità di una relazione decrescente fra investimenti e tasso d’interesse, laddove quest’ultimo fungeva nella teoria tradizionale da prezzo che fa adeguare le decisioni di investimento ai risparmi di capacità. Dimostrata l’invalidità di questo retaggio marginalista della Teoria Generale, resta così confermata la proposizione più innovativa di quest’opera: che nei limiti della capacità produttiva esistente, è il livello dei risparmi ad adeguarsi alle decisioni di investimento dei capitalisti tramite variazioni del reddito (del grado di utilizzo).
Quella di Garegnani resta per molti di noi la reinterpretazione del pensiero di Keynes più robusta. Questo di contro alle interpretazioni più diffuse in campo post-keynesiano che enfatizzano altri aspetti dell’analisi keynesiana come incertezza, aspettative e animal spirits quali determinanti degli investimenti. Questi sono giudicati da Garegnani elementi troppo soggettivi e nebulosi per essere di base a una solida teoria dell’accumulazione (1979b, p. 114-116). Ma anche contro la tesi prevalente fra i keynesiani del mainstream – oggi rappresentati per esempio da Stiglitz e Krugman - che riducono il caso keynesiano a periodi di particolare depressione degli investimenti, quando questi si mostrano poco sensibili ai tassi d’interesse, oppure di “trappola della liquidità” (Garegnani 1962, pp. 56-64). Più in generale, secondo la vulgata mainstream, condivisa talvolta anche da economisti “eterodossi” (come Duncan Foley), i risultati di Keynes sarebbero validi nel breve periodo quando i fattori ciclici sono prominenti, mentre in media nel lungo i risparmi di pieno impiego riprenderebbero il loro ruolo di determinante degli investimenti.
 I risultati della critica in tema di teoria marginalista del capitale portano naturalmente a smentire l’adeguamento degli investimenti dai risparmi di capacità tanto nel breve che nel lungo periodo. Ma Garegnani va oltre e nella seconda parte dello Studio Svimez si domanda attraverso quali meccanismi anche nel lungo periodo sono i risparmi ad adeguarsi agli investimenti. Ed oltre a ciò, egli conduce una esplorazione delle determinanti oggettive degli investimenti nel lungo periodo, e della relazione fra livello dei salari reali e decisioni di investimento. La risposta alla prima questione è che, come nel breve periodo - nei limiti della data capacità produttiva - maggiori decisioni di investimento determinano una maggiore offerta di risparmio attraverso un più elevato grado di utilizzo della capacità esistente, così nel lungo periodo le maggiori attrezzature installate attraverso un più completo utilizzo della capacità esistente consentiranno nel futuro un’offerta di risparmio potenziale adeguata a decisioni di investimento prese su scala ancora più allargata. In sintesi, mentre del breve periodo i risparmi si adeguano agli investimenti attraverso le variazioni nel grado di utilizzo della capacità esistente, nel lungo periodo l’adeguamento avviene attraverso le variazioni della capacità medesima. Questo appare forse ancor più chiaro prendendo il caso, già precedentemente richiamato, di un volume di investimenti inadeguato a impiegare la capacità esistente: mentre nel breve periodo i risparmi si adegueranno attraverso un minore grado di utilizzo della capacità, il perdurare di tale situazione porterebbe nel lungo periodo a distruzione della capacità in eccesso e dunque dei risparmi potenziali di questa economia.
“Abbiamo quindi che il principio dell’indipendenza degli investimenti dai risparmi il quale nel breve periodo può manifestarsi in una deficienza degli investimenti dai risparmi ottenibili col pieno impiego della capacità produttiva, si può manifestare nel periodo lungo anche in un minore sviluppo della capacità produttiva e quindi minori livelli dei risparmi di pieno impiego” (ibid, p. 78)
Circa la seconda questione relativa alle determinanti degli investimenti, Garegnani ha fondamentalmente l’idea che gli investimenti siano una componente indotta di ciò che definisce “domanda finale”, oltre a una quota che dipende dal progresso tecnico ed è dunque indipendente dalla domanda finale (ibid, pp. 91-92). Quest’ultima viene definita come “quella domanda il cui fine non è l’ulteriore produzione di beni all’interno dell’economia” comprendendo dunque la “domanda interna per beni di consumo” [privati e pubblici] e le “esportazioni al netto delle importazioni” (ibid, p. 92).[5] La domanda di beni di investimento viene esclusa dalla domanda finale in quanto, a parte la quota determinata dal progresso tecnico, essa dipende proprio ed è da ultimo giustificata dall’espansione della domanda finale. Garegnani richiama qui esplicitamente tanto il “principio dell’acceleratore” quanto l’esperienza comune per cui è la domanda di beni che premendo sulla capacità ne stimola l’espansione (ibid, p. 93). Ciò che ha offuscato questo principio “determinante” dello sviluppo economico è stata l’idea tradizionale dell’adeguamento degli investimenti ai risparmi di capacità per cui “gli investimenti e l’espansione del sistema produttivo apparivano completamente indipendenti dai mercati dei prodotti” la cui espansione “appariva soltanto come conseguenza della espansione del sistema produttivo senza alcuna possibilità di rovesciamento del rapporto causa ed effetto” (ibid, pp. 93-94).
Per rispondere alla terza questione, l’influenza dei salari reali sugli investimenti, siamo perciò rimandati allo studio degli effetti di variazioni dei salari reali su consumi e esportazioni, grandezze che a loro volta influenzano gli investimenti. La risposta di Garegnani è complessa (1962, pp. 98-104). Da un lato egli ritiene che più elevati salari reali possano esercitare attraverso una maggiore domanda finale per beni di consumo un effetto di incentivo agli investimenti privati; dall’altro, tuttavia, l’aumento dei salari può esercitare un effetto negativo sulle esportazioni e dunque sulla bilancia dei pagamenti (Garegnani sembra invece trascurare l’effetto della maggiore domanda di beni di consumo sulle importazioni). Il ragionamento di Garegnani è assai complesso (ma molto limpido), e si estende alla considerazione degli effetti di aumenti dei salari reali sul progresso tecnico (pp. 104-105).
Garegnani applicato
Contrariamente a qualche malevolo interprete di Garegnani (Cesaratto 2011), questi ha sempre mostrato uno straordinario interesse per l’economia applicata, ed ha sempre incitato i suoi allievi tanto al lavoro teorico quanto a “guardare ai ‘dati’”. Nella parte empirica dello Studio Svimez (ancora non pubblicata) Garegnani esamina la questione se nel periodo appena trascorso 1955-60 – che coincide sia con “miracolo economico” italiano che con la prima parte del periodo di previsione del Piano Vanoni - il Paese avrebbe potuto effettuare un volume di investimenti superiore a quello effettivo, in modo da generare 350 mila posti di lavoro addizionali (per effetto dell’allargamento della capacità produttiva) senza dover ridurre i consumi, dunque attraverso un più pieno utilizzo della capacità esistente, e senza generare pressioni insostenibili sulla bilancia dei pagamenti. Data la distribuzione lungo i sei anni degli investimenti addizionali, la nuova capacità progressivamente creata avrebbe agevolato gli investimenti successivi (ibid, p. 120). Per queste stime, che comprendono gli effetti diretti e indiretti dei maggiori investimenti, Garegnani utilizza una serie di fonti statistiche e ipotesi, incluse quelle adottate nel Piano Vanoni medesimo e la tavola delle interdipendenze strutturali per l’economia italiana per il 1956.
I risultati cui Garegnani perviene sono positivi nel senso che un investimento addizionale di 875 miliardi di lire (del 1953) lungo il periodo suddetto avrebbero consentito l’aumento di occupazione ipotizzato senza una riduzione dei consumi dei già occupati (ibid, p. 142). Il mancato incremento di investimenti avrebbe comportato, nelle stime di Garegnani, un mancato “incremento dell’occupazione che potremmo definire ‘keynesiano’ (un incremento di occupazione cioè ottenuto semplicemente con un aumento della domanda effettiva presente)” (ibid, p. 144) pari a 60-70 mila lavoratori in ciascuno dei sei anni, una cifra di per sé non considerevole. Tuttavia (ibidem)
“Tale disoccupazione ‘keynesiana” protrattasi per i sei anni 1955-60, ha però comportato un mancato incremento di attrezzatura produttiva nell’industria, che avrebbe potuto fornire 350.000 posti addizionali di lavoro, capace cioè di assorbire il 32% della disoccupazione ‘aperta’. Una disoccupazione ‘keynesiana’ relativamente piccola sembra perciò spiegare  già in un periodo di sei anni, una disoccupazione ‘strutturale’ considerevole.” (ibid, p. 144).[6]
Sulla scorta di questo risultato Garegnani si domanda come mai il settore privato non avesse effettuato quegli investimenti, e la risposta è che, evidentemente, esso non aveva ritenuto la domanda di prodotti tale “da giustificare questa espansione addizionale di capacità produttiva” (ibidem). Certamente, dunque, di ostacolo agli investimenti nel periodo esaminato non è stato il livello dei consumi, che anzi un minore aumento dei salari reali avrebbe inciso negativamente sull’accumulazione (ibid, p. 143).
Sarà assai interessante in un eventuale prosieguo di questa ricerca un confronto fra i risultati dell’analisi (e nel metodo di studio) di Garegnani, e quelli di Ackley l’anno successivo per la stessa Svimez. Mentre nel saggio del 1957 Ackley, in maniera (in un certo senso) deludente, dava credito allo scetticismo della maggioranza degli economisti italiani circa le politiche keynesiane argomentando che l’esistenza di “strozzature” avrebbe reso necessaria una sorta di politica dei due tempi nella composizione della domanda aggregata - una contrazione iniziale dei consumi per consentire un accrescimento degli investimenti e della capacità, seguita da un aumento dei consumi a sfavore degli investimenti una volta adeguata la capacità[7] - l’interpretazione avanzata nel 1963 appare (a una prima ispezione) non in contrasto con l’impostazione di Garegnani. Per comodità riporto qui la presentazione sintetica che ne fa la Svimez:
“Si tratta di un'interpretazione dello sviluppo dell'economia italiana nel corso degli « anni '50 ». Il rapido e continuo incremento dei reddito durante il decennio 1951-1960 viene infatti « spiegato » dal modello in base allo sviluppo, altrettanto rapido e continuo, delle componenti « autonome » della domanda effettiva, individuata nella spesa pubblica, nelle esportazioni nette e negli investimenti fissi realizzati nell'agricoltura, nelle abitazioni e, in parte, nel trasporti e nelle comunicazioni.”
I problemi lasciati aperti da Garegnani
Voglio segnalare alcune questioni lasciate aperte da Garegnani, col rammarico naturalmente che egli non sia ancora qui per poterle discutere (ma forse Franklin ha avuto modo di discuterne con lui).
La prima questione riguarda il concetto di “domanda finale” quale determinante ultima degli investimenti.[8] Garegnani vi include i consumi indotti (dal reddito e in particolare dal livello dei salari reali), i consumi pubblici e le esportazioni nette. E’ tuttavia questionabile che una componente indotta, come i consumi indotti, possa far da traino a una seconda componente indotta, gli investimenti. In realtà sarebbe più coerente considerare come “domanda finale” solo quella parte dei consumi che è indipendente dal reddito (i cosiddetti consumi autonomi), i consumi pubblici (e gli investimenti pubblici non indotti da considerazioni di domanda), e le esportazioni. Questo non significa che il livello dei salari reali non abbia influenza su domanda e investimenti, l’avrà attraverso le variazioni della propensione marginale al consumo, come accenneremo fra poco. Curiosamente inoltre, Garegnani sembra compiere il medesimo errore di Kalecki nell’includere nella domanda finale solo le esportazioni nette (nette dalle importazioni) e non le esportazioni tout court (Kalecki includeva solo le esportazioni nette nei “mercati esterni”, v. Serrano 2008, pp. 13-4). Per capire perchè questo non è corretto, basti pensare che se applicassimo la medesima logica alla politica fiscale, solo la spesa in disavanzo avrebbe effetti espansivi, contro ai risultati del ben noto moltiplicatore del bilancio in pareggio (e infatti né Garegnani né Kalecki fanno questo secondo errore e correttamente includono tutta la spesa pubblica in ciò che rispettivamente definiscono domanda finale e mercati esterni).[9]
Una seconda questione riguarda un quesito che Garegnani si pone proprio in coda alla parte empirica. In questa egli aveva studiato, come sopra ricordato, la possibilità di incrementare l’occupazione di 350 mila unità attraverso un maggiore ammontare di investimenti nell’arco di sei anni, valutando se questo fosse stato permesso da un più elevato grado di utilizzo della capacità installata (e di quella di nuova installazione) senza gravare in maniera troppo onerosa sulla bilancia dei pagamenti. Il quesito che si pone Garegnani è se, tuttavia, tale investimento fosse giustificato dall’incremento atteso della domanda da esso stesso generato, a ben vedere un quesito molto harroddiano (sebbene Harrod non venga mai menzionato):[10]
”Occorre infatti considerare che l’aumento di reddito che avrebbe origine da un’espansione delle attività industriali e terziarie (le sole capaci di fornire occupazione addizionale) non sarebbe in sé sufficiente a fornire la domanda per i prodotti ottenuti con quella espansione. Una parte di quel reddito verrebbe infatti risparmiata, o opera su beni importati, o opera su beni e servizi provenienti dall’agricoltura. Si ha così un vuoto di domanda che può essere colmato  soltanto da ulteriori investimenti, esportazioni, o aumenti dei consumi. Se questo vuoto non viene colmato, gli impianti addizionali non possono essere profittevolmente utilizzati e, prima ancora, non vi è incentivo a compiere gli investimenti destinati a porli in essere” (ibid p. 150).
Le stime di Garegnani in merito sono pessimistiche, vale a dire l’incremento di produzione e reddito che conseguirebbe dall’aumento di capacità produttiva tale da occupare 550 mila unità aggiuntive (350 mila nel manifatturiero + 200 mila nel terziario) non avrebbe generato spontaneamente un aumento adeguato della domanda, rendendo così gli investimenti effettuati “ingiustificati”:
“nelle ipotesi qui considerate, la domanda originata da un generale incremento di occupazione nel settore industriale e terziario potrebbe da sé fornire domanda soltanto per il 65% della roduzione addizionale. Se non si fosse avuta una domanda d’altra origine le nuove capacità produttive anche se si fossero costituite, non avrebbero potuto essere utilizzate: il loro utilizzo avrebbe dovuto avvenire in perdita” (ibid p. 154).
La via d’uscita che Garegnani avanza è che o sarebbe stato necessario un incremento della domanda sotto forma di ulteriori investimenti - che però solo procrastinerebbe il problema in avanti[11] - o sotto forma di maggiori esportazioni e/o maggiori consumi:
“Il vuoto di domanda che … si crea avrebbe dovuto essere colmato da un ulteriore incremento di investimenti (per le capacità produttive originate dai quali si presenterebbe poi lo stesso problema) o da un incremento delle esportazioni, o da un generale incremento dei consumi dei prodotti dei settori industriali e terziari. In un primo tempo il problema avrebbe potuto essere risolto dalla domanda di investimenti necessari per espandere i settori dell’agricoltura e delle abitazioni in corrispondenza dell’espansione della domanda ad essi rivolta, ma una volta realizzata quell’espansione il problema si riproporrebbe” (ibid, pp. 154-5).[12]
Lo Studio Svimez si chiude dunque con questo puzzle invero un po’ pessimista circa l’adeguatezza strutturale della domanda aggregata nel capitalismo. Ciò che Garegnani sta anche suggerendo per colmare il “vuoto di domanda” - ulteriori investimenti (che però solo procrastinerebbero il problema) o un aumento delle esportazioni (o dei consumi) - ricorda la problematica di Michal Kalecki nel famoso saggio del 1967.[13]
L’impatto del numero speciale di RoPE
E’ mia presunzione che una razionalizzazione di alcune di queste questioni è possibile avendo come punto di riferimento l’analisi del supermoltiplicatore riproposta negli scorsi decenni da Heinrich Bortis, Franklin Serrano e altri – a cui lo studio di Ackley del 1963 e per molti aspetti quello di Garegnani del 1962, oltre naturalmente ai saggi di Kalecki (1934, 1967) sui mercati esterni, aprono la strada. Nell’affermare questo sono consapevole dei limiti dei modelli in economia, limiti da cui Garegnani ci ha sempre invitato a stare in guardia. Però un modello può servire a verificare certe relazioni e conclusioni. Per esempio, la non inclusione dei consumi indotti nella “domanda finale”, che va ristretta alle componenti autonome che non creano capacità produttiva,[14] permette di poter affermare che variazioni dei salari reali hanno effetti di livello sul reddito (o sul sentiero di crescita), via gli effetti sulla propensione marginale al consumo, ma non sul tasso di crescita. Un effetto sui tassi di crescita v’è invero nella transizione fra un sentiero di crescita e l’altro, e questo ci rimanda a una valutazione empirica della faccenda.[15]
Credo di poter anche dire che, con il moltiplicarsi delle prove di una sufficiente stabilità del supermoltiplicatore, cadano anche le iniziali critiche che quest’ultimo presupponesse un tasso di crescita delle componenti autonome tale da indurre un livello di investimenti pari ai risparmi di capacità (sicché da ultimo sarebbero stati questi ultimi a governare la crescita). Al contrario, nel modello del supermoltiplicatore sono i risparmi di capacità ad aggiustarsi agli investimenti determinati dall’andamento medio, nelle circostanze storico-politiche date, della domanda autonoma. Mentre per la risposta a queste e altre critiche si rimanda a Cesaratto (2015) e Freitas e Serrano (2015), mi sembra importante sottolineare come l’idea della crescita tirata dalla “domanda finale”, o dai “mercati esterni” o dalla domanda autonoma, concetti largamente coincidenti, è anche fondamentalmente legata all’analisi delle crisi finanziarie nel capitalismo, laddove queste sorgano dall’indebitamento dei soggetti che effettuano le spese finali/esterne/autonome – come per esempio la spesa per consumi autonomi e abitazioni, o l’indebitamento estero degli Stati che sorreggono con le proprie importazioni il mercantilismo dei Paesi export-led.
E’ infine motivo di soddisfazione che non solo il numero speciale di RoPE sia stato guardato nel suo complesso con apprezzamento a livello internazionale, ma che due paper, quello di Freitas e Serrano e, si parva licet, il mio, abbiano dato l’innesco a un grande interessamento da parte del filone eterodosso di teoria della crescita ancora dominante, vale a dire quello neo-kaleckiano, verso il supermoltiplicatore.[16] Il che significa che quando a un lavoro critico[17] se ne accompagna uno propositivo, la Moderna Teoria Classica può compiere significativi passi in avanti.



Referenze
Ackley, G. (1957) Analisi "keynesiana" e problemi economici italiani, Moneta e credito, vol 10, N° 39 (1957)
Barca, F. (1997), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Bari, Laterza.
Bortis, H. (1997) Institutions, Behaviour and Economic Theory: A Contribution to Classical-Keynesian Political Economy (Cambridge: Cambridge University Press).
Cesaratto, S. (2011), L’eredità di Garegnani è nella politica economica, http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2011/10/leredita-di-garegnani-e-nella-politica.html
Cesaratto, S. (2015) Neo-Kaleckian and Sraffian Controversies on the Theory of Accumulation, in Review of Political Economy, 27 (2), 154-182.
Cesaratto, S. (2016a), Initial and Final Finance in the Monetary Circuit and the Theory of Effective Demand, Metroeconomica, version online: 24 MAY 2016 | DOI: 10.1111/meca.12132
Cesaratto, S. (2016b) The State Spends First: Logic, Facts, Fictions, Open Questions, Journal of Post Keynesian Economics, 39 (1), 44-71.
Cesaratto, S., Stirati, A. & Serrano, F. (2003) Technical change, effective demand and employment, Review of Political Economy, 15, pp. 3352.
Cesaratto, S. and Mongiovi, G. (2015) Pierangelo Garegnani, the Classical Surplus Approach and Demand-led Growth. A Symposium, Review of Political Economy, 27 (2), 103-110
Ciampalini, A. e Vianello, F. (2000) Concorrenza, accumulazione del capitale e saggio del profitto. Critica del moderno sottoconsumismo, in: M. Pivetti (Ed.) Piero Sraffa: contributi per una biografia intellettuale (Roma: Carocci).
Committeri, M. (1986) Some comments on recent contributions on capital accumulation, income distribution and capacity utilization, Political Economy: Studies in the Surplus Approach, 2(2), pp.161186.
Freitas F., Serrano F. (2015): ‘Growth rate and level effects, the adjustment of capacity to demand and the Sraffian Supermultiplier, Review of Political Economy, 27(3), pp. 258-281.
Garegnani, P. 1960. Il capitale nelle teorie della distribuzione. Milano: Giuffre´.
Garegnani, P. 1962. Il problema della domanda effettiva nello sviluppo economico italiano, Roma, Svimez.
Garegnani, P. 1964-65 “Note su consumi, investimenti e domanda effettiva, part I.” Economia Internazionale vol. 17: 591–631; vol. 18: 575–617.
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[1] Con una problematica simile esordisce Gardner Ackley, fra i frequentatori della Svimez, in un articolo del 1957: “Durante un mio soggiorno di studio in Italia ho spesso notato tra gli economisti italiani riserve e dubbi circa l’applicabilità dell’analisi <keynesiana> allo studio dei problemi economici del loro Paese” (p. 271). E più avanti si precisa: “Secondo alcuni economisti italiani, il principale problema economico dell’Italia è la scarsità di risparmio, intesa spesso come una deficienza di fondi prestabili rispetto alle domande dei mutuatari (Governo e imprese bisognose di disponbilità per programmi di investimento). Di qui la tentazione, aggiungono questi economisti, di ricorrere alla creazione di moneta (direttamente e indirettamente) per fornire i fondi richiesti. Ma la creazione di moneta, almeno oltre un certo limite, ha effetti inflazionistici. Onde la scarsità di risparmio significa minaccia di inflazione” (ibdi p. 273). Le risposte di Ackley agli “economisti italiani” nel 1957 sono però diverse da quelle di Garegnani, ma auna prima approssimativa ispezione sembrano ben più vicine in un successivo studio pubblicato nel 1963 per la Svimez, come accenneremo più avanti.
[2] Si veda anche Garegnani (1979a), p. 6.
[3] Impieghiamo il termine “risparmi di capacità” sì da comprendere sia le economie avanzate, in cui gli impianti sono, in generale, sufficienti a offrire un impiego potenziale a tutta la forza lavoro (economie per le quali si potrebbe utilizzare anche l’espressione “risparmi di pieno impiego”); che le economie più arretrate in cui lo stock di capitale non è sufficiente, neppure se pienamente utilizzato, a offrire occupazione a tutta la forza lavoro (Paesi con disoccupazione strutturale). Invero, Garegnani indulge a impiegare il termine “risparmi di pieno impiego” per ambedue le economie.
[4] In italiano Garegnani (1964, 1965), e in inglese (1978, 1979).
[5] Su questa definizione torneremo più avanti.
[6] Gli incrementi di occupazione sarebbero stati in realtà, secondo Garegnani, più cospicui includendo 200 mila occupati addizionali nel terziario (ibid, p. 145 e succ.). Gli investimenti originariamente effettuati nel settore manifatturiero avrebbero consentito la produzione dei beni di investimento necessari a tale espansione del terziario che avrebbe così, a sua volta, rafforzato l’utilizzo della capacità produttiva addizionale istallata nel manifatturiero. Incidentalmente, Garegnani sembra intendere per “industria” il settore manifatturiero, con l’esclusione dunque del settore delle costruzioni.
[7] “In realtà, il contrasto tra questa formulazione e l’usuale dottrina keynesiana è più apparente che reale. Il tipico rimedio keynesiano contro la disoccupazione, la richiesta di una maggiore spesa (o aumento di ambedue le componenti, C e I, o aumento di I senza riduzione di C), si riferisce a un singolo istante o periodo di tempo. Il rimedio alla disoccupazione per l’Italia, che richiede un aumento di I a detrimento di C, si riferisce a due diversi periodi di tempo. Un semplice mutamento nella composizione della domanda complessiva – più I e meno C – non influenza la domanda complessiva o l’occupazione attuali; esso è destinato unicamente a favorire una maggiore occupazione in un successivo periodo di tempo. E’ ancora vero che, fino ai limiti posti dalla capacità produttiva, è la dimensione totale e non la composizione della domanda complessiva che importa per l’occupazione attuale. Ma se la domanda complessiva è oggi adeguata per un funzionamento dell’economia ai limiti della capacità e se la capacità è limitata da carenza di capitale, allora un cambiamento nella composizione dell’attuale domanda globale (in direzione degli investimenti) può permettere in futuro un livello di occupazione più elevato di quello che si avrebbe senza un tal mutamento qualitativo” (Ackley, 1957, p. 278, corsivo nell’originale).
[8] Una seconda influenza è quella del progresso tecnico. Su questa influenza Cesaratto, Serrano e Stirati (2003) hanno espresso un parere diverso.
[9] In sostanza Garegnani e Kalecki partono dalla definizione di domanda aggregata AD = C + I + G + (E- M) (i simboli sono quelli consueti da libro di testo), ed escludono gli investimenti (I) in quanto componente indotta. Ma anche la parte dei consumi che dipende dal reddito e le importazioni (che anch’esse dipendono dal reddito) sono componenti indotte e vanno perciò escluse. Rimangono dunque consumi autonomi, spesa pubblica ed esportazioni, componenti finanziate dalla creazione endogena di moneta (Cesaratto 2016 a e 2016b). [Sulla base del breve resoconto dal sito della Svimez, anche Ackley (1963) sembra considerare solo le esportazioni nette nella domanda autonoma].
[10] Questo può riflettere lo scetticismo di Garegnani nei confronti dei modelli d crescita prevalenti (ibid, p. II). Un aspetto da verificare al riguardo è se è vero, come lessi, che il Piano Vanoni fosse basato sul modello di Harrod, e come dunque questo affrontasse le problematiche sollevate da quel modello.
[11] Nei passaggi che seguono Garegnani sembra indicare nell’agricoltura e nel settore abitativo come settori dove poterebbero aver luogo gli ulteriori investimenti.
[12] In nota Garegnani osserva come: “Nelle nostre ipotesi circa l’espansione delle attività terziarie il vuoto di domanda rivolta all’industria sarebbe stata dapprima colmata in parte anche dalla domanda di beni di investimento destinati al settore delle attività terziarie” (ibid, nota 1, p. 155)
[13] La prima via evocata da Garegnani per colmare il vuoto di domanda, cioè di un ulteriore aumento degli investimenti ricorda la soluzione (paradossale) che Kalecki (1967) attribuisce a Tugan-Baranowski, produzione di beni di investimento per produrre ulteriori beni di investimento. La seconda via, maggiori esportazioni o consumi ricorda i “mercati esterni” di Rosa Luxemburg. Nelle conclusioni del proprio studio anche Ackley (1963, p. 84) indica in un a crescita adeguata delle componenti autonome la chiave per la stabilizzazione della crescita.[13]
[14] Come s’è detto, Garegnani definisce la domanda finale sulla base delle componenti della domanda aggregata che non creano capacità (1962, p. 92), ma includendovi anche le componenti indotte.
[15] L’effetto di una variazione dei salari reali sul tasso di crescita è il regno del modello “wage-led” dei neo-kaleckiani. In effetti la prima reazione di Marc Lavoie dopo che gli inviai la traduzione della seconda parte dello Studio Svimez fu che Garegnani stava dando ragione a questa impostazione. Alla luce del supermoltiplicatore possiamo dire che l’influenza positiva di un aumento dei salari reali sul tasso di crescita sia un fenomeno relativo alla transizione fra due sentieri di crescita i quale, naturalmente, può essere empiricamente rilevante in determinate circostanze storiche. La reazione di Lavoie era ingiustificata anche dietro un altro profilo: i modelli neo-kaleckiani sono pieni di ipotesi insostenibili messe da tempo in luce, fra gli altri, dagli economisti sraffiani: Committeri (1986), Vianello (1989), Ciampalini e Vianello (2000), Petri (1994), Palumbo e Trezzini (2003), Trezzini (2011), Cesaratto (2015), Freitas e Serrano (2015).
[16] Con la consueta cortesia Marc Lavoie ha recentemente scritto che l’obiettivo principale del suo lavoro sul supermoltiplicatore (Lavoie 2016a) è stato quello di “stabilire un nesso con la letteratura sul ruolo della spesa autonoma non-creatrice di capacità produttiva, che nella mia opinione è stata ingiustamente trascurata dagli autori eterodossi, me incluso, negli ultimi 20 anni” (Lavoie 2016b, p. 1, mia traduzione). Non tutti gli altri economisti neo-kaleckiani hanno, ahimè, mostrato altrettanta delicatezza nel riconoscere con la dovuta enfasi i meriti in particolare di Serrano.
[17] Si veda sopra la nota 15 .
 


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