venerdì 19 agosto 2016

Il proletariato (non) ha nazione...



 Pubblichiamo la traccia di un intervento a un dibattito con Giorgio Cremaschi a una straordinaria e affollatissima festa nei dintorni di Pisa. Il tema era: “La sovranità appartiene al popolo: i referendum momento di conflitto sociale fondamento di democrazia”, 18 Agosto 2016, Festa RossaPerignano (PI).

Paese mio che stai sulla collina. Battaglioni internazionalisti o ordo-keynesismo?
Sergio Cesaratto
Voi perdonerete se prenderò il tema di questa sera un po’ alla lontana. Non sono un giurista, e sono anche un po’ scettico sulla via giuridica al conflitto sociale, come sembra un po’ suggerire il tema della serata. In un certo senso mi riferirò di più alla prima parte del titolo: La sovranità appartiene al popolo. Giusto. Ma qual è l’ambito di questa sovranità? Lo Stato nazionale, il tuo continente, il mondo intero? Su questo come sinistra siamo molto reticenti, e su questo mi piacerebbe dire qualcosa. Esiste una democrazia che vada oltre i confini del tuo Stato nazionale? E siccome, almeno su questo si è d’accordo, il conflitto sociale è l’humus della democrazia, qual è lo spazio naturale per il conflitto sociale?

Presa alla lettera, la tradizione marxista respinge oltraggiosamente l’idea dell’identificazione della classe lavoratrice col proprio Stato nazionale. Come è stato osservato, secondo questa tradizione: “Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile di solidarietà” (Gallissot 1979, p. 26; v. anche Cesaratto 2015), insomma chi ha solo le catene da perdere non necessita di passaporto. Il principale ostacolo a tale solidarietà, ben noto a Marx ed Engels, era nella concorrenza fra le medesime classi lavoratrici nazionali, sia intermediata dalla concorrenza fra i capitalismo nazionali che diretta attraverso i fenomeni migratori. Ma sebbene procedendo in forma contraddittoria, l’internazionalismo proletario rappresentava per Marx ed Engels il contraltare del cosmopolitismo capitalistico, che essi avevano elogiato nel Manifesto del partito comunista come una forza liberatrice per l’umanità, che avrebbe spazzato via, fra l’altro, i retaggi barbarici del legami nazionali o etnici (ibid, p. 805).[1] Naturalmente Marx ed Engels non potevano esulare dalle lotte nazionalistiche, a cominciare dalle aspirazioni tedesca e italiana all’unificazione. Ma la prospettiva dello Stato nazionale era per loro al massimo una tattica, e non una strategia. Purtuttavia, nella Critica al Programma di Gotha, dopo aver criticato i termini del tutto generici con cui il Programma della socialdemocrazia tedesca aveva affiancato la lotta internazionalista a quella nazionale, Marx ammette che: <S'intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma "per la forma."> (Marx 1975, mio corsivo). [2] [3] La si metta come si crede, il passaggio è un riconoscimento impegnativo. Nel lungo periodo siamo tutti morti, come dirà qualche anno dopo Keynes. E la “forma” è spesso “sostanza”, ci dice il buon senso.
Fatto sta che da Marx ed Engels i concetti di Stato e (soprattutto) nazione, nelle loro varie declinazioni e intrecci, sono un buco nero della teoria marxista per la quale, nel lungo periodo, non dovrebbero neppure esistere.[4]
Un’analisi molto citata che, se non di impronta marxista, le è vicina nell’interpretare l’evoluzione delle istituzioni (la sovrastruttura) come funzionale all’evoluzione materiale della società (la struttura), è Ernest Gellner (1925-1995). Semplificando molto, egli vede l’emergere delle entità nazionali come funzionale allo sviluppo capitalistico che richiede l’omogeneizzazione culturale (in primis linguistica) della società per consentire l’educazione di massa (a sua volta strumento di quella omogeneizzazione), la comunicazione e il funzionamento degli apparati burocratici, l’unificazione del mercato, la mobilità sociale e quant’altro (per una introduzione a Gellner v. O’Leary, 1997). Come si vede nulla a che vedere con le giustificazione “romantiche” del nazionalismo - che naturalmente hanno avuto una funzione ideologica di leva delle rivoluzioni nazionali guidate soprattutto da componenti intellettuali della piccola borghesia insofferenti dell’immobilità sociale delle preesistenti forme istituzionali. Al contributo di Gellner fa riferimento un noto studioso marxista (e scozzese, questo non è un caso) del nazionalismo, Neil Davidson. In una intervista che ho trovato molto utile (Davidson 2016) egli si ricollega a Gellner ed estende il funzionalismo della teoria di quest’ultimo (l’unificazione nazionale come elemento di omogenizzazione culturale e modernizzazione delle più complesse società industriali) alla natura di collante ideologico che il nazionalismo svolgerebbe in particolare nei confronti delle classi lavoratrici.
In sostanza, la tesi di Davidson è che il nazionalismo assolverebbe alla necessità di una compensazione ideologica per le ferite apportate dal sistema capitalistico ai lavoratori. In tal senso esso svolgerebbe una funzione reazionaria, evitando che essi sviluppino una coscienza di classe che travalica i confini nazionali. Più specificatamente, Davidson associa nazionalismo e riformismo - “I lavoratori rimangono nazionalisti nella misura in cui rimangono riformisti” - vale a dire i lavoratori restano nazionalisti nella misura in cui identificano nello Stato nazionale lo spazio per il loro avanzamento e, naturalmente, lo Stato nazionale medesimo offra loro questa opportunità.[5]
Non voglio entrare nel merito ideologico di questa tesi – in fondo una ripetizione del punto di vista di Marx sullo Stato nazionale come falsa coscienza e quant’altro.[6] Siccome mi interessano di più gli avanzamenti concreti dei ceti popolari - anche perché ritengo che da essi possa solo scaturire una successiva contestazione più radicale del capitalismo - è interessante che posto di fronte a problematiche concrete, lo studioso scozzese faccia parecchie ammissioni (un po’ come Marx quando riconobbe che “l'interno di ogni paese è il campo immediato della … lotta”).
Più precisamente, riferendosi all’Unione Europea (EU), Davidson richiama un saggio di Hayek del 1939 in cui questi sostiene la costituzione di entità sovranazionali in quanto non possono che essere di natura liberista. Esse svolgerebbero dunque la doppia funzione di svuotare gli Stati-nazionali di ogni potere economico e dunque redistributivo, assegnando alla struttura sovranazionale un compito di mera ordinatrice delle attività economiche (un disegno che potremmo definire, con termine ormai popolare, “ordo-liberista”). Davidson giunge dunque a riconoscere che riforme favorevoli ai lavoratori, possibili nello Stato-nazionale, diventano impossibili una volta che le leve economiche siano trasferite presso istituzioni sovra-nazionali.[7] Ma non solo. Lo studioso scozzese critica anche l’argomento della sinistra radicale (forse noi diremmo “antagonista”) per cui istituzioni sovranazionali come quelle europee, sebbene volte a mortificare lo spazio conflittuale delle classi lavoratrici nazionali, costringerebbe queste ultime a mettersi assieme per cambiare quelle istituzioni. E al riguardo Davidson conclude: “La solidarietà fra i confini non dipende dalle costituzioni o dalle istituzioni, ma dalla volontà dei lavoratori di sostenersi a vicenda, persino se in Paesi diversi. Invece di invocare battaglioni immaginari di lavoratori organizzati a livello europeo, sarebbe più utile cominciare a costruire dove già siamo”. E in un iperbolico capovolgimento di prospettiva, Davidson conclude: “E’ improbabile che la battaglia contro il capitalismo neoliberista cominci simultaneamente attraverso l’intera UE, o che sia ristretta ai suoi confini. Quello che più probabilmente vedremo è una serie scostante di movimenti dalla differente intensità, entro i diversi Stati-nazionali che, se vittoriosi, potrebbero formare alleanze e, infine, gli Stati Uniti socialisti d’Europa. Tuttavia, questa visione non potrebbe essere realizzata entro la UE, ma solo costruita da capo sulle sue rovine”.
Dunque, lo Stato-nazionale da essere strumento di corruzione riformista dei lavoratori diventa strumento necessario per la rivoluzione socialista!
Quello che, infatti, mi sembra poco chiaro nelle menti del movimento per il No al referendum (parlo della sinistra naturalmente), è che qui non sia sta difendendo la “Costituzione più bella del mondo”, slogan che lasciamo alla stucchevole Boldrini,[8] ma le macerie (e solo quelle se non ci diamo una svegliata) di una nostro Stato-nazionale entro cui esercitare il conflitto sociale, che se regolato, è l’humus della democrazia (Hirschman 1994). Lo smantellamento delle istituzioni democratiche e il rafforzamento degli esecutivi – di per sé accettabile solo se si rafforzano al contempo le istituzioni di controllo, i poteri di “checks and balances”) – diventa funzionale al disegno ordoliberista europeo, in cui conflitto e democrazia non ci sono più, ma solo rigorose leggi di mercato tutelate dalle istituzioni sovranazionali che agiscono per tramite di supine istituzioni nazionali. Il no al referendum dovrebbe saldarsi al no all’Europa e al recupero della sovranità economica nazionale (che è la cosa che davvero conta). Purtroppo in questa consapevolezza siamo ancora molto indietro.
Così come siamo molto indietro nella consapevolezza delle problematiche economiche in cui la tematica dello Stato nazionale emerge in tutta la sua pregnanza. Su questo vorrei chiudere.
La crisi e il successivo crollo dell’Unione Sovietica hanno avuto due conseguenze nefaste per la sinistra, l’una a ben vedere simmetrica all’altra: l’apertura di spazi sconfinati per il neo-liberismo e la totale assenza a sinistra di una risposta a quest’ultimo - l’assenza di qualsiasi riflessione sul socialismo reale ne è la testimonianza. In verità delle risposte ci sono state, ne possiamo individuare addirittura tre:
(a)               la terza via blairiana, ovvero la fondamentale resa al neoliberismo di cui si accetta la sostanziale vittoria sul socialismo; più che di terza via si doveva parlare di senso unico, il liberismo come unica prospettiva.
(b)               La via cosmopolita: una confusa denuncia del neoliberismo e della globalizzazione capitalistica in nome di una “globalizzazione dei popoli”. Lo spettro coperto da questa risposta è amplissimo: dalla dama di San Vicenzo sig.ra Laura Boldrini, vuota quanto stucchevole; all’antagonismo No-questo e No-quello, in cui l’idea di fondo, se capisco bene, è che non tocchi a noi dare risposte o suggerire come governare i processi: le contraddizioni capitalistiche devono scoppiare e su quelle si deve lavorare (esemplare il tema dell’immigrazione). Se questo significa dare i ceti popolari in pasto alla destra, beh al tanto peggio tanto meglio non v’è limite.[9] In mezzo l’economia da Social Forum, quella del micro-credito, delle fabbriche recuperate (spesso presunte tali), del commercio equo e solidale. Tutte esperienze lodevoli, ma che si deve davvero essere ingenui per ritenerle tali da costituire un’alternativa sistemica al capitalismo.
(c)                La terza via tradizionale, se mi si consente di riappropriarmi di quest’espressione, è quella socialdemocratica keynesiana basata su controllo dell’apparato pubblico da parte delle organizzazioni del lavoro e politiche di sostegno della domanda aggregata anche attraverso elevati salari diretti e indiretti, dunque attraverso la riduzione sostanziale delle diseguaglianze. Tutto questo nell’ambito di un compromesso di classe in cui la de-mercificazione dei rapporti fra i soggetti si arrestava ai cancelli della fabbrica (dento i quali si esercitava, purtuttavia, un controllo sindacale). Questa terza via, per quanto imperfettamente applicata in Paesi come il nostro, incontrerebbe oggi difficoltà sostanziali nell’assenza di un quadro internazionale di politiche economiche volte al cosiddetto keynesismo internazionale. Questo è vero. Il keynesismo in un Paese solo è infatti impossibile a fronte del vincolo di bilancia dei pagamenti. Le due esperienze relative a due grandi Paesi, il governo laburista britannico 1974-79 e il primo Mitterand del 1981-82 furono la pietra tombale su queste esperienze. Ci sono dei “però”, tuttavia.
Accantonate le utopie speranzose (ma è un termine generoso) dell’Altra Europa, o quelle dei battaglioni rivoluzionari di lavoratori e immigrati, non rimane che quella del proprio Stato-nazionale. Questa strategia non può che essere che quella dell’Economia dei controlli, controllo delle importazioni in primis. Non c’è alternativa (sebbene, naturalmente, qualche spazio di manovra possa essere offerto anche dal recupero della sovranità monetaria). Se mi si consente di coniare un neologismo, abbiamo bisogno di un “ordo-keynesismo”
Sento spesso accuse alla “sinistra” di aver da tempo dismesso i suoi panni. C’è molto di soggettivo, oltre che di generico, in questa accusa. Non ci si domanda veramente perché la sinistra è in una drammatica crisi. Non è per mutamenti soggettivi che non c’è più una sinistra – se non nei suoi opposti (i buonisti/antagonisti speranzosi che assecondando le contraddizioni del capitalismo si partorisca la rivoluzione, o il D’Alemismo/Renzismo anch’esso volto ad assecondare i processi, sebbene in maniera diversa). Ciò che non c’è è una sinistra che sappia proporre ai ceti popolari una prospettiva politica di cambiamento degna di questo nome, e non lo fa perché è maledettamente difficile. Ma in ciò dimostra una codardia intellettuale e politica spaventosa. Quello che dunque mi sorprende è quanto poco ragionamento vi sia su quali dovrebbero essere gli elementi di un progetto economico che in un Paese solo (magari con una politica estera attiva e spregiudicata) punti alla piena occupazione e alla giustizia distributiva (e magari con qualche elemento di gestione socialista della produzione). La sinistra, tutta la sinistra, ha ripudiato dopo la fine del socialismo reale, ogni idea di intervento pubblico nell’economia. Se devo essere onesto, trovo anche il dibattito sui referendum talvolta fuorviante dai veri temi, e in effetti è la gente comune che lo trova lontano e incomprensibile. E’ lontano e incomprensibile perché è oscuro il legame con i temi del lavoro e della giustizia. Ma la sinistra questi temi li evita, meglio il piccolo cabotaggio, oggi i referendum, domani chissà.

Riferimenti bibliografici

Cesaratto, S. Alternative Interpretations of a Stateless Currency crisis, Asimmetrie.org/working-papers/wp-2015-08, in corso di pubblicazione sul Cambridge Journal of Economics.
Cesaratto, S., Fra Marx e List: sinistra, nazione e solidarietà internazionale a/ working papers 2015/02 www.asimmetrie.org
Cesaratto, S., The Classical ‘Surplus’ Approach and the Theory of the Welfare State and Public Pensions, in: G.Chiodi e L.Ditta (a cura di), Sraffa or An Alternative Economics, Palgrave Macmillan, 2007.
Davidson, N., State and Nation, An Interview with Neil Davidson, April 25, 2016, Viewpoint magazine, https://viewpointmag.com/2016/04/25/state-and-nation-an-interview-with-neil-davidson/
Engels, F. Lettera a Karl Kautsky, 1882, https://www.marxists.org/archive/marx/works/1882/letters/82_09_12.htm
Gallissot, R., Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio, in AAVV, Storia del marxismo, vol. II, Einaudi, Torino, 1979.
Hirschman, A., Social conflicts as pillars of democratic market society, Political Theory, vol. 22, 1994
Marx, K., Critica del Programma di Gotha, 1875, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
O'Leary, B.,On the Nature of Nationalism: A Critical Appraisal of Ernest Gellner's Writings on Nationalism, British Journal of Political Science 27 (2): 191-222.



[1] Il cosmopolitismo del capitale è peraltro assai à la carte: elevato quando si tratta di estendere geograficamente l’esercito industriale di riserva; scarso quando si ricorre al proprio Stato nazionale per sussidi e protezioni di vario genere.
[2] Così si esprimeva il documento esaminato da Marx: "La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell'ambito dell'odierno Stato nazionale, essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune agli operai di tutti i paesi civili, sarà l'affratellamento internazionale dei popoli." Nonostante l’ammissione “che l'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta”, in un pamphlet che rimase inedito, Marx ridicolizzò, da quello che egli riteneva fossero i veri interessi dei lavoratori, l’elemento progressista della via nazionale alla crescita economica prefigurata da Friedrich List (1789-1846) (v. Cesaratto 2015). Un economista inglese, molto famoso per i suoi studi sul cambiamento tecnologico, Chris Freeman, usava dire che il fatto che gli economisti giapponesi fossero per lo più marxisti fece la fortuna del Giappone, in quanto nel secondo dopoguerra le politiche industriali furono affidate agli ingegneri. Si può a questo aggiungere l’influenza di List, in Giappone e nel caso delle “tigri asiatiche”, e naturalmente in Germania e indirettamente in Italia.
[3] In un passo di una lettera di Engels (1882) a Kautsky, molto citata perché l’amico di Marx parla di imborghesimento della classe operaia inglese a fronte dello sfruttamento coloniale, afferma che: “ il proletariato vittorioso non può fare a forza la felicità di nessun popolo straniero, senza mettere in tal modo a repentaglio la sua propria vittoria” (cit. da Gallissot, 1979, p. 801). A Roma gira uno slogan antagonista: “Al mondo ci sono solo due classi: chi sfrutta e chi è sfruttato”. Come si vede il mondo è un pochino più complesso.
[4] Il concetto di Stato uno spazio sembra avercelo nella teoria marxista nella fase della “dittatura del proletariato”. Il concetto di nazione è quasi un tabù reazionario (se non come elemento tattico). Naturalmente qui avanzo dei giudizi molto tranchant. Per una rassegna delle posizioni nel marxismo classico (inclusi Kautsky, Rosa Luxemburg, Lenin e Stalin) si veda Gallissot (1979). In pratica, inoltre, sino a tempi recenti l’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e lotta per il socialismo non era posto in discussione. Ci riferiamo dunque soprattutto alla sinistra radicale odierna (non solo italiana) che, influenzata dai discorsi di origine liberista per cui la globalizzazione avrebbe reso obsoleto lo Stato nazionale, sposa un internazionalismo acritico avendo perso ogni dimensione nazionale delle lotte di emancipazione sociale. Contraddittoriamente, tuttavia, tale sinistra non si sognerebbe di mettere tale dimensione in discussione nel caso del popolo kurdo.
[5] Tale offerta può prendere la forma sia di una cooptazione “bismarkiana” della classe lavoratrice attraverso lo Stato sociale, che di lotte dei lavoratori per ottenerne un’estensione. Sulle origini dello Stato sociale, si veda Cesaratto (2007). Per Karl Polany (1886-1964), com’è noto, lo Stato sociale costituisce un’autodifesa dei ceti popolari a fronte della violenza del mercato.
[6] Davidson è sprezzante circa la nozione di “differenze etnico-culturali” che oscurerebbero “ciò che la gente ha in comune enfatizzando aspetti relativamente superficiali del nostro mondo sociale”. Ma il “multiculturalismo” non era un valore “di sinistra”? Forse quest’ultima dovrebbe un po’ chiarirsi le idee in merito.
[7] Per una trattazione più esaustiva si veda Cesaratto (2016). Viene lì spiegato come istituzioni sovra-nazionali fra nazioni economicamente disomogenee non potrebbe caricarsi di funzioni socialmente perequative, pena l’insubordinazione degli Stati più ricchi (incluse le loro classi lavoratrici).
[8] Se una “costituzione più bella del mondo” v’è stata, è stata probabilmente quella sovietica.
[9] E’ questa la prospettiva della sinistra militant/antagonista, cinica a mio avviso, poco interessata ai reali avanzamenti nel benessere dei ceti popolari quanto invece a che, di sconfitta in sconfitta, cresca una presunta coscienza rivoluzionaria.

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