Questo articolo di Tabellini dal Sole del 14 luglio ci sembra crepi il fronte degli economisti "bocconiani" ed è in larga misura condivisibile. Forte è la tentazione di dire: ma noi diciamo queste cose da sempre! Lo commenteremo presto. Anche Luigi Spaventa è rimasto folgorato (v. http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=64089655). Per ora, chapeu. Grazie a Lanfranco Turci per la segnalazione. S.C.
(nella parte finale c'è un passaggio monco, così è nel sito del Sole)Le pezze non riportano la fiducia
di Guido Tabellini
Se uno Stato non fosse costretto a cercare di preservare la fiducia dei mercati, si dice, i suoi incentivi sarebbero distorti e il cosiddetto "azzardo morale" lo indurrebbe ad accumulare debiti eccessivi. Questa idea, che è certamente valida per le istituzioni private, non può applicarsi anche ai paesi dell'euro. Fino a che questa idea non sarà abbandonata, sarà difficile uscire dalla crisi.
La ragione per cui l'idea è sbagliata la stiamo constatando in questi giorni in Italia. In una settimana il costo marginale del debito pubblico è salito di circa un punto percentuale. Ancora un paio di settimane così, e l'Italia è fuori dal mercato. La scadenza media del debito pubblico, di oltre sette anni, riuscirebbe a tenerci al riparo per un po'. Ma a lungo andare, lo Stato italiano sarebbe incapace di far fronte al suo debito. Non perché sia cambiata in peggio la situazione dei conti pubblici italiani rispetto a sei mesi fa. Solo perché i mercati hanno di colpo tolto la fiducia.
Più in generale, abbiamo visto come opera la disciplina dei mercati finanziari. Per anni, i problemi si accumulano e sono ignorati. Poi di colpo ci si accorge che la situazione è diventata insostenibile, e si salvi chi può. Il problema è aggravato dalla separazione tra politica monetaria e fiscale, uno dei principi costitutivi dell'area euro. Senza la valvola di sfogo della politica monetaria, l'estensione del contagio dalla Grecia ad altri Paesi è un evento troppo probabile perché i mercati possano trascurarlo. Ma questo stesso timore rende il contagio una profezia che si auto-avvera.
Per uscire da questa trappola occorrono alcune profonde modifiche delle istituzioni su cui si regge la moneta unica.
Il primo passo è rinforzare in modo drastico i meccanismi di controllo dell'Unione europea sulle decisioni nazionali di politica economica. Se i mercati non possono farlo, è la Commissione europea che deve diventare il guardiano intransigente dei conti pubblici e della disciplina di bilancio. Ma non basta il controllo sui conti pubblici. Come ci insegnano Irlanda e Spagna, occorre anche che le istituzioni europee abbiano strumenti per impedire l'accumulazione di debiti eccessivi nei sistemi bancari nazionali. Entrambe queste esigenze richiedono un sostanziale trasferimento di sovranità economica dai singoli Paesi alle autorità europee (Commissione o autorità di regolamentazione). Gli imminenti stress test sulle banche europee saranno un primo banco di prova della reale volontà di muoversi in questa direzione. Ma sarà necessario andare oltre e rinforzare ancora le prerogative della neonata European Banking Authority. Naturalmente questo trasferimento di sovranità non può non riguardare tutti paesi, inclusi Francia e Germania, e non solo la cosiddetta periferia europea.
In secondo luogo, è urgente operare una distinzione: alcuni Paesi oggi sono in grado di far fronte ai loro debiti, altri no. Occorre tracciare una linea, e stabilire chi è di qua, e chi di là. Ma la linea va tracciata consapevolmente dalle autorità europee, non lasciata alla psicologia collettiva dei mercati.
Se un Paese è ritenuto solvente, il suo debito deve essere protetto dal contagio. Senza la protezione dell'Europa e senza una politica monetaria autonoma, ormai è difficile che i Paesi ad alto debito possano resistere al crollo di fiducia che sta scuotendo i mercati finanziari. Questi debiti esistono, e non possono essere riassorbiti dall'oggi al domani. La realtà può non piacere, ma non può essere ignorata.
L'obiettivo può essere raggiunto in due modi: il più semplice dal punto di vista economico (ma forse impedito dal trattato europeo) è dare mandato alla Banca centrale europea di intervenire senza esitazioni a sostegno dei debiti dei Paesi sotto attacco, sia sul mercato secondario che su quello primario dei titoli di Stato. L'alternativa, che probabilmente non richiederebbe profonde modifiche del trattato, è consentire alla European Financial Stability Facility (Efsf) di svolgere questo ruolo senza bisogno di autorizzazioni politiche; in questo secondo caso, tuttavia, l'Efsf deve potersi finanziare sul mercato e/o presso la Bce, con risorse così ingenti da risultare in pratica illimitate, a fronte di debito garantito solidalmente da tutti gli Stati che aderiscono all'euro. Sarebbe questa la funzione cruciale che potrebbe essere svolta dai cosiddetti Eurobond. Solo in uno di questi due modi l'impegno di riportare fiducia sui mercati sarebbe davvero credibile in qualunque circostanza. Impegni di dimensioni insufficienti e soggetti alla verifica della volontà politica sarebbero poco credibili e quindi poco efficaci.
E i Paesi ritenuti non in grado di far fronte ai loro debiti? Se il debito è insostenibile, esso può solo essere ristrutturato, e prima lo si fa, meglio è. Il meccanismo già sperimentato con successo in America Latina negli anni 80, il piano Brady, può essere adattato alla situazione europea. Allora furono gli Stati Uniti ad offrire garanzie sulla quota di debito residuo, che restava da rimborsare dopo la ristrutturazione; in Europa questo stesso ruolo lo dovrebbe svolgere l'Efsf, cioè in ultima istanza gli Stati dell'area euro. In alternativa, si potrebbe consentire all'Efsf di acquistare ai prezzi di mercato il debito in circolazione (con l'inconveniente però di farne salire il prezzo, rischiando quindi di non riuscire a ridurre abbastanza l'onere del debito). Inevitabilmente, insieme alla ristrutturazione occorrerebbe affrontare anche la questione della ricapitalizzazione delle banche coinvolte.
Un'obiezione ricorrente a questo tipo di proposta è che imboccheremmo la strada dei trasferimenti fiscali tra Paesi, il che è politicamente improponibile. Ma è un'obiezione fuorviante. Se si accetta la premessa di un forte trasferimento di sovranità economica dai governi nazionali al governo europeo, il rischio di essere chiamati a rimborsare il debito emesso dall'Efsf (o a coprire le perdite della Bce) è minimo. E anche se ciò dovesse accadere, l'insolvenza sarebbe attribuibile ad errori delle autorità europee e non più del singolo Paese. In altre parole, garanzie e solidarietà, a fronte però di adeguati strumenti di governo a livello centrale. L'obiezione vera a questa impostazione non è che porterebbe a inaccettabili trasferimenti tra Stati sovrani, bensì che comporterebbe la rinuncia ad alcuni aspetti importanti di sovranità economica nazionale. Ma, come stiamo scoprendo a nostre spese, questa rinuncia è diventata inevitabile il giorno che abbiamo deciso di far nascere la moneta unica.
Andrebbe infine affrontata apertamente la questione del mandato della Bce. Oggi la politica monetaria europea, anziché essere di aiuto, rappresenta una parte del problema. Con la motivazione di inseguire il fantasma dell'inflazione, la Bce sta gradualmente facendo salire i tassi di interesse - come se la crisi finanziaria riguardasse un'altra parte del mondo. Ma un po' di inflazione oggi, più che essere un pericolo, sarebbe una benedizione, perché contribuirebbe ad abbattere il peso del debito. Inoltre una politica monetaria meno espansiva che in altri Paesi spinge il cambio ad apprezzarsi. Se l'euro fosse vicino alla parità con il dollaro, forse anche i problemi di stagnazione di una parte rilevante dell'Europa sarebbero meno formidabili di come appaiono, e sarebbe più facile ridare fiducia ai mercati.
Ormai non c'è dubbio che la crisi del debito sovrano nell'area euro ha raggiunto dimensioni sistemiche. La questione non riguarda più il singolo Paese, ma le fondamenta su cui l'Unione economica e monetaria europea è stata costruita. Per sopravvivere, queste fondamenta vanno modificate, e ciò va fatto ora, non tra qualche anno. Se i Paesi europei non sono pronti a imboccare la strada di una maggiore integrazione dei meccanismi di governo economico e a rivedere alcune impostazioni sbagliate, non illudiamoci che l'approccio seguito finora, delle pezze messe di volta in volta per prendere tempo, possa riportare la fiducia.
14 luglio 2011
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