Pubblichiamo la traccia di un intervento a un dibattito con Giorgio Cremaschi a una straordinaria e affollatissima festa nei dintorni di Pisa. Il tema era: “La
sovranità appartiene al popolo: i referendum momento di conflitto sociale
fondamento di democrazia”, 18 Agosto 2016, Festa RossaPerignano (PI).
Sergio Cesaratto
Voi perdonerete se prenderò il tema
di questa sera un po’ alla lontana. Non sono un giurista, e sono anche un po’
scettico sulla via giuridica al conflitto sociale, come sembra un po’ suggerire
il tema della serata. In un certo senso mi riferirò di più alla prima parte del
titolo: La sovranità appartiene al popolo. Giusto. Ma qual è l’ambito di questa
sovranità? Lo Stato nazionale, il tuo continente, il mondo intero? Su questo
come sinistra siamo molto reticenti, e su questo mi piacerebbe dire qualcosa.
Esiste una democrazia che vada oltre i confini del tuo Stato nazionale? E
siccome, almeno su questo si è d’accordo, il conflitto sociale è l’humus della
democrazia, qual è lo spazio naturale per il conflitto sociale?
Presa alla lettera, la tradizione
marxista respinge oltraggiosamente l’idea dell’identificazione della classe
lavoratrice col proprio Stato nazionale. Come è stato osservato, secondo questa
tradizione: “Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più
lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile
di solidarietà” (Gallissot 1979, p. 26; v. anche Cesaratto 2015), insomma chi
ha solo le catene da perdere non necessita di passaporto. Il principale
ostacolo a tale solidarietà, ben noto a Marx ed Engels, era nella concorrenza
fra le medesime classi lavoratrici nazionali, sia intermediata dalla
concorrenza fra i capitalismo nazionali che diretta attraverso i fenomeni
migratori. Ma sebbene procedendo in forma contraddittoria, l’internazionalismo
proletario rappresentava per Marx ed Engels il contraltare del cosmopolitismo
capitalistico, che essi avevano elogiato nel Manifesto del partito comunista come una forza liberatrice per
l’umanità, che avrebbe spazzato via, fra l’altro, i retaggi barbarici del
legami nazionali o etnici (ibid, p. 805).[1]
Naturalmente Marx ed Engels non potevano esulare dalle lotte nazionalistiche, a
cominciare dalle aspirazioni tedesca e italiana all’unificazione. Ma la
prospettiva dello Stato nazionale era per loro al massimo una tattica, e non
una strategia. Purtuttavia, nella Critica
al Programma di Gotha, dopo aver criticato i termini del tutto generici con
cui il Programma della socialdemocrazia tedesca aveva affiancato la lotta
internazionalista a quella nazionale, Marx ammette che: <S'intende da sé,
che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare
nel proprio paese, in casa propria, come classe, e
che l'interno di ogni paese è il campo
immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale,
come dice il Manifesto comunista, non per il
contenuto, ma "per la forma."> (Marx 1975, mio corsivo). [2]
[3]
La si metta come si crede, il passaggio è un riconoscimento impegnativo. Nel
lungo periodo siamo tutti morti, come dirà qualche anno dopo Keynes. E la
“forma” è spesso “sostanza”, ci dice il buon senso.
Fatto sta che da Marx ed Engels i
concetti di Stato e (soprattutto) nazione, nelle loro varie declinazioni e
intrecci, sono un buco nero della teoria marxista per la quale, nel lungo
periodo, non dovrebbero neppure esistere.[4]
Un’analisi molto citata che, se non
di impronta marxista, le è vicina nell’interpretare l’evoluzione delle
istituzioni (la sovrastruttura) come funzionale all’evoluzione materiale della
società (la struttura), è Ernest Gellner (1925-1995). Semplificando molto, egli
vede l’emergere delle entità nazionali come funzionale allo sviluppo capitalistico
che richiede l’omogeneizzazione culturale (in primis linguistica) della società
per consentire l’educazione di massa (a sua volta strumento di quella omogeneizzazione),
la comunicazione e il funzionamento degli apparati burocratici, l’unificazione
del mercato, la mobilità sociale e quant’altro (per una introduzione a Gellner v.
O’Leary, 1997). Come si vede nulla a che vedere con le giustificazione
“romantiche” del nazionalismo - che naturalmente hanno avuto una funzione
ideologica di leva delle rivoluzioni nazionali guidate soprattutto da
componenti intellettuali della piccola borghesia insofferenti dell’immobilità
sociale delle preesistenti forme istituzionali. Al contributo di Gellner fa
riferimento un noto studioso marxista (e scozzese, questo non è un caso) del
nazionalismo, Neil Davidson. In una intervista che ho trovato molto utile
(Davidson 2016) egli si ricollega a Gellner ed estende il funzionalismo della teoria di quest’ultimo (l’unificazione
nazionale come elemento di omogenizzazione culturale e modernizzazione delle
più complesse società industriali) alla natura di collante ideologico che il
nazionalismo svolgerebbe in particolare nei confronti delle classi lavoratrici.
In sostanza, la tesi di Davidson è
che il nazionalismo assolverebbe alla necessità di una compensazione ideologica
per le ferite apportate dal sistema capitalistico ai lavoratori. In tal senso
esso svolgerebbe una funzione reazionaria, evitando che essi sviluppino una
coscienza di classe che travalica i confini nazionali. Più specificatamente,
Davidson associa nazionalismo e riformismo - “I lavoratori rimangono nazionalisti
nella misura in cui rimangono riformisti” - vale a dire i lavoratori restano
nazionalisti nella misura in cui identificano nello Stato nazionale lo spazio
per il loro avanzamento e, naturalmente, lo Stato nazionale medesimo offra loro
questa opportunità.[5]
Non voglio entrare nel merito
ideologico di questa tesi – in fondo una ripetizione del punto di vista di Marx
sullo Stato nazionale come falsa coscienza e quant’altro.[6]
Siccome mi interessano di più gli avanzamenti concreti dei ceti popolari - anche
perché ritengo che da essi possa solo scaturire una successiva contestazione
più radicale del capitalismo - è interessante che posto di fronte a
problematiche concrete, lo studioso scozzese faccia parecchie ammissioni (un
po’ come Marx quando riconobbe che “l'interno di ogni paese è il campo
immediato della … lotta”).
Più precisamente, riferendosi
all’Unione Europea (EU), Davidson richiama un saggio di Hayek del 1939 in cui
questi sostiene la costituzione di entità sovranazionali in quanto non possono
che essere di natura liberista. Esse svolgerebbero dunque la doppia funzione di
svuotare gli Stati-nazionali di ogni potere economico e dunque redistributivo,
assegnando alla struttura sovranazionale un compito di mera ordinatrice delle
attività economiche (un disegno che potremmo definire, con termine ormai
popolare, “ordo-liberista”). Davidson giunge dunque a riconoscere che riforme
favorevoli ai lavoratori, possibili nello Stato-nazionale, diventano
impossibili una volta che le leve economiche siano trasferite presso
istituzioni sovra-nazionali.[7]
Ma non solo. Lo studioso scozzese critica anche l’argomento della sinistra
radicale (forse noi diremmo “antagonista”) per cui istituzioni sovranazionali
come quelle europee, sebbene volte a mortificare lo spazio conflittuale delle
classi lavoratrici nazionali, costringerebbe queste ultime a mettersi assieme
per cambiare quelle istituzioni. E al riguardo Davidson conclude: “La
solidarietà fra i confini non dipende dalle costituzioni o dalle istituzioni,
ma dalla volontà dei lavoratori di sostenersi a vicenda, persino se in Paesi
diversi. Invece di invocare battaglioni immaginari di lavoratori organizzati a
livello europeo, sarebbe più utile cominciare a costruire dove già siamo”. E in
un iperbolico capovolgimento di prospettiva, Davidson conclude: “E’ improbabile
che la battaglia contro il capitalismo neoliberista cominci simultaneamente
attraverso l’intera UE, o che sia ristretta ai suoi confini. Quello che più
probabilmente vedremo è una serie scostante di movimenti dalla differente
intensità, entro i diversi Stati-nazionali che, se vittoriosi, potrebbero
formare alleanze e, infine, gli Stati Uniti socialisti d’Europa. Tuttavia,
questa visione non potrebbe essere realizzata entro la UE, ma solo costruita da
capo sulle sue rovine”.
Dunque, lo Stato-nazionale da essere
strumento di corruzione riformista dei lavoratori diventa strumento necessario
per la rivoluzione socialista!
Quello che, infatti, mi sembra poco
chiaro nelle menti del movimento per il No al referendum (parlo della sinistra
naturalmente), è che qui non sia sta difendendo la “Costituzione più bella del
mondo”, slogan che lasciamo alla stucchevole Boldrini,[8]
ma le macerie (e solo quelle se non ci diamo una svegliata) di una nostro
Stato-nazionale entro cui esercitare il conflitto sociale, che se regolato, è
l’humus della democrazia (Hirschman 1994). Lo smantellamento delle istituzioni
democratiche e il rafforzamento degli esecutivi – di per sé accettabile solo se
si rafforzano al contempo le istituzioni di controllo, i poteri di “checks and
balances”) – diventa funzionale al disegno ordoliberista europeo, in cui
conflitto e democrazia non ci sono più, ma solo rigorose leggi di mercato tutelate
dalle istituzioni sovranazionali che agiscono per tramite di supine istituzioni
nazionali. Il no al referendum dovrebbe saldarsi al no all’Europa e al recupero
della sovranità economica nazionale (che è la cosa che davvero conta).
Purtroppo in questa consapevolezza siamo ancora molto indietro.
Così come siamo molto indietro nella
consapevolezza delle problematiche economiche in cui la tematica dello Stato
nazionale emerge in tutta la sua pregnanza. Su questo vorrei chiudere.
La crisi e il successivo crollo
dell’Unione Sovietica hanno avuto due conseguenze nefaste per la sinistra,
l’una a ben vedere simmetrica all’altra: l’apertura di spazi sconfinati per il
neo-liberismo e la totale assenza a sinistra di una risposta a quest’ultimo -
l’assenza di qualsiasi riflessione sul socialismo reale ne è la testimonianza.
In verità delle risposte ci sono state, ne possiamo individuare addirittura
tre:
(a)
la terza via blairiana, ovvero la fondamentale resa al
neoliberismo di cui si accetta la sostanziale vittoria sul socialismo; più che
di terza via si doveva parlare di senso unico, il liberismo come unica
prospettiva.
(b)
La via cosmopolita: una confusa denuncia del neoliberismo e della
globalizzazione capitalistica in nome di una “globalizzazione dei popoli”. Lo
spettro coperto da questa risposta è amplissimo: dalla dama di San Vicenzo sig.ra
Laura Boldrini, vuota quanto stucchevole; all’antagonismo No-questo e
No-quello, in cui l’idea di fondo, se capisco bene, è che non tocchi a noi dare
risposte o suggerire come governare i processi: le contraddizioni
capitalistiche devono scoppiare e su quelle si deve lavorare (esemplare il tema
dell’immigrazione). Se questo significa dare i ceti popolari in pasto alla
destra, beh al tanto peggio tanto meglio non v’è limite.[9]
In mezzo l’economia da Social Forum, quella del micro-credito, delle fabbriche
recuperate (spesso presunte tali), del commercio equo e solidale. Tutte
esperienze lodevoli, ma che si deve davvero essere ingenui per ritenerle tali
da costituire un’alternativa sistemica al capitalismo.
(c)
La terza via tradizionale, se mi si consente di
riappropriarmi di quest’espressione, è quella socialdemocratica keynesiana
basata su controllo dell’apparato pubblico da parte delle organizzazioni del
lavoro e politiche di sostegno della domanda aggregata anche attraverso elevati
salari diretti e indiretti, dunque attraverso la riduzione sostanziale delle
diseguaglianze. Tutto questo nell’ambito di un compromesso di classe in cui la
de-mercificazione dei rapporti fra i soggetti si arrestava ai cancelli della
fabbrica (dento i quali si esercitava, purtuttavia, un controllo sindacale).
Questa terza via, per quanto imperfettamente applicata in Paesi come il nostro,
incontrerebbe oggi difficoltà sostanziali nell’assenza di un quadro
internazionale di politiche economiche volte al cosiddetto keynesismo
internazionale. Questo è vero. Il keynesismo in un Paese solo è infatti
impossibile a fronte del vincolo di bilancia dei pagamenti. Le due esperienze relative
a due grandi Paesi, il governo laburista britannico 1974-79 e il primo
Mitterand del 1981-82 furono la pietra tombale su queste esperienze. Ci sono
dei “però”, tuttavia.
Accantonate le utopie speranzose (ma
è un termine generoso) dell’Altra Europa, o quelle dei battaglioni rivoluzionari
di lavoratori e immigrati, non rimane che quella del proprio Stato-nazionale.
Questa strategia non può che essere che quella dell’Economia dei controlli, controllo delle importazioni in primis. Non
c’è alternativa (sebbene, naturalmente, qualche spazio di manovra possa essere
offerto anche dal recupero della sovranità monetaria). Se mi si consente di
coniare un neologismo, abbiamo bisogno di un “ordo-keynesismo”
Sento spesso accuse alla “sinistra”
di aver da tempo dismesso i suoi panni. C’è molto di soggettivo, oltre che di
generico, in questa accusa. Non ci si domanda veramente perché la sinistra è in
una drammatica crisi. Non è per mutamenti soggettivi che non c’è più una sinistra
– se non nei suoi opposti (i buonisti/antagonisti speranzosi che assecondando
le contraddizioni del capitalismo si partorisca la rivoluzione, o il
D’Alemismo/Renzismo anch’esso volto ad assecondare i processi, sebbene in
maniera diversa). Ciò che non c’è è una sinistra che sappia proporre ai ceti
popolari una prospettiva politica di cambiamento degna di questo nome, e non lo
fa perché è maledettamente difficile. Ma in ciò dimostra una codardia
intellettuale e politica spaventosa. Quello che dunque mi sorprende è quanto
poco ragionamento vi sia su quali dovrebbero essere gli elementi di un progetto
economico che in un Paese solo (magari con una politica estera attiva e
spregiudicata) punti alla piena occupazione e alla giustizia distributiva (e
magari con qualche elemento di gestione socialista della produzione). La
sinistra, tutta la sinistra, ha ripudiato dopo la fine del socialismo reale,
ogni idea di intervento pubblico nell’economia. Se devo essere onesto, trovo
anche il dibattito sui referendum talvolta fuorviante dai veri temi, e in effetti è la
gente comune che lo trova lontano e incomprensibile. E’ lontano e
incomprensibile perché è oscuro il legame con i temi del lavoro e della
giustizia. Ma la sinistra questi temi li evita, meglio il piccolo cabotaggio,
oggi i referendum, domani chissà.
Cesaratto, S.
Alternative Interpretations of a Stateless Currency crisis, Asimmetrie.org/working-papers/wp-2015-08, in corso di pubblicazione sul Cambridge Journal of Economics.
Cesaratto, S., Fra Marx e List: sinistra, nazione e
solidarietà internazionale a/ working papers 2015/02 www.asimmetrie.org
Cesaratto,
S., The Classical ‘Surplus’ Approach and the Theory of the Welfare State and
Public Pensions, in:
G.Chiodi e L.Ditta (a cura di), Sraffa or An Alternative
Economics, Palgrave Macmillan, 2007.
Davidson,
N., State and Nation, An Interview with
Neil Davidson, April 25, 2016, Viewpoint
magazine,
https://viewpointmag.com/2016/04/25/state-and-nation-an-interview-with-neil-davidson/
Engels,
F. Lettera a Karl Kautsky, 1882,
https://www.marxists.org/archive/marx/works/1882/letters/82_09_12.htm
Gallissot, R.,
Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio, in AAVV, Storia del marxismo, vol. II, Einaudi,
Torino, 1979.
Hirschman, A., Social conflicts as pillars
of democratic market society, Political
Theory, vol. 22, 1994
Marx, K., Critica del Programma di Gotha, 1875, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
O'Leary, B.,On the Nature of Nationalism: A
Critical Appraisal of Ernest Gellner's Writings on Nationalism, British Journal of Political
Science 27 (2): 191-222.
[1] Il cosmopolitismo del capitale è peraltro
assai à la carte: elevato quando si tratta di estendere geograficamente l’esercito
industriale di riserva; scarso quando si ricorre al proprio Stato nazionale per
sussidi e protezioni di vario genere.
[2] Così si esprimeva il documento esaminato da
Marx: "La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell'ambito dell'odierno Stato nazionale,
essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune
agli operai di tutti i paesi civili, sarà l'affratellamento internazionale dei
popoli." Nonostante l’ammissione “che l'interno
di ogni paese è il campo immediato della sua lotta”, in un pamphlet che
rimase inedito, Marx ridicolizzò, da quello che egli riteneva fossero i veri interessi dei lavoratori, l’elemento
progressista della via nazionale alla crescita economica prefigurata da
Friedrich List (1789-1846) (v. Cesaratto 2015). Un economista inglese, molto
famoso per i suoi studi sul cambiamento tecnologico, Chris Freeman, usava dire
che il fatto che gli economisti giapponesi fossero per lo più marxisti fece la
fortuna del Giappone, in quanto nel secondo dopoguerra le politiche industriali
furono affidate agli ingegneri. Si può a questo aggiungere l’influenza di List,
in Giappone e nel caso delle “tigri asiatiche”, e naturalmente in Germania e indirettamente in
Italia.
[3] In un passo di una lettera di Engels (1882) a
Kautsky, molto citata perché l’amico di Marx parla di imborghesimento della
classe operaia inglese a fronte dello sfruttamento coloniale, afferma che: “ il
proletariato vittorioso non può fare a forza la felicità di nessun popolo
straniero, senza mettere in tal modo a repentaglio la sua propria vittoria”
(cit. da Gallissot, 1979, p. 801). A Roma gira uno slogan antagonista: “Al
mondo ci sono solo due classi: chi sfrutta e chi è sfruttato”. Come si vede il
mondo è un pochino più complesso.
[4] Il concetto di Stato uno spazio sembra
avercelo nella teoria marxista nella fase della “dittatura del proletariato”.
Il concetto di nazione è quasi un tabù reazionario (se non come elemento
tattico). Naturalmente qui avanzo dei giudizi molto tranchant. Per una rassegna
delle posizioni nel marxismo classico (inclusi Kautsky, Rosa Luxemburg, Lenin e
Stalin) si veda Gallissot (1979). In pratica, inoltre, sino a tempi recenti
l’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e lotta per il socialismo
non era posto in discussione. Ci riferiamo dunque soprattutto alla sinistra
radicale odierna (non solo italiana) che, influenzata dai discorsi di origine
liberista per cui la globalizzazione avrebbe reso obsoleto lo Stato nazionale, sposa
un internazionalismo acritico avendo perso ogni dimensione nazionale delle
lotte di emancipazione sociale. Contraddittoriamente, tuttavia, tale sinistra
non si sognerebbe di mettere tale dimensione in discussione nel caso del popolo
kurdo.
[5] Tale offerta può prendere la forma sia di una
cooptazione “bismarkiana” della classe lavoratrice attraverso lo Stato sociale,
che di lotte dei lavoratori per ottenerne un’estensione. Sulle origini dello
Stato sociale, si veda Cesaratto (2007). Per Karl Polany (1886-1964), com’è
noto, lo Stato sociale costituisce un’autodifesa dei ceti popolari a fronte
della violenza del mercato.
[6] Davidson è sprezzante circa la nozione di
“differenze etnico-culturali” che oscurerebbero “ciò che la gente ha in comune
enfatizzando aspetti relativamente superficiali del nostro mondo sociale”. Ma
il “multiculturalismo” non era un valore “di sinistra”? Forse quest’ultima
dovrebbe un po’ chiarirsi le idee in merito.
[7] Per una trattazione più esaustiva si veda
Cesaratto (2016). Viene lì spiegato come istituzioni sovra-nazionali fra
nazioni economicamente disomogenee non potrebbe caricarsi di funzioni
socialmente perequative, pena l’insubordinazione degli Stati più ricchi
(incluse le loro classi lavoratrici).
[8] Se una “costituzione più bella del mondo” v’è
stata, è stata probabilmente quella sovietica.
[9] E’ questa la prospettiva della sinistra
militant/antagonista, cinica a mio avviso, poco interessata ai reali avanzamenti nel
benessere dei ceti popolari quanto invece a che, di sconfitta in sconfitta,
cresca una presunta coscienza rivoluzionaria.
Nessun commento:
Posta un commento