giovedì 15 marzo 2012

L'intervento di Leonardo Paggi

1. Devo dire subito che il tema di questo seminario suscita in me inquietudine e risposte tutt’altro che ottimistiche. Con il compimento di un ventennio dal varo del  Trattato di Maastricht, inevitabilmente giunge anche il tempo dei bilanci. Ne ha suggerito uno particolarmente catastrofico, ma sostanzialmente, a mio parere, condivisibile, l’economista americano Martin Feldstein, prima sul Wall Street Journal del  15  dicembre 2011 e poi in modo più diffuso in una intervista al settimanale Die Zeit  del 23 febbraio di quest’anno. L’idea che fosse possibile unire tra loro economie molto diverse senza nemmeno l’esistenza di una effettiva banca centrale, e avendo come unica preoccupazione il mantenimento   della stabilità monetaria e il rispetto dei vincoli di bilancio, si è rivelata una solenne sciocchezza, che chiama duramente in causa le responsabilità di un’intera classe dirigente europea.

Se già negli anni 90 l’Europa paga ai celebri  “parametri di Maastricht”il prezzo di un fortissimo rallentamento della crescita, con la crisi del settembre 2008 è la Ue  nel suo insieme ad essere gettata nel caos.  La peculiarità negativa della esperienza che il vecchio continente viene facendo  all’interno di questa crisi globale  la si coglie bene proprio in comparazione. In assenza di qualsiasi strumento di governo politico, a differenza di quanto è avvenuto  negli Stati uniti, la crisi delle banche si è rovesciata da noi in una assai più drammatica crisi dei debiti sovrani. Si è  innescata per questa via  una dinamica di conflitto che chiama ormai in causa le relazioni tra gli stati e ripropone apertamente il contrasto tra i diversi interessi nazionali.

E’ penoso vedere il ministro delle finanze Wolfgang Schauble messo in divisa SS sui tabloid di Atene. Siamo alla banalizzazione di un passato tragico, che chiama in causa la storia d’Europa nel suo complesso, spiegabile solo con  un sentimento di frustrazione e di impotenza politica. Ma è inquietante anche  il riaffiorare  nel discorso pubblico della Germania dei toni di una cultura della superiorità e della sanzione che si pensava  archiviati per sempre.

Il vecchio assunto funzionalista (qualcuno dice marxista!) che la moneta in quanto tale avrebbe unificato le culture europee e generato per partenogenesi la politica  è dunque ormai  improponibile. Con la  costituzione economica adottata a Maastricht l’euro non solo non ha unito, ma ha anzi profondamente diviso e contrapposto i paesi europei. L’unificazione europea è oggi molto più lontana di quanto non fosse nel 1992.

L’applicazione del nuovo contratto fiscale è destinata a peggiorare ulteriormente la situazione,  per gli  inasprimenti degli indici di stabilità(si prevede ormai il pareggio netto di bilancio), ma anche per il nuovo di tipo di governance dell’Unione che viene prospettato. In occasione della cancellazione del referendum greco, Jurgen Habermas  parlò di   postdemocrazia. Da allora il quadro si è progressivamente incupito. La scelta di lasciare ai mercati il compito di determinare i tassi di interesse- su cui in questi mesi di crisi ha sempre martellato con tenacia il  presidente della Bundesbank-  si sta rivelando   non solo  economicamente depressiva, ma anche politicamente lesiva sul terreno della democrazia. In questo nuovo progetto di governo della Ue  la libertà che viene lasciata ai mercati di svolgere incontrastati la loro opera di “disciplinamento” spinge   infatti i paesi più indebitati  a devolvere porzioni sempre più ampie di sovranità nazionale in cambio di condizioni di credito meno catastrofiche. Ma lo svuotamento delle sovranità nazionali, che pure sono tuttora  condizione imprescindibile per l’esercizio di qualsiasi democrazia, va di pari passo con l’offuscamento progressivo del volto comunitario dell’Unione. A danno delle istituzioni federali  prende infatti sempre più piede un controllo intergovernativo che spinge all’accentramento di tutte le decisioni nelle mani di un solo paese: la Germania.

“Austerità fiscale e deresponsabilizzazione politica vanno di pari passo” – afferma Aldo Barba,  stamani qui presente tra noi,  in un saggio sul funzionamento del Fiscal Compact di prossima pubblicazione. La manovra di bilancio, da un lato si spoliticizza, in ragione di condizioni e  modalità  di attuazione prestabilite ex ante, con vari dispositivi automatici, dall’altro  si caratterizza per una precisa valenza politica,  in ragione dei sui specifici contenuti economici e sociali. In questo  quadro di compatibilità macroeconomiche le uniche possibilità di crescita sono infatti  interamente  affidate alle esportazioni con l’ esclusione di qualsiasi apporto della dinamica della domanda interna. Ma ciò che vale per la Germania non può valere per la restante e più fragile  parte di Europa.

   2. E’ del tutto interna a questa  logica l’origine e  la impostazione del governo tecnico attualmente in carica nel nostro paese.

Quando il 7 agosto dello scorso anno Monti plaude sul Corriere della sera alla lettera della Bce, anche e proprio in quanto espressione di un “podestà straniero”, ossia di un potere extranazionale,  egli avanza per la prima volta la sua candidatura a dirigere un nuovo governo del paese. E tuttavia occorre riconoscere che non si tratta di una mossa tattica improvvisata. In quelle dichiarazioni Monti esprime una posizione rigorosamente coerente  con la sua precedente storia intellettuale e politica. Se si prendono oggi in mano i suoi scritti degli anni 90, dalla definizione di Maastricht al difficile ingresso dell’Italia nell’euro, è facile cogliere la indiscussa centralità di due temi:
a)L’importanza di  Maastricht come “vincolo esterno” capace di imporre dal di fuori, un cambiamento radicale della costituzione economica del paese; b) la entusiastica accettazione del modello tedesco in quanto luogo di origine di quella  “cultura della stabilità”che ha già improntato di sé l’architettura del Trattato.

La tesi di Monti è che per l’Italia l’importanza particolare di Maastricht sta nel fatto che esso rende obbligatorio e improcrastinabile il risanamento finanziario. “Il Trattato- sto citando da un testo dell’epoca- equivale per l’economia italiana ad una radicale riforma costituzionale. Esso rivolta come un guanto il modello di governo dell’economia che si è imposto negli anni 60 e 70, e per alcuni aspetti ancora negli anni 80”(p.513). Nella sua collaborazione al Corriere della sera di questi anni Monti torna sempre a sottolineare come lo sviluppo della costruzione europea abbia offerto  una occasione unica per imporre all’Italia quella disciplina monetaria e finanziaria e quella tutela di un libero funzionamento dei mercati che il paese non sa raggiungere con le sue forze. “ Per noi è importante- afferma ancora Monti nel settembre 1992 in una intervista alla Frankfurter Allgemeine- che la Cee tenga sotto pressione la politica economica e finanziaria italiana, magari con un prestito condizionato al nostro paese”(p.571)

Ma Maastricht – questo è il secondo motivo della riflessione di Monti – è importante anche in quanto esportazione in Europa del virtuoso modello economico tedesco. “L’indipendenza della Bundesbank – egli scrive- è importante per l’Europa intera, più di quanto si pensi”. E tuttavia per quanto paradossale possa sembrare, nella sua invocazione  un po’ subalterna di una egemonia tedesca in Europa,  Monti non dà mai ragione in questi suoi interventi politici  della estrema  complessità del modello economico di questo paese. Più in particolare non risulta mai come la stabilità monetaria e finanziaria sia  solo   l’altra faccia  di una economia che è seconda solo alla Cina per il volume delle esportazioni. A partire dagli anni 80, in aperta controtendenza rispetto  alle nuove  ricette liberiste  del capitalismo angloamericano, la Germania  ha svolto  una attivissima politica industriale di  continuo  potenziamento dei settori più tradizionali del  suo manifatturiero, riuscendo a  preservare nello stesso tempo uno stato sociale che è il più generoso in Europa. Ma ancora : è proprio Kohl a decidere l’unificazione monetaria delle due Germanie contro il parere della Bundesbank. L’ammontare dei trasferimenti porterà il paese a violare tutti i valori fissati dai patti di stabilità allora in vigore. Ma sono proprio questi i successi nazionali  tedeschi che dovremmo ammirare e assumere come  termine di paragone e di incitamento per il resto d’Europa.

            3.Passata la fibrillazione dello spread, costruita anche sulla base di inaudite forzature mediatiche, l’economia italiana si trova  più di prima  a fare i conti con i problemi di una lunga, ininterrotta stagnazione che trapassa ormai in aperto declino. Le ricette che la Bce, e per suo tramite la Germania,  sta prescrivendo per l’Europa non fanno bene all’ Italia, sono in contrasto con il nostro interesse nazionale.

            Sembra ormai nata e consolidata una nuova vulgata politica in omaggio alla quale si dicono e si scrivono quotidianamente e impunemente cose che fanno a pugni con il più elementare senso comune. Non è vero che le liberalizzazioni(quella poi dei tassisti!) faranno  riprendere la nostra  competitività. Non è vero- e tutti lo sanno- che il cambiamento o l’abolizione dell’articolo 18 faciliterà una ripresa degli investimenti.  Continuo a pensare per mio conto  che il potere di contrattazione del sindacato sia fattore di progresso tecnologico, nella misura in cui rappresenta uno stimolo importante   al reinvestimento dei profitti.

Ma ancora, la flessibilizzazione del mercato del lavoro perseguita dal  governo Schroeder avviene in un contesto istituzionale in cui il sindacato continua a far parte dei consigli di amministrazione delle imprese. Certo si crea allora una zona di basso salario; e che il governo conservatore di Angela Merkel vada alle elezioni facendo sua la proposta del salario minimo garantito è un segno dei guasti che anche lì si sono creati. Ma la competitività tedesca continua a dipendere da un sistema formativo di prima qualità, dall’ininterrotto  sostegno finanziario dato alla ricerca e alla innovazione, dalle prestazioni eccellenti delle istituzioni pubbliche.

            Lo stato del nostro paese mette in rilievo tendenze e problemi  in qualche modo simmetricamente opposti. La crisi che oggi colpisce la democrazia italiana ha uno dei suoi luoghi di origine nel fatto che da trent’anni, dall’inizio del tramonto  del fordismo, il potere del sindacato non ha cessato di rinculare, con effetti drammatici per lo stesso stato della domanda interna. Lo ha sottolineato più volte Mario Draghi prima di sostenere cose simmetricamente opposte  una volta diventato presidente della BCE.

            Per tutte queste ragioni a mio parere  non ha fatto bene il presidente della repubblica a chiedere alla Fiom, dopo il successo della sua manifestazione, di non fare troppa resistenza alle richieste del governo. Nella situazione attuale non c’è interesse generale che non includa l’interesse del lavoro.

            L’Italia è paese troppo grande per essere governato da uomini di fiducia della Bce forti di una maggioranza parlamentare sgangherata che non diventerà mai maggioranza politica e di una  visione puramente finanziaria dei problemi – vorrei aggiungere quella stessa che inspira la strategia aziendale di Marchionne.

            Con  questi strumenti ben lungi dal rovesciare l’economia del paese come un guanto  ci si inserisce più modestamente nel filo di una lunga tradizione deflazionista delle classi dirigenti italiane. Nel 1869 Quintino Sella alla ricerca del pareggio del bilancio con la tassa sul macinato gettava l’intero paese nel caos economico e sociale.

Occorre al contrario capovolgere  la lettura che Monti dà del modello tedesco e realizzare che il successo di questo paese sta, ben oltre la  stabilità finanziaria, nell’ aver costruito una economia dell’offerta  fondata su di un apparato produttivo forte e innovativo che nella stabilità monetaria vede  non un valore o una virtù, ma più semplicemente un ingrediente essenziale della propria competitività.

            Nella crisi dell’euro gli interessi nazionali di Italia e Germania sono allo stato attuale divergenti. Rimane aperta per questo la necessaria ricerca di un diverso discorso di governo dell’Unione che sappia mediarli e renderli compatibili e la grande importanza di un continuo  confronto culturale franco e sereno, come quello che stiamo avendo qui questa mattina.


Leonardo Paggi, Roma 13 marzo 2012  

1 commento:

  1. Per l'interesse generale del Paese.
    Predisporre come lettera aperta per la Triplice.
    Grazie.

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