La Commissione "squilibrata"
Sergio Cesaratto
Con un accanimento degno di
miglior causa la Commissione europea ha ieri collocato l’Italia fra cattivi
della classe, anzi fra i pessimi, alla luce dei parametri della “Procedura per
gli squilibri macroeconomici.” Quest’ultima è parte del “semestre europeo”, un
bizantino insieme di regole di sorveglianza su bilanci e dati macroeconomici
con tanto di sanzioni per chi non vi ponga rimedio. Secondo la Commissione 14
Stati membri presentano squilibri, ma questi sono considerati “eccessivi” solo
per tre fra cui il nostro (gli altri due sono Croazia e Slovenia). Nella lista
dei cattivi compaiono anche Germania e Francia.
All’Italia viene imputato
il livello elevato del debito pubblico e la fragile competitività estera la cui
causa ultima sarebbe il protrarsi di una debole crescita della produttività. Veniamo
dunque richiamati a porre il rapporto debito/Pil su un deciso sentiero di
riduzione attraverso un maggiore rigore (sic) dal 2014. Simili rimbrotti
vengono rivolti alla Francia, mentre il tono della Commissione si fa più dolce con
la Spagna, di cui si elogiano gli aggiustamenti (dimenticando che fra i
parametri sotto osservazione ci sarebbero anche la disoccupazione e il debito
estero per i quali la Spagna meriterebbe l’espulsione dalla scuola). Persino all’osservatore
esperto è complicato commentare affermazioni sgangherate quali si ritrovano nel
rapporto della Commissione. Come si fa da un lato a lamentare che uno dei
problemi europei sia la scarsa crescita della domanda e degli investimenti, e per
l’Italia della produttività, e poi imporre ulteriori misure di restrizione
fiscale? Tutti sanno che investimenti e produttività dipendono dalla domanda
aggregata e quest’ultima dalle politiche di bilancio. Con Lanfranco Turci
denunciammo ieri come l’ossessivo e ossequioso rispetto italiano del vincolo
del disavanzo al 3% - mentre Francia e Spagna lo violavano benedette dalla
Commissione - spiega perché siamo gli ultimi nella crescita. Ma la Commissione
ha la faccia di chiederci ulteriori contrizioni. La medesima Commissione bacchetta
invece con fare servile i surplus commerciali tedeschi premurandosi di dire che
essi non sollevano i medesimi rischi dei disavanzi, al massimo “meritano un’attenzione
molto ravvicinata.” Con fare untuoso si ascrive a Berlino di avere più che
superato gli obiettivi di aggiustamento fiscale il che, si ammette, può creare
degli “effetti avversi” sul resto dell’Unione Monetaria vista la dimensione
della Germania. Basterebbe questo per porre Berlino e non Roma sul banco degli
accusati.
In via di principio le procedure per gli squilibri
eccessivi culminano in sanzioni. La politica europea è però fatta anche di
molta ipocrisia. Il prossimo anno entra per esempio in vigore il fiscal compact con l’obbligo teorico di
ridurre il rapporto debito pubblico/Pil di un ventesimo all’anno sino al
livello del 60%, con tanto di sanzioni quasi-automatiche per gli inadempienti. Questo
ci imporrebbe surplus di bilancio tali da far impallidire l’austerità sinora
subita. Non se ne farà nulla, anche se non sarà semplice per l’Europa trovare
le scappatoie per non imporre sanzioni. Ma ben vengano se esse portassero,
finalmente, a una grave crisi istituzionale europea che ponesse fine a questa vicenda.
Auspicando che ciò avvenga democraticamente, qualche giorno fa un noto storico
economico, Kevin
O’Rourke, affermava che fra 50 anni non ci si domanderà
perché l’euro si è rotto, ma perché mai è stato creato. La sinistra deve stare
attenta a non fornire alibi al prolungamento dell’agonia coltivando l’illusione
di soluzioni che non sono in vista.
(il manifesto 6 marzo 2014)
(il manifesto 6 marzo 2014)
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