lunedì 4 novembre 2024

Draghi mercantilista?


 Pubblichiamo articolo su Menabò in un numero con altri interventi sul Rapporto Draghi.

Il Rapporto Draghi fra mercantilismo benevolo e mercantilismo ostile

Sergio Cesaratto richiama l’attenzione sui tratti neo-mercantilisti del Rapporto Draghi e ritiene che in essi si annidi una critica implicita all'impianto neoliberista che ha ispirato la governance europea. Cesaratto sostiene anche che il 'nazionalismo europeo' che traspare dal Rapporto non sembra avere sempre accenti progressisti e, inoltre, che su di esso grava il rischio di essere minato dalla mancanza di uno spirito comunitario assimilabile a quello nazionale.

Il Rapporto Draghi dedicato al futuro della competitività europea evoca diversi e opposti aspetti del mercantilismo. Il mercantilismo può assumere infatti forme benigne, in difesa dei propri interessi nazionali senza pregiudizialmente voler danneggiare nessuno, od ostili verso altri Paesi o verso la propria classe lavoratrice (Guerrieri, P. e Padoan, P.C., Neomercantilism and international economic stability, International Organization, 40 (1), 1986, pp. 29–42; Barba, A. e Pivetti, M. (2022), Merci senza frontiere. Come il libero scambio deprime occupazioni e salari, Rogas).

L’ossessione mercantilista del perseguimento degli avanzi commerciali, per esempio, ben caratterizza le politiche economiche tedesche del secondo dopoguerra (Cesaratto, S., Sei lezioni di economia, Diarkos, Reggio Emilia, 2019). All’interno dell’unione monetaria europea, il neo-mercantilismo tedesco ha in particolare costituito un fattore di squilibrio impedendo una crescita cooperativa dell’insieme dell’Unione e imponendo moderazione salariale ai medesimi lavoratori tedeschi. Spesso in una goffa imitazione del modello tedesco, l’Europa nel suo complesso costituisce a sua volta una realtà mercantilista, avendo basato la propria crescita non sul mercato interno ma sul sostegno alle esportazioni, costituendo in tal modo un fattore di squilibrio globale e di mortificazione del benessere interno (Paggi, L. e D’Angelillo, M., Il Rapporto Draghi, la competitivita’, la politica, settembre 2024, dattiloscritto). Con il processo di de-globalizzazione in atto (sulla cui natura e portata si discute invero molto), inizialmente dovuto alla pandemia e poi in maniera più strutturale alla crisi geopolitica, e con i prevaricanti vantaggi tecnologici acquisiti da Cina e Stati Uniti, le problematicità del modello europeo sono ora venute al pettine. Quei vantaggi tecnologici non nascono a caso ma sono frutto di politiche di nazionalismo economico: protezione delle proprie industrie avanzate, massicci investimenti in ricerca e nell’apparato militare-industriale, realizzazione di economie di scala sostenendo il mercato interno, in particolare attraverso la domanda pubblica. Il Rapporto Draghi questo lo riconosce chiaramente. Ciò su cui tende invece a sorvolare, tranne pochi accenni nelle prime pagine, è che nello scorso decennio l’Europa, invece di pensare a investire nel futuro, si è autoinflitta una dura austerità fiscale che la revisione del Patto di stabilità e crescita ha ribadito come l’asse centrale della governance economica. Il Rapporto Draghi non coglie dunque che gran parte della debole crescita della produttività in Europa è stata dovuta a quelle politiche. Il Rapporto ricerca piuttosto le cause del ritardo europeo in fattori dal lato dell’offerta – con qualche riconoscimento, tuttavia, alla necessità di un sostegno dal lato della domanda di investimenti, soprattutto da parte del settore pubblico. Che politiche industriali pro-active siano ritenute necessarie è comunque un importante concessione. Certo Draghi è un liberale, ma il Rapporto dimostra che quando si tratta di salvare la barca, in questo caso il capitalismo industriale e finanziario europeo, i ceti dominanti sono pronti ad abbandonare il liberismo a favore del nazionalismo economico (la contraddizione è che l’Europa non è una nazione, come diremo più avanti).

Gli obiettivi del Rapporto Draghi sono stati già ampiamente raccontati: recuperare la competitività industriale europea con particolare riguardo alla riduzione dei costi dell’energia, alla transizione ecologica (decarbonizzazione), e alla difesa. L’azione sul fronte dell’energia non è solo tecnologica ma implica, secondo il Rapporto, una politica estera commerciale di natura assertiva. Anche dal punto di vista tecnologico, si perora una politica industriale più attiva che spedisca in soffitta quella basata sulla difesa a oltranza della concorrenza che ha caratterizzato l’UE sinora (e che alligna ancora nel coevo Rapporto di Enrico Letta), per affermarne una basata su forme di coordinamento pubblico-privato a livello continentale, sì da ottenere le economie di scala necessarie sul piano della ricerca e della produzione. Termini come “planning”, “public procurement” (domanda pubblica con preferenza per i beni nazionali) e protezione dell’”industria nascente” si ripetono nel Rapporto. Questa critica pur parziale delle politiche liberiste passate (o che tale segno prevalente sono sembrate avere in Europa) è un passaggio importante, e non a caso viene deplorata da economisti conservatori (ZEW, Economist Friedrich Heinemann on Draghi’s Report on European Competitiveness, https://www.zew.de/en/press/latest-press-releases/zew-economist-friedrich-heinemann-on-draghis-report-on-european-competitiveness, 10 settembre 2024).

Esaminiamo tuttavia alcuni punti critici del Rapporto in cui siamo in presenza di forme di mercantilismo (o nazionalismo economico) ostile. È questo il caso della questione energetica. Il Rapporto dà per scontato il sostegno all’ostilità della Nato verso la Russia – ostilità che è causa ultima del conflitto in corso. Nei riguardi del gas e di altre importazioni, non è vero che con l’invasione dell’Ucraina tutto è cambiato “irreversibilmente”: siamo in presenza di scelte politiche ben modificabili. In questo senso, la costituzione di un apparato militare-industriale europeo può essere vista con favore se volto a dare autorità e indipendenza al continente e non a rafforzare le attuali tendenze ostili. E una dose “benigna” di Keynesismo militare non può andare comunque a discapito del welfare state (Raza, W., Ertl, M. e Soder, M., Draghi on ‘competitiveness’: new wine in an old bottle, Social Europe, 27 Settembre 2024.). La stessa politica commerciale verso i Paesi produttori di materie prime e strategiche va declinata nel senso del sostegno allo sviluppo, come del resto fa la Cina (Chandrasekhar, C. P. e Ghosh, J., Africa-China Economic Relations: The next phase, https://www.networkideas.org/featured-articles/2024/09/africa-china-economic-relations-the-next-phase/ 2024), e non dello smaccato opportunismo commerciale del Rapporto. Va ripresa l’ispirazione di Olof Palme, Bruno Kreisky and Willy Brandt di coesistenza pacifica est-ovest e di sostegno allo sviluppo del sud del mondo. La Cina, peraltro, non è un menu à la carte con cui si può collaborare o meno a piacimento, come sembra talvolta far credere il Rapporto.

Con riguardo al sostegno agli investimenti, Peter Bofinger  (Unione dei mercati dei capitali: una panacea per l’Europa?, Menabò, 15 settembre 2024) ha già criticato il Rapporto Letta per il ruolo eccessivo (e inutile) assegnato all’aspetto del loro finanziamento attraverso il cosiddetto completamento del mercato europeo dei capitali. Nel Rapporto Letta si leggono banalità del tipo che a causa della frammentazione dei mercati finanziari 300 miliardi di risparmi europei finiscono all’estero. Non viene in mente a Letta che quei miliardi non sono altro che il corrispettivo del surplus di partite correnti che risulta dal mercantilismo europeo. Anche nel Rapporto Draghi si auspica un impiego più efficiente dell’ampio risparmio europeo per sostenere gli indispensabili 800 miliardi di investimenti annui indicati nel Rapporto. Aleggia su questa prescrizione l’idea pre-keynesiana che gli investimenti dipendano dal risparmio disponibile e non viceversa. In comune con Letta v’è anche, purtroppo, l’enfasi sul completamento del mercato dei capitali, e quello sull’incentivo alla cartolarizzazione dei prestiti bancari, dimenticando che quest’ultima fu al cuore della grande crisi finanziaria esplosa nel 2008. Si evoca anche un ampliamento dei fondi pensionistici a discapito del sistema a ripartizione per favorire il finanziamento degli investimenti. Vent’anni fa fu dimostrato da più di uno studioso che queste sono proposte fake date le difficoltà di transitare da sistemi a ripartizione a sistemi a capitalizzazione “fully funded” (v. per esempio Cesaratto, S., The Transition to Fully Funded Pension Schemes: A non-Orthodox Criticism, Cambridge Journal of Economics, 30, pp.33-48, 2006).

Positivamente nel Rapporto si propugna anche l’impiego di debito pubblico europeo per finanziare gli investimenti, prendendo come riferimento l’esperienza del NextGenerationEU. Il problema è che un debito comune europeo non può essere assimilato a un debito sovrano, almeno sintantoché l’Europa non si dota di una capacità impositiva comune, come sottolinea la newsletter Eurointelligence (30/10/2024). Tale capacità implica a sua volta una unione politica irreversibile che blocchi come secessionista una eventuale exit con sottrazione dall’onere del debito comune. (Non si deve però dimenticare che la piena sovranità del debito implica anche che vi sia una Banca Centrale a garantirne la liquidità nel caso di crisi di fiducia, e anche su questo aspetto la governance Europea deve compiere passi in avanti). Il fatto è che il debito europeo emesso per finanziare il “Recovery Fund” paga un significativo premio sui titoli tedeschi (il famoso spread) e, a partire dal 2028, i rimborsi annuali del debito rappresenteranno un sesto dell'intero bilancio dell'UE. Al riguardo, se da un lato il Rapporto Draghi afferma di passaggio che “l’Europa deve agire come una Unione come mai ha fatto sinora”, esso perlopiù si limita a suggerire una maggiore efficienza della governance europea da ottenersi, fondamentalmente, riducendo le regolamentazioni sugli investimenti, si suppone quelle ambientali e sociali. Liberalizzazioni che rientrano dunque dalla finestra, come affermano Raza e i suoi coautori?

Come è stato frequentemente argomentato nello scorso decennio, anche se questo può non far piacere a sinistra, l’Europa non è una Nazione, e le reazioni negative al Rapporto Draghi, soprattutto da parte della Germania (e dei suoi satelliti), stanno lì a testimoniarlo. Ciò nonostante, non si può negare al Rapporto il connotato di denuncia di ciò che l’Europa dovrebbe diventare – sebbene auspicabilmente in una declinazione di mercantilismo benigno – e non riesce ad essere. In questo non condividiamo il giudizio totalmente negativo di Raza e i suoi coautori o Fumagalli (L’arretratezza del rapporto Draghi sulla competitività europea, Effimera, settembre 2024) di “supply side agenda” basata solo su deregolamentazione e liberismo.

Nel Rapporto vi sono infatti diversi spunti antiliberisti. Il problema è che ci troviamo di fronte a un misto di mercantilismo benevolo e ostile, e forse soprattutto ostile visto che a proporlo è un liberista che vuole salvare il proprio capitalismo regionale in crisi. Per praticare il nazionalismo economico (anche quello benigno), inoltre, si deve essere una nazione – vale a dire un consesso di popoli che, fatti salvi i conflitti sociali, si riconosce in buona misura in una governance unitaria. Questo spirito europeo esiste tuttavia solo nelle fantasie di (purtroppo molti) politici, soprattutto a sinistra. In Europa prevale piuttosto un giustificato timore a devolvere ulteriore sovranità a Bruxelles, sia da parte delle opinioni pubbliche più attente alla democrazia (e ai propri quattrini), che di quelle scottate dalle sciagurate politiche fiscali (e talvolta monetarie) europee. Se il Rapporto è in fondo pessimista, noi lo siamo ancor di più.

Visto lo scetticismo nei confronti di possibili soluzioni europee, si tratta dunque di capire come l’Italia se la può cavare. Di certo v’è solo che questo governo è esclusivamente capace di proteggere i ceti evasori, introdurre leggi liberticide, e appoggiare la parte sbagliata nei conflitti, quella parte che, a ben vedere, è la causa storica ultima di quest’ultimi.

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