Indignati per la disinformazione di stampa e tv italiana per cui tutti i problemi del Brasile (e dell'Italia) si risolvono nella corruzione, con la gentile autorizzazione del direttore di Critica marxista, il prof. Guido Liguori, ripubblichiamo un tempestivo intervento di Franklin Serrano e Luiz Melin (Università Federale di Rio de Janeiro) comparso nel n. 1 del 2016.
ASPETTI POLITICI DELLA DISOCCUPAZIONE: LA SVOLTA NEO-LIBERISTA IN BRASILE
Franklin Serrano e Luiz Eduardo Melin
Dal 2011 si è avuta una netta virata
di politica economica del governo, con l’intento di ridurre il ruolo diretto
dello Stato nell’economia.
Il Pt al potere
ha tradizionalmente la tendenza a evitare lo scontro diretto con le classi proprietarie
conservatrici. Ma un programma che ambisca all’emancipazione delle
classi subalterne non
può che essere
fonte di conflitto.
Specie dove non solo la distribuzione del reddito ma anche quella della proprietà è fortemente sperequata, come in Brasile.
Il repentino
cambiamento di pro-spettive dell’economia brasiliana dopo i brillanti
risultati di appena pochi anni fa ha preso in contropiede ovunque nel mondo
commentatori, analisti esperti, smali- ziati operatori di mercato. Nel corso del 2015, si sono succedute previsioni negative («Un’economia sull’orlo
del precipizio», «L’economia brasiliana perde colpi», «Il peggio deve ancora
venire»), espressioni di sconcerto («Cosa è successo al Brasile?», «L’andare e
venire dell’economia brasiliana», «L’incredibile
storia del Brasile dalla crescita al declino») e, più recentemente, di vero e
proprio allarme sul destino del paese sudamericano («Secondo Goldman Sachs il Brasile è precipitato in piena depressione»).
Nonostante l’autoassoluzione da parte delle autorità, le sofferenze del Brasile
non sono che il frutto delle
sue stesse azioni,
come spesso accade. Un esame dell’insieme di scelte di politica economica, il cui disegno
complessivo è stato
chiaramente indicato dal governo brasiliano – e dei sottostanti obiettivi politici generali,
spesso esplicitati con analoga
chiarezza – servirà a
dimostrare questa affermazione, e a mettere
in guardia altri paesi emergenti dal prendere una
simile strada.
Dal rallentamento alla stagnazione al collasso
Le origini
della caduta del 3,8% del Pil
brasiliano nel 2015
possono essere ricondotte alle politiche at- tuate nel
corso della prima amministrazione Rousseff 1.
Tra il 2011 e il 2014, la crescita economica del Brasile si è dimezzata, passando al
2,1% medio annuo, contro
il 4.4% annuo
del periodo 2004-2010. Questo
netto rallentamento non è che un effetto
di una serie di cambiamenti promossi dal governo del Partito dei
Lavoratori (Partido dos Trabalhadores, Pt) guidato dalla presidente Dilma Rousseff.
Dal 2011 al 2014 abbiamo
assistito a una netta virata di politica economica, con l’intento dichia- rato di ridurre
il ruolo diretto
dello Stato nell’economia, sebbene siano rimaste in vigore,
in quel periodo, importanti politiche di inclusione sociale volte a ridurre la disuguaglianza.
L’obiettivo principale di questo cambiamento
era segnalare l’abbandono della efficace strate- gia di crescita seguita
fino al 2010, basata su un ruolo centrale
del settore pubblico. Tale strategia, come è noto, era stata condotta principalmente mediante il duplice ruo-
25 osservatorio
lo del
settore pubblico (incluse imprese pubbliche e banche pubbli- che) nello stimolare la domanda aggregata e nel
generare cambiamenti strutturali dal lato dell’of- ferta attraverso investimenti pub-
blici.
Questa strategia di sviluppo ha consentito di raggiungere obiettivi di crescita sostenuta
accanto a una significativa
riduzione della disuguaglianza. A loro volta, questi cambiamenti sia nella
matrice sociale del Brasile che nelle relazioni sul mercato del lavoro hanno generato una crescente resistenza politica da parte delle
comunità finanziarie e imprenditoriali del paese. Perfino al culmine della prosperità, i grandi organi
di informazione e gli economisti legati alle grandi
banche (o da esse sponso-izzati) hanno espresso
a gran voce la loro contrarietà.
A partire dalla fine del 2010,
nel tentativo di placare le sempre più insistenti critiche da parte di grandi imprese, banche, opposizione e
organi di stampa, la presidente Rousseff
e il suo partito (con il sostegno pubblico dell’ex-presidente Lula da Silva) hanno
deciso di sposare l’opinione secondo cui il governo stava intervenendo “troppo” nell’economia. Anziché
continuare ad agire da stimolo
all’espansione della domanda aggregata, il ruolo economico del governo si è
spostato sensibilmente (e apertamente) nella
direzione di rallentare la crescita
della domanda interna e di
fornire incen- tivi agli investimenti privati, sotto forma di sostanziosi
sgravi fiscali alle
imprese, accompagnati da una riduzione
(poi rapidamente rientrata) dei tassi di interesse e una prima rilevante svalutazio- ne del
cambio. Allontanandosi dalla più tradizionale teoria del trick- le-down (sgocciolamento), la logi- ca di tale
politica era quella di stimolare il settore privato a guidare la crescita economica,
piuttosto che andare a
rimorchio dell’investimento pubblico e dei trasferi- menti sociali, come nel
decennio precedente.
Tuttavia, questo cambiamento di politica inaugurato nel 2011 si è
dimostrato inefficace, dato che alla
drastica riduzione degli investimenti del settore pubblico non si è
accompagnato alcun au- mento negli
investimenti privati e nelle esportazioni nette. Gli effetti negativi si sono
amplificati quando la combinazione tra un clima eccezionalmente secco e la cattiva gestione delle direttive di politica
energetica imposte a Eletrobras, la grande impresa pubblica del settore
elettrico, hanno spinto il paese nel 2014
sull’orlo di un seria scarsità
energetica, nonostante la debole dinamica della domanda di elettricità (a causa
della progressiva decelerazione dell’attività economica in
ciascuno dei prece- denti quattro anni).
Invece di ritornare alla
traiettoria di
politica economica del 2006-2010, che aveva dato ot-
timi risultati, cercando semmai di aumentare la
capacità di pro- grammazione a lungo termine
tra- mite migliori politiche per la tecnologia e le infrastrutture,
la seconda amministrazione Rousseff (insediatasi nel gennaio 2015) ha deciso di scommettere ancor
di più sulla strategia
basata sul mercato. Fin
dal primo giorno del nuovo
mandato, il governo si è impegnato a fondo nell’adozione delle
politiche che avevano costituito, nel corso della campagna elettorale del 2014, la bandiera dell’opposizione conservatrice sconfitta.
Di fatto, il governo Rousseff è andato ben oltre. Lavorando di concerto
con la temibile industria finanziaria brasiliana (il nuovo
ministro delle Finanze proveniva direttamente dal consiglio di amministrazione della più grande banca privata
del paese), il governo guidato
dal Pt ha adottato una versione molto più radicale delle ricette di austerità
prevalenti in molti paesi dell’emisfero settentrionale oltre
che nelle istituzioni multilaterali.
La svolta neoliberista si è materializzata in una inedita
combinazione di tagli alla spesa pub- blica, rialzi successivi dei
tassi di interesse, una serie
di misure di disincentivazione del credito e forti aumenti nei prezzi dei servizi di pubblica utilità. Dispiegando simultaneamente ogni possibile strumento
di politica che potesse rallentare la crescita
economica, e lasciando che si verificasse una notevole
svalutazione del cambio, le autorità
brasiliane hanno creato una tempesta perfetta
di austerità che ha precipitato il paese in quel-
la che è diventata la peggior recessione
dal 1990, con una perdita netta di 1,5 milioni di posti di la-
Franklin Serrano e Luiz Eduardo Melin 26
voro regolari
negli ultimi dodici mesi.
La versione del governo brasiliano
Visto che cinque anni di indicatori macroeconomici in
continuo deterioramento,
e ultimamente in vero e proprio collasso
– compresi otto trimestri consecutivi di caduta
degli investimenti – non sono
fa- cilmente occultabili soprattutto per un’economia delle dimensioni del
Brasile, la linea ufficiale è stata attribuire alle condizioni internazionali avverse quelli che sono in realtà i risultati negativi di pre- cise scelte politiche. Non una linea ufficiale particolarmente creativa,
e appena difendibile: fare della
“crisi internazionale” il responsabile dell’attuale situazione
difficile del Brasile è un po’ come attribuire la colpa del naufragio del Titanic ai cambiamenti climatici2.
Perfino a un’analisi elementare, si nota che i cambiamenti nelle
condizioni economiche esterne, come l’andamento e la composizione del saldo commerciale o la disponibilità di finanza internazio- nale, possono aver avuto un impatto diretto
minimo sulla performance dell’economia
brasiliana negli
ultimi cinque anni. È vero che le esportazioni brasiliane sono
cresciute molto lentamente fra il 2011 e il 2014 (1,6%
l’anno in media), essenzialmente come risultato della debolezza del commercio
mondiale, combinata con una drastica caduta dei prezzi delle commodity.
Tuttavia, questa perfor- mance certamente deludente ha avuto un effetto
trascurabile sulla domanda aggregata, se si tiene conto del
peso molto limitato delle esportazioni nel Pil brasiliano
(11% circa),
e dell’elevato contenuto di importazioni di molte esportazioni brasiliane.
Ciò che è ancor più rilevante è che il Brasile non ha dovuto affrontare
nemmeno la più remota minaccia di una crisi di bilancia dei pagamenti in nessun momento della sua
traiettoria dalla decele- razione alla stagnazione al crollo. Il debito estero è rimasto a livelli
storicamente bassi (al di sotto del 16% del Pil) dal 2010 al 2014, ed è diminuito ancora
fino al giugno 2015, mentre le
riserve di valuta estera erano a livelli storicamente elevati per tutto il periodo e at- tualmente, a 370 miliardi di
dolla- ri Usa, rappresentano non meno del 20% del Pil.
Nonostante questa posizione notevolmente solida di bilancia dei pagamenti, la minaccia di un declassamento della valutazione del
debito sovrano brasiliano da parte delle agenzie internazionali (poi materializzatasi nel
marzo 2015) è stata ripetutamente invocata sia da
economisti vicini ai mercati finanziari sia da funzionari pubblici come argomentazione fondamentale per
giustificare la neces- sità di tagli ancora più profondi
alla spesa e più ampie misure di austerità. Dunque una confusione tra debito pubblico interno
denominato in valuta locale e passività
estere (sia private che pubbliche) in valuta
internazionale è stata
introdotta nel cuore del dibattito economico brasiliano
e usata come
chiave di volta
per giustificare politiche
restrittive dapprima preventive e poi
correttive.
Questo rudimentale artificio
retorico è stato condotto a un massimo
di confusione concettuale quando Standard & Poor’s ha riaffermato testualmente la solida posizione in valuta estera del Brasi-
le nel corpo di quello
stesso documento che annunciava, ai primi di Settembre, la perdita dello status di investment-grade per i debiti esteri del paese.
L’agenzia di rating ha giustificato la scelta di declassare i titoli del Brasile con la «performance fiscale» e con la «crescita del debito netto del governo». Il rapporto peraltro menziona le «ridotte necessità di
finanziamento esterno» del Brasile e
il «suo elevato livello di riserve
internazionali».
Dal punto di vista macroeconomico ciò solleva non pochi dubbi, dato
che è per definizione impossibile che un governo sia costretto a fare default sul debito interno denominato nella
propria valuta. In qualunque paese, se la Banca centrale può comprare e vendere
qualsiasi ammontare di titoli pubblici a breve termine sul mercato secondario
al fine di fissare il tasso di interesse di riferi- mento, tutti i titoli non
acquistati dal settore privato possono (e normalmente sono) acquistati dalla
banca centrale stessa al tasso stabilito. Per qualche ragione, questo
semplice fatto della
finanza pub-
27 osservatorio
Per essere onesti, dopo il Brasile S&P ha
declassato anche i titoli pubblici giapponesi (e perfi- no quelli statunitensi qualche tempo
fa), confermando così che la peculiare concezione macroecono- mica dell’agenzia
di rating non è né ristretta al
Brasile né diretta specificamente contro di esso.
Quando sono state chiamate in causa negli Usa (e in Europa) per il loro ruolo nella crisi finanziaria del
1997, le agenzie hanno affermato attraverso i loro legali che le loro valutazioni sono «semplicemente un’opinione»,
dunque protette dalla libertà di espressione, e non dovrebbero essere considerata altro3.
Evidentemente la presidente Rousseff ha preso molto sul serio queste «semplici
opinioni», tanto che il declassamento da parte di S&P è stato utilizzato
per giustificare un altro
round di tagli.
Le opi- nioni delle
agenzie di rating tuttavia sono state
accolte solo selettivamente, dato che ministri e funzionari hanno molto
sottolineato la necessità
di contenere il debito pubblico (interno) lordo,
quando il rapporto
di S&P faceva specifico riferimento al problema costituito dal debito pubblico
netto4.
Dunque, nonostante le esportazioni non siano in
Brasile una fonte diretta di domanda ag- gregata particolarmente significativa, e che da anni il Brasile goda di un buon
livello di riserve inter- nazionali e di livelli
relativamente bassi di debito
estero – in altre parole, nonostante non vi siano minacce di problemi di bilancia dei pagamenti all’orizzonte – la crisi internazionale è stata additata come responsabile della spirale ne- gativa causata invece dalle politi- che
restrittive e ortodosse.
Quota dei salari e conflitto distributivo
Fino a poco
tempo fa le autorità brasiliane hanno
utilizzato una consunta retorica
per giustificare quella batteria di misure di austerità che in effetti ha fatto dera- gliare l’economia. Ciò è
avvenuto da un lato nella forma appena de- scritta di «è colpa della crisi
internazionale», dall’altro ricorrendo all’idea
che le sofferenze fiscali (e, nel caso del Brasile, anche mone- tarie e creditizie)
siano l’unico modo per assicurarsi i benefici della crescita futura – la ben nota argomentazione della «austerità espansiva».
Emerge tuttavia come il proposito (fino a poco tempo fa recondito) di questo insieme di politiche
sia indebolire la forza contrattuale dei lavoratori mediante riduzioni dei salari reali e aumento della disoccupazione. A differenza di ciò
che accade nelle economie avanza- te occidentali, il complesso
istituzionale che protegge gli interessi del
lavoro in Brasile è relativamente debole e manca di influenza
sia organica che partitico-politica.
Dunque gonfiare i ranghi dei disoccupati ha il vantaggio aggiuntivo di ridurre la resistenza all’introduzione delle
misure neoliberiste
necessarie per annullare i benefici
conquistati dai lavoratori nel decennio precedente, percepiti
come eccessivi.
Nel giugno 2015, il ministro delle finanze Joaquim Levy ha di- chiarato a
un pubblico di dirigen- ti d’azienda, alla presenza della stampa locale e internazionale, che era tempo
di «ripensare il paese» e che lui intendeva «abbandonare la retorica e affrontare alcune realtà». Il suo obiettivo è stato
esplicitamente dichiarato: «Dobbiamo contrastare questa tendenza alla riduzione dell’offerta di lavoro».
Secondo il ministro
Levy, vi erano persone che precedentemente
«non volevano partecipare al mercato
del lavoro, che ora saranno costrette a cercarsi un lavoro», aumentandone in tal modo l’offerta. Come corollario, al
pubblico è stato comunicato che «non
vi può essere crescita economica senza un aumento dell’offerta di lavoro»5.
Poco importa che, nel soste- nere questo, il ministro abbia
commesso un errore piuttosto grossolano di teoria economica. Perfino
secondo i precetti della teoria
ortodossa
(neoclassica) cui apertamente aderisce, è naturalmente solo una
forza lavoro pienamente impiegata che genererebbe crescita – e non un
aumento del numero dei disoccupati, che per definizione non producono nulla.
Ma politicamente la diagnosi di Levy era corretta,
sebbene un
Franklin Serrano e Luiz Eduardo Melin 28
Sulla spinta di pressioni
provenienti dagli ambienti imprendi- toriali (nonostante i livelli
record di profitti raggiunti nel decennio
precedente) e, con particolare forza, dai media e dai partiti di opposizione, nel 2015 il governo del
Pt ha iniziato ad agire con determinazione per invertire
la rotta, mediante misure
di crescente durezza.
La rapida generazione di disoccupazione per mezzo di politiche radicali di austerità, e il
dra- stico cambiamento nella distribuzione a danno dei salari, hanno creato un clima politico in
cui è possibile diminuire considerevolmente la dimensione e l’importanza dello stato nell’economia. Ciò, a sua volta,
prepara il terreno per l’ulteriore arretramento dei guadagni distributivi,
tutele del lavo- ro e benefici sociali messi in campo dal 2003, in parte già smantellati o ridotti significativamente.
Molti militanti del Pt, dei movimenti sociali e dei sindacati sono stati
colti di sorpresa da que- sta improvvisa e inequivocabile conversione
all’agenda neoliberista che avevano a lungo combattu- to, e i cui costi sono
pagati soprattutto dalla loro base
operaia.
Questa reazione, sebbene comprensibile, è profondamente ingenua. Un esame
ravvicinato della sua storia trentennale rivela che il Pt ha una tradizione consolidata nell’evitare, una volta al po-
tere a livello locale, statale o federale, lo scontro diretto con le classi proprietarie conservatrici. Seb- bene
sinceramente desiderosi di promuovere il cambiamento sociale, i vertici del Pt sono stati a
lun- go guidati dal credo del consenso,
secondo il quale non vi è situazione nella quale non si possa rag- giungere un compromesso che eviti di alienarsi la ricca élite brasiliana, cercando al contempo
di mi- gliorare le condizioni di vita dell’enorme massa della popolazione.
Questa speciale varietà di filosofia
politica improntata alla “cordialità”
può sembrare a sento credibile se si considera che il Brasile è l’unico paese
che figura contemporaneamente fra le prime venti economie mondiali e fra i primi venti paesi nella graduatoria
delle più sperequate distribuzioni del reddito. Tuttavia, questa quadratura
del cerchio era sembrata possibile fino al 2011, sull’onda di una situazione
particolarmente favorevole del cambio,
combinata con l’eccezionale crescita sia
dei consumi che dei profitti che ha seguito l’apertura del grande flusso di
spese per l’inclusione sociale.
Man mano che i conflitti distributivi, inizialmente sporadici, si sono
inaspriti, e che la critica ideologica ha ceduto il passo all’aperto antagonismo di classe, il precedente stato
d’animo autocompiaciuto diffuso
tra i vertici del partito si è tramutato in diffidenza e allarme. Di fronte a un nuovo Congresso ostile dopo la vittoria
nelle elezioni presidenziali del 2014, e appesantiti dalla propria non
trascurabile dipendenza dai
finanziamenti di grandi
imprese e banche, i leader del Pt hanno trasformato
la loro malleabilità e tendenza al compromesso
in una completa e inedita capitolazione politica.
A caccia della corruzione “rossa”
A un osservatore esterno
può sembrare interessante
notare che nel dibattito pubblico in Brasile non hanno praticamente alcun peso tutti
i cruciali fattori economici e politici
menzionati finora. Qual- siasi visitatore dal 2014 in poi riporterebbe
un racconto simile, di un intero paese che quotidiana-
mente è interamente concentrato su questioni non di politica, ma di polizia.
Almeno a partire dagli ultimi giorni del Presidente Vargas, nei primi anni
1950, la corruzione pubblica è
stata la tattica politica vincente dell’establishment brasiliano conservatore, ogni volta
che si ritenesse urgente correggere rapidamente una situazione percepita
come indebitamente sbilanciata a favore del lavoro6. E questa è pro-
29 osservatorio
prio la percezione che ha preso
corpo nel corso dell’amministrazione
Rousseff, e si è consolidata con la sconfitta del candidati di centro-destra
Aecio Neves e Marina Silva nelle elezioni del 2014.
Sebbene fin dai primi giorni del suo mandato le politiche della presidente Rousseff di ridurre il
ruolo dello Stato nell’economia e di
promuovere sgravi fiscali
incondizionati alle imprese
avessero il chiaro intento
di compiacere il settore privato brasiliano e gli investitori
esteri, la cattiva gestione economica
e politica ha fatto sì, a guardare i risultati alla fine del primo mandato
nel 2014, che nes-
suno sia stato favorito da queste politiche. Le imprese hanno visto diminuire
crescita e livelli di pro- fitto e crollare gli
investimenti, mentre il mercato
del lavoro è rimasto teso. Anche
i lavoratori ave- vano poco da festeggiare, data la
stagnazione (e poi la caduta) del reddito disponibile delle famiglie, e la sempre minor
disponibilità di posti di lavoro.
Dal punto di vista della tradizionale élite economica e politica del Brasile, diveniva chiaro che il
cambiamento doveva essere molto più profondo
e rapido. Chi conosce le abitudini politiche brasiliane non dovrebbe dunque meravigliarsi se le inveterate e poco trasparenti prassi contrattuali seguite dall’impresa di
Stato Petrobras (operante nel
settore del petrolio e del gas) sono diventate all’improvviso uno scandalo e trattate alla stregua di un’emergenza
nazionale7.
Forse meno
universalmente noto, al di fuori del Brasile,
è il fatto che questa
volta il discorso anti-corruzione non ha guadagnato il centro della scena
politica grazie agli sforzi della sola opposizione conservatrice, ma è stato
in effetti introdotto nel dibattito pubblico
e considerato prioritario dalla stessa presidente Rousseff. Fin dal suo
insediamento nel 2011 ha ripetutamente sottolineato il suo impegno contro i
«malfattori» e la corruzione – rapidamente
soprannominata dalla stampa nazionale e internazionale come l’operazione
«pulizia» (faxina).
Ma per la fine del 2013 il comando dell’operazione anticorruzione era
passato di mano. Non si trattava più di produrre frasi a effetto mediatico,
di sostituire questo o quel ministro o di introdurre requisiti regolamentari,
fra l’altro sempre più gravosi, come il governo del Pt aveva fatto fino a
quel momento.
Qualche mese prima erano iniziate inchieste negli affari di
Pe- trobras condotte da gruppi chiara- mente ostili al partito al governo, e quando sono venute alla luce le prime indicazioni del coinvolgi- mento di politici,
la presidente Rousseff e l’ex-presidente Lula da Silva sono ovviamente diventati gli
obiettivi privilegiati, nonostante il fatto che fossero ugualmente implicati nella vicenda anche esponenti
dell’opposizione.
La risonanza pubblica della campagna mediatica che ne è derivata è stata ulteriormente ampli- ficata dal desiderio di visibilità di giudici
e pubblici ministeri politicamente ambiziosi, le cui azioni sono state
regolarmente accolte dall’acclamazione
dei grandi organi
di informazione apertamente
simpatizzanti per l’opposizione. Anche questo di per sé rappresenta uno sviluppo inedito,
che segna un importante
cambiamento rispetto a un’antica tradizione di autentica indipendenza dei magi- strati brasiliani dalla politica, e che potrebbe
aggiungere in futuro una nuova dimensione all’uso
poli- tico della lotta
alla corruzione.
Tanto per non smentirsi, il governo Rousseff ha trattato il caso
Petrobras come una questione
scottante da cui tenersi alla larga. Questa strategia è a dir poco problematica, dato che il governo de-
tiene una quota di controllo nella compagnia,
la cui importanza economica e strategica è tale
che regolarmente membri dell’esecutivo vengono
designati a far parte del suo consiglio di amministrazione.
Questa strategia di “splendido isolamento” nel caso Petrobras non solo
non ha comportato alcun guadagno di immagine o dividendo politico per il
governo, ma in ultima analisi ha comportato costi finanziari rilevanti per
la compagnia stessa. Con i media locali che per mesi hanno dedicato le prime pagine a indiscrezioni e
fughe di notizie sulle indagini della polizia federale sul caso Petrobras, i
movimenti speculativi dei mercati sono divenuti, come era da aspet-
tarsi, più frequenti.
La distaccata indifferenza del socio di maggioranza
ha fatto sì che l’esito
di tali movimenti spe-
Franklin Serrano e Luiz Eduardo Melin 30
culativi sul
valore di borsa della compagnia sia stato
passivamente accettato come un giudizio sull’au- tentico valore patrimoniale di Petrobras. In assenza di misure correttive, il
susseguirsi di ondate speculative ha seriamente
deteriorato il merito di credito della
compagnia fino a creare, in qualche cir- costanza, vincoli di credito laddove
non esistevano.
Di fronte al turbinio quotidiano di accuse, gli scrupoli
del gover- no, volti
ad accreditarsi come più ri- goroso e “pulito”
rispetto alla vicenda Petrobras di quanto le autorità giudiziarie e
gli stessi organi di stampa
chiedessero, sono arrivati al punto di congelare
i massicci programmi di investimento della com-
pagnia. L’effetto
a catena della considerevole riduzione di ordini del gigante
petrolifero sulla sua impo- nente rete di fornitori
ha colpito diversi settori
economici, non ultimo
quello dei cantieri navali8.
Il crollo di popolarità che è seguito
allo scandalo Petrobras, unito a una pessima gestione del- le alleanze
sia nel Congresso che nel governo, ha messo l’amministrazione Rousseff in una posizio- ne politica molto fragile.
Questo a sua volta ha reso ancora più facile la virata della politica
economica verso un’auste- rità sempre più severa, accentuando al contempo la
propensione dei leader del Pt, dopo le elezio- ni dell’ottobre 2014, a fare
tutto il possibile per venire incontro alle esigenze del “mercato” (leggi gran-
di gruppi privati, grandi banche, organi di informazione).
La perdita di posti di lavoro e la recessione provocate dall’austerità
hanno contribuito ad ero- dere ulteriormente il sostegno popolare al governo, chiudendo così il cerchio.
Se il Pt dovesse affrontare le
prossime elezioni amministrative
ancora associato, agli occhi degli elettori,
con la recessione, la disoccupazione e la corruzione, le prospettive, stando agli attuali indici di gradimento (intorno al 10%)
sarebbero
alquanto fosche.
L’inversione di rotta
Le politiche economiche dell’attuale governo brasiliano non vanno frettolosamente giudicate come fallimentari. Può ben
essere vero che i risultati di queste politiche siano deludenti se giudicati a fron- te dei
numerosi enunciati formali di adesione incondizionata ai precetti della
prediletta dottrina orto- dossa.
Tuttavia, se giudicate in
termini degli obiettivi enunciati dal Ministro delle Finanze, biso- gna
ammettere che esse sono state
piuttosto efficaci.
In primo luogo, il tasso di disoccupazione è schizzato verso l’alto, arrivando secondo i dati uffi-
ciali al 7,9% in novembre, e quindi aumentando la riserva disponibile di lavoro la cui
esiguità veniva con- siderata un ostacolo alla crescita
futura. Inoltre, l’inflazione è salita
considerevolmente, giungendo al 10,48% – il tasso più alto registrato negli ultimi due decenni e
molto al di sopra del limite superiore dell’obiettivo ufficiale (6,5%).
Dato che l’attuale ruolo della più elevata inflazione è far diminuire i salari
reali, che a lungo sono stati
considerati dal governo e negli ambienti imprenditoriali come
fonte, nel decennio
precedente, di eccessive “pressioni sui costi”, non è stato fatto alcun tentativo per impedire una forte svalutazione e aumenti delle tariffe dei
servizi di pubblica utilità per tutto
il 2015. Semmai, questi sono stati salutati
da ministri dei governi locali
come una «correzione di squilibri nei
prezzi relativi». L’effetto combinato di questi
due risultati – crescita
della disoccupazione e crollo dei salari reali – si riflette
in una riduzione, negli ultimi dodici mesi, del 10,4% in termini reali
del monte
salari complessivo dell’economia brasiliana.
La gente comune in Brasile ha già il problema della scarsa e decrescente
qualità dei servizi pubblici. Con una mossa che non viene normalmente
contemplata tra i requisiti tecnici di una politica di austerità, il governo
ha sospeso i pagamenti ai fornitori di istituzioni pubbliche come ospedali
e università. Sebbene ciò provochi un’interruzione della fornitura di beni e
servizi, e dunque colpisca la qualità dei servizi pubblici normalmente utilizzati
dai segmenti meno ricchi della popolazione, questo artificio non produce alcun
effetto positivo sui parametri fiscali, sulla base degli standard internazionali di contabilità.
Queste politiche concorrono, con la parata quotidiana di “scan-
31 osservatorio
È interessante notare che l’ex-presidente Lula e il Pt avevano
condotto un’opposizione in par- te
riuscita, nel corso degli anni Novanta, sia all’austerità macroeconomica
che alle riforme neoliberiste, il che all’epoca aiutò il Brasile a sfuggire alle forme più brutali di neoliberismo sperimentate in America Latina. Venti anni
dopo si è chiuso il cerchio.
Attualmente, un governo
guidato dal
Pt si fa fautore dell’intero armamentario delle misure di austerità e di
riforme legislative lesive dei diritti dei lavoratori. La priorità assegnata a
questa agen- da politica è sottolineata dal fatto che il primo atto inviato al
Congresso nel secondo mandato della presidente
Rousseff (alla vigilia dell’insediamento) tagliava simultaneamente
l’accesso ai sussidi di disoccupazione, l’indennizzo per i lavoratori in
sospensione temporanea, i benefici
per i dipendenti in malattia e le pensioni di reversibi- lità.
Le priorità legislative del go- verno Rousseff
non si limitano ai diritti del lavoro e alle misure di “aggiustamento fiscale” (l’eufemismo che va per la maggiore).
Nel 2015 si è impegnato alacremente nella
modifica alla Costituzione per fare della sicurezza pubblica una materia
federale e nell’approvazione di una legge
sul terrorismo che introduce
la novità di rilievo della possibilità di
considerare i danni alla proprietà
come veri e propri atti di terrorismo9.
Anche le priorità del Brasile in politica estera sono state visibilmente alterate. Per
un decennio la strategia era
stata l’affermazione della leadership regionale e la crescita della
presenza del paese nei mercati emergenti in
rapida espansione dell’America Latina
e dell’Africa. Tra il 2003 e il 2010, il
paese ha sollecitato la creazione di istituzioni e meccanismi di coope- razione regionali, ha aperto solo in
Africa diciannove ambasciate e ha decuplicato i finanziamenti al commercio.
Questi temi hanno ora poco spazio sia nelle azioni che nei di- scorsi
ufficiali del governo. Nell’e- ra Rousseff
il Mercosur sembra
ormai più un peso che una risorsa, mentre le già sporadiche visite in Africa sono del tutto cessate da due
anni. Soprattutto, a seguito di una
protratta campagna di stampa che dipingeva il sussidio pubblico alle esportazioni
come potenzialmente corrotto, i finanziamenti al
commercio sono stati dimezzati, a partire dal già basso livello del 2014.
La modesta quota
di mercato del Brasile come
fornitore di manufatti e di servizi di ingegneria alle economie emergenti si è già ridotta e ci si aspetta che si contragga nettamente nei prossimi anni.
I nuovi temi di politica este- ra che assorbono le energie del go- verno sono
la «convergenza della regolamentazione» con Stati Uniti ed Europa, e il cambiamento climatico (l’ex-ministro degli Esteri era stato scelto per le sue competenze in
questo campo). Le ambizioni della nuova agenda interna- zionale sono:
concludere un accordo sugli scambi di beni agricoli e
servizi con l’Unione europea (messo da parte negli anni 1990 dalla precedente
amministrazione), con l’intento dichiarato di “integrare l’economia brasiliana nelle catene globali
del valore”; preparare la
strada a un ingresso del Brasile nell’Ocse,
accanto a Cile e Messico; e riavvicinarsi agli Stati Uniti.
Quest’ultimo obiettivo sem- bra quello ottenibile più rapidamente, a
giudicare dal grado di af- fabilità che ha caratterizzato la visita di stato
della presidente Rous- seff nel giugno scorso. Non sono mancati gesti
simbolici, tra cui incontri a Wall Street e con icone del Partito
Repubblicano quali Henry Kissinger, Condoleezza Rice e Rupert Murdoch – e
perfino il commento estemporaneo del Ministro del Commercio e dell’Industria
se- condo cui un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti,
cui il Pt si contrappose con
forza negli anni 1990, è «un’aspirazione» del- l’attuale governo brasiliano.
A parte questi dettagli, ragioni più strutturali garantiscono in ultima
analisi il successo della strategia della
presidente Rousseff di rafforzare i legami con gli Stati Uniti. Fra la rinuncia del
Brasile al tentativo di conquistare
la leadership regionale e a compe- tere sui mercati emergenti in rapi-
Franklin Serrano e Luiz Eduardo Melin 32
da espansione,
da un lato, e il suo recente entusiasmo per la cooperazione internazionale in
materia di corruzione e lotta al terrorismo,
dall’altro, è improbabile che le notizie provenienti da Brasilia
di questi tempi siano cattive
notizie per Washington.
Il tunnel alla fine della luce
Di fronte ai
poco invidiabili risultati inanellati dal governo (aggravamento della
recessione, isola- mento politico, crollo della popolarità), non sarebbe
irragionevole per un osservatore esterno assu- mere che a Brasilia si stia
seriamente pensando a un cambiamento di politica. In particolare, il sus-
seguirsi mese per mese di dati economici negativi nel quadro di quel- la che
si può ormai definire una vera e propria stagflazione, potrebbe aver indotto
qualche econmista mainstream o perfino qualche isolato esponente del governo a prendere in
considerazione la possibilità di proporre misure anticicliche.
Tutt’altro. È divenuto ormai un luogo comune
per i commentatori economici attribuire tutti gli attuali guai del Brasile
a irresponsabili eccessi di
spesa pubblica in generale, e alle misure anticicliche intraprese dopo il crollo
di Lehman Brothers in
particolare. A conferma di ciò, un noto ex-ministro, già consigliere informale dell’ex-presidente Lula, a fronte del
crollo degli investimenti (sia pubblici che privati), ha paragonato le proposte
di farla finita con le politiche restrittive
a “pensiero magico”.
Mentre il Brasile sta subendo la sua peggiore recessione da venticinque anni, la strategia che lui propone
per la ripresa è «creare aspettative di crescita», cercare di «stimolare gli animal spirits degli imprenditori». Non che si tratti
di una strategia dai risultati
garantiti, a dire il vero.
Rimane il fatto che vengono continuamente annunciate nuove misure
che confermano e rafforza-
no la politica neoliberista della presidente Rousseff.
Sebbene gli
obiettivi fiscali per il 2015 siano stati ri- visti
al ribasso più di una volta in previsione
di una drastica riduzione del gettito fiscale causata dalla
contrazione dell’attività economica, le priorità ufficiali rimangono controllare
il volume del debito pubblico
lordo e raggiungere il pareggio del
bilancio primario.
Si potrebbe presumere che nessuno all’infuori del Fmi consiglierebbe
di inasprire le politiche re- strittive nel
mezzo di una recessione di portata
storica10. Ma sebbene questo diritto, che il Fmi
si è con- cesso da solo,
di ignorare le lezioni della storia sia stato emulato da non pochi funzionari brasiliani e dal solito entourage di economisti compiacenti,
l’eccessiva ortodossia delle loro
argomentazioni contrasta con
la realtà delle condizioni
macroeconomiche
prevalenti.
Anche se né gli esponenti del governo né gli “esperti” ingaggiati dai
media si danno da fare per ri- cordarlo
all’opinione pubblica, il debito lordo
brasiliano, pur al pic-co del 2015, è al di sotto
del 70% del Pil, cioè inferiore a quello
dell’austera Germania, e molto inferiore a quello degli Stati Uniti e del Regno Unito, entrambi prossimi al 120% del Pil11.
In più, i discorsi sull’aggiustamento fiscale e la riduzione del debito
pubblico cominciano a essere
davvero irrealistici se si considera, a parte il crollo del gettito
fiscale (un effetto stranamente assente in tutti gli
esercizi analitici di simulazione di ispirazione mainstream prodotti nel paese), il fatto che sia la dimensione
che il costo del
debito risentono
pesantemente del brusco rialzo del tasso di interesse12.
Eppure, a basarsi sugli annunci pubblici del governo, per il 2016 c’è da aspettarsi che si andrà avanti così. Altri tagli alla spesa
e agli investimenti pubblici, riforme della sicurezza sociale
e delle pen- sioni, perfino benefici sociali finora
considerati intoccabili (come il programma bolsa familia) – tutto è nel
mirino del programma
di austerità brasiliano.
Questa estrema ostinazione nel portare
avanti una politica palesemente fallimentare, che causa profonda insoddisfazione fra
le imprese e i lavoratori, contribuisce a spiegare
perché gli indici di gradi- mento dell’attuale governo siano i
più bassi dagli anni 1990.
Il fatto che esso si trovi
di fronte a problemi di cui è in larghissima misura la causa stessa, tuttavia, fa del Brasile una lezione
esemplare per altri paesi in
via di sviluppo. Qualsiasi programma che
33 osservatorio
Per farcela, i leader progressisti dovranno fare alleanze e concessioni, ma mai
sacrificando i loro obiettivi primari e i loro principi fondamentali. L’idea
che, in questo contesto, sia possibile ingraziarsi i settori tradizionali,
la cui predominanza è messa a repentaglio, facendo marcia indietro sulla
propria strategia fondamentale e adottando “temporaneamente” la loro agenda
politica è profondamente irrealistica.
In una situazione in evoluzione, compromessi utili possono essere
ricercati solo a partire da una posizione di forza relativa, il che comporta
mantenere la mobilitazione politica di quelli che
più beneficiano
dei cambiamenti; e, soprattutto, assicurare la
creazione di lavoro e di ricchezza, sia pure, quando è necessario, a ritmi più
contenuti.
Tuttavia, nonostante la recessione record, il crollo dei salari
e la disoccupazione, l’attuale crisi politica ha meno probabilità di finire in maniera drammatica per la presidente
Rousseff di quanto av- venne con gli altri presidenti di sinistra, Vargas
(spinto al suicidio nel 1954) e Goulart (costretto a fuggire dal paese nel
1964).
Da un lato, l’esercito brasiliano, che ha avuto un ruolo diretto nella deposizione di entrambi
all’epoca della guerra fredda, ha da tempo accettato
l’idea che l’era dei colpi di Stato è finita. D’altro
lato, come risulta dalla precedente descrizione, la presidente Rousseff e il Pt hanno rinnegato la
propria dedizione alla causa
del lavoro e si
sono arresi su tutti i fronti senza opporre
molta resistenza, rendendo la loro rimozione una questione
priva di rilevanza.
(traduzione di
Antonella Palumbo)
Note
1) Per una più dettagliata analisi ma- croeconomica del periodo,
cfr. F. Serrano
e R. Summa, Aggregate Demand and the Slow-
down of Brazilian Economic Growth from 2011-2014, Centre for Economic and
Policy Research - CEPR, Washington
DC, agosto 2015.
2) Senza insistere troppo su questo pun- to,
si noti comunque che un ministro brasi- liano è riuscito
a combinare entrambe
le spie- gazioni quando ha dichiarato, nel maggio scorso,
che il governo aveva «assorbito il più
possibile l’impatto della crisi internazionale
e del cambiamento climatico – e questa poli-
tica ha [ora] raggiunto un limite».
3) Cfr. la causa Jefferson County Sch. Dist. v. Moody’s Investor’s Servs., Inc.
4) Il debito lordo in
Brasile è più ampio del
debito netto principalmente a causa del- le
operazioni di politica
monetaria e crediti- zia, in particolare per via dei titoli
contro- parte delle ampie riserve
estere.
5)
Cfr. http://www.valor.com.br/brasil/4091982/crise-e-momen to-importante-para- repensar-o-pais-afirma-levy
6)
Oltre ad aver
ottenuto la rimozione del presidente Vargas nel 1954, la crociata morale contro
la corruzione è stata di nuo- vo uno strumento decisivo nel rovesciare il
presidente Goulart (che si batteva per una “repubblica sindacale”) nel 1964, e
nell’im- pedire l’elezione di Lula da Silva e della sua coalizione di sinistra nel
1989, prima di riapparire nel
tentativo non riuscito di im- peachment del presidente Lula nel 2005, e di nuovo, con maggiore efficacia, negli
anni recenti.
7) Il presidente Cardoso (paladino in Bra- sile delle privatizzazioni e del “Washington Consensus” dal 1995 al 2002) ammette
nel- le sue memorie recentemente pubblicate che egli era a conoscenza
dello “scandalo” Petrobras fin dall’ottobre 1996, aveva pen- sato di intervenire, ma alla fine
aveva de- ciso di non farlo.
8)
Originariamente
stimati a 44 miliar- di di dollari,
gli investimenti di Petrobras per il 2015 sono stati ridotti a 31 miliardi,
mentre il nuovo business plan, annunciato a fine giugno, li ha tagliati
per il periodo 2015-2019 di oltre il 40%, da 221 a 130 mi-
liardi di dollari.
9)
In un rapporto speciale le Nazioni Uni- te avvertono che il testo della
nuova legge brasiliana sul terrorismo
è «redatto con ec- cessiva ampiezza e rischia di limitare libertà fondamentali». Cfr. http://www. ohchr.org/ EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx? NewsID=16709&LangID=E
10)
Un commentatore ci
ha segnalato che nel G-20 di giugno 2010, mentre gli Usa ancora si dibattevano per uscire dalle sec- che della recessione e l’Ue vi stava
lenta- mente scivolando, la Bri (Banca dei regola- menti internazionali) affermò che
non era il caso di aspettare la ripresa per
ridimen- sionare drasticamente i deficit di bilancio e che, a meno di tempestivi rialzi dei tassi di
interesse, si sarebbero create
«distorsioni». Né il rischio di recessione, né il
costo che i crescenti tassi di interesse avrebbero
com- portato per il debito pubblico
furono men- zionati in quella circostanza.
11)
Le cifre si
riferiscono ai debiti pub- blici
lordi, delle amministrazioni sia cen- trali che locali.
12)
A partire da
gennaio 2014, la Ban- ca centrale brasiliana ha aumentato il tas- so di riferimento di ben 425 punti base.
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