Recensione di Saverio Fratini (Uniroma3) su Micromega online
“Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la
Crisi più lunga (e come uscirne)” di Sergio Cesaratto, scritto in un
linguaggio accessibile anche a coloro che non hanno svolto studi di
economia, è un manuale economico divulgativo che, richiamandosi alle
idee di Keynes e Sraffa, dice qualcosa di sinistra contro il pensiero
economico dominante.
di Saverio M. Fratini*
La divulgazione scientifica è una attività sicuramente meritoria e
lo è ancora di più quando ad essere divulgate sono idee alternative
rispetto all’impostazione mainstream. In tutte le scienze il
pluralismo è una ricchezza: guardare i fenomeni da diversi punti di
vista, o anche semplicemente sapere che diversi punti di vista esistono,
aiuta sicuramente ad ampliare la nostra capacità di comprensione del
mondo che ci circonda. Ciò è particolarmente vero con riferimento
all’economia e alle scienze sociali in generale, in cui lo studioso è
parte del sistema che studia: ne è influenzato e lo influenza. Come ha
scritto Robert Solow[1]
(premio Nobel nel 1987), mentre il movimento dei pianeti è
completamente indipendente da ciò che pensano gli astronomi, le idee
degli economisti hanno effetto sul funzionamento del sistema economico.
Così, in economia, il prevalere di una impostazione sulle altre
scaturisce da un intreccio di ragioni scientifiche e politiche, a
sostegno dell’una o dell’altra parte sociale. Di conseguenza, a
differenza di quanto avviene normalmente nelle scienze naturali, nelle
scienze sociali non è affatto detto che le teorie più recenti o mainstream
siano più solide e avanzate di quelle precedenti o alternative. Si
vede, quindi, la grande importanza di coltivare il pluralismo e la
storia del pensiero economico.
Proprio in questa direzione va il libro di Sergio Cesaratto Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la Crisi (Diarkos, 2019), giunto alla seconda edizione e già in ristampa. Con la prima lezione, infatti, Cesaratto ci riporta indietro al punto di vista degli Economisti Classici, che è stato riscoperto a partire dagli anni ’60 del XX secolo grazie ai contributi di Piero Sraffa e dei suoi allievi[2]. Secondo i Classici, la distribuzione del prodotto nazionale tra redditi da lavoro (salari) e redditi da capitale (profitti) scaturisce dalla contrapposizione tra la classe sociale dei lavoratori e quella dei capitalisti per la spartizione del sovrappiù, ovvero l’eccedenza del prodotto nazionale rispetto a ciò che è necessario impiegare per poter ripetere il processo produttivo. Si tratta, come scrive Cesaratto, di una specie di “tiro alla fune”: la dimensione della quota del sovrappiù di cui i lavoratori o i capitalisti si appropriano dipende da quanto ciascuna classe è forte relativamente all’altra; e questa forza relativa, a sua volta, risulta largamente influenzata, oltre che da circostanze di natura economica, anche da elementi di carattere sociale e istituzionale (quali, ad esempio, la coesione di classe, la presenza di sindacati, la contrattazione nazionale o locale, la possibilità di forme contrattuali atipiche, …).
La spiegazione della distribuzione basata sul sovrappiù fu dominante nella scienza economica fino agli anni ’70 del XIX secolo, quando venne sommersa dall’avvento della teoria marginalista, di cui si tratta la seconda lezione del libro. Fin dalla prima metà dell’ottocento, il punto di vista degli Economisti Classici sulla distribuzione del reddito era stato utilizzato come fondamento per le rivendicazioni socialiste a favore dei lavoratori. Di conseguenza, con l’acuirsi dello scontro tra classi (basti pensare alla nascita della Prima Internazionale nel 1864 o all’episodio della Comune di Parigi del 1871), gli economisti borghesi (“volgari” direbbe Marx) iniziarono a costruire una teoria alternativa a quella Classica, in cui la distribuzione del reddito non avesse natura conflittuale (niente tiro alla fune). Nella teoria marginalista, infatti, invece delle classi sociali troviamo gli “agenti economici”: famiglie e imprese. Si potrebbe avere la tentazione di ritenere che le famiglie siano un diverso modo di intendere i lavoratori e le imprese i capitalisti. Dopotutto, nel mondo reale, le famiglie vivono soprattutto di redditi da lavoro e le imprese sono, prevalentemente, di proprietà dei capitalisti. Tuttavia, dobbiamo resistere a questa tentazione perché, come Cesaratto ci spiega efficacemente, nel mondo che ci raccontano gli economisti marginalisti, le famiglie forniscono alle imprese sia il lavoro che il capitale, mentre le imprese sono mere organizzatrici dei processi produttivi, senza alcuna partecipazione alla distribuzione del reddito. Quindi, in questa nuova teoria, che in forma evoluta è ancora quella oggi dominante, le classi sociali non hanno più alcun ruolo: le famiglie non rappresentano i lavoratori, ma comprendono invece tutte le classi (in modo da rendere sostanzialmente irrilevante la distinzione tra di esse), e le imprese non operano per conto dei capitalisti.
Come si è detto, in questo bizzarro mondo descritto dalla teoria marginalista, le famiglie offrono lavoro e capitale e le imprese li domandano. Domanda e offerta di questi “fattori produttivi” sarebbero, quindi, portate all’uguaglianza attraverso aggiustamenti dei loro prezzi: il salario orario, per quanto riguarda il lavoro, e il tasso dell’interesse, per il capitale. Ecco allora che, da fenomeno sociale, quale è secondo gli Economisti Classici, la distribuzione del reddito è stata trasformata in un fenomeno di mercato. Ciò comporta che le circostanze sociali e istituzionali, che secondo i Classici hanno un ruolo importante nel determinare la distribuzione del reddito, ora sono, al più, percepite come elementi di disturbo che impediscono al mercato di raggiungere l’equilibrio. Qualora i mercati fossero “liberalizzati”, ovvero fossero rimossi gli impedimenti, il salario orario si attesterebbe proprio a quel livello che: a) corrisponde alla produttività (marginale) del lavoro; b) riduce la disoccupazione al livello “naturale” (cioè non ci sarebbero lavoratori disoccupati involontariamente). Il quadretto dipinto dalla teoria marginalista è idilliaco. Il migliore dei mondi sembrerebbe possibile, come scrive Cesaratto. Tuttavia, la realtà che possiamo osservare ci mostra tutt’altro: la disoccupazione involontaria ha dimensioni non trascurabili (soprattutto in alcuni segmenti del mercato del lavoro) e l’introduzione di elementi di flessibilità, nonché la tendenziale caduta delle retribuzioni, non sembrano avere un inequivocabile effetto positivo su di essa.
Il problema delle cause della disoccupazione involontaria rappresenta il cuore dell’analisi dell’economista inglese John Maynard Keynes[3], a cui Cesaratto dedica la terza lezione. Pur accettando, sostanzialmente, la descrizione marginalista del funzionamento del sistema economico (famiglie, imprese, fattori produttivi, produttività marginale, …), Keynes si rese conto della possibilità che la domanda complessiva di beni e servizi risulti minore del livello richiesto affinché vi sia il pieno impiego della forza lavoro disponibile. Di conseguenza, un intervento pubblico a sostegno della domanda (ad esempio, la messa in sicurezza degli edifici pubblici contro i rischi sismici o l’ammodernamento delle reti di trasporto e telecomunicazione) potrebbe essere il modo più efficace per contrastare la disoccupazione involontaria; mentre la caduta delle retribuzioni potrebbe avere effetti perfino controproducenti. Tuttavia, l’incapacità di Keynes di dotare le sue brillanti intuizioni di un fondamento completamente alternativo rispetto ai meccanismi marginalisti portò, come ci racconta Cesaratto, al suo riassorbimento da parte del mainstream. Le analisi keynesiane vennero ritenute, al più, valide in un contesto di breve periodo, caratterizzato da rigidità o vischiosità che rallentano l’operare dei mercati. Keynes ci ha comunque lasciato due idee importantissime per la moderna macroeconomia critica: i) la rilevanza della domanda aggregata nella determinazione dei livelli del reddito e dell’occupazione (sia nel breve, che nel lungo periodo); ii) l’esistenza di una interrelazione tra la parte “reale” del sistema economico (cioè la parte riguardante la produzione e il consumo di beni e servizi) e quella monetaria (o più in generale “finanziaria”).
Proprio all’economia monetaria è dedicata la quarta lezione del libro. In essa Cesaratto ci spiega come il sistema bancario sia in grado di creare mezzi di pagamento (cioè moneta) con una semplice scrittura contabile, anzi con un “tratto di penna”. Così, le decisioni di spesa in deficit da parte dello Stato o quelle di investimento da parte dei capitalisti non sono vincolate da un preventivo atto di risparmio (il risparmio arriverà successivamente), ma possono essere finanziate dalle banche attraverso la creazione di moneta bancaria. Il sistema si fa più complicato se si suppone che l’economia sia aperta agli scambi con l’estero e le posizioni di credito e debito possano generarsi in conseguenza di esportazioni o importazioni. Si tratta della bilancia dei pagamenti, un argomento piuttosto complesso che, tuttavia, Cesaratto riesce a spiegare col suo linguaggio semplice ed efficace (anche grazie alle opportune richieste di chiarimento da parte della sua studentessa immaginaria).
Avendo ormai fornito gli strumenti necessari con le lezioni precedenti, a partire dalla fine della quarta lezione, Cesaratto passa all’esame del funzionamento delle istituzioni e della politica economica nella realtà italiana ed europea. In particolare, la quinta lezione rappresenta una specie di discesa agli inferi in cui Cesaratto, come un moderno Virgilio, ci guida da un girone all’altro, attraverso successive riduzioni dei tassi di crescita della produzione e del reddito nazionale. Si inizia col periodo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, quando il tasso di crescita annuale medio del PIL (reale) era superiore al 6%, e si passa per una serie di provvedimenti di politica economica (varie strette monetarie e “risanamenti” dei conti pubblici) che hanno sicuramente favorito (se non, in taluni casi, addirittura determinato) il verificarsi di progressivi rallentamenti. Sta di fatto che il tasso medio annuo di crescita scende al 3,9% negli anni ’70, passa al 2,3% negli anni ’80, 1,4% negli anni ’90, una lieve risalta all’1,5% prima della crisi del 2007, arrivando, infine, ad un tasso medio negativo (- 1,4%) nel periodo 2008-2015.
Per il futuro che si intravede all’orizzonte, non si può essere molto ottimisti. La recessione non è una malattia da cui si può guarire per effetto del mero trascorrere del tempo, occorre intervenire con delle medicine. Così, Cesaratto si domanda, in modo retorico, se l’Europa può cambiare, se può abbandonare le politiche del rigore ad ogni costo e favorire attivamente il rilancio della domanda interna. Al momento, però, questo non sembra essere contemplato tra gli scenari probabili delineati nel libro.
Tuttavia, negli ultimi anni, la Banca Centrale Europea ha cercato di intervenire, sebbene, nella maggior parte dei casi, abbia fatto too little and too late. La sesta e ultima lezione è, infatti, dedicata agli strumenti a cui la Banca Centrale Europea ha cercato di mettere mano a partire dal 2008. Cesaratto elenca tutte le armi che Draghi ha avuto a disposizione per fronteggiare le varie crisi che hanno colpito la finanza europea, pubblica e privata, in questi anni. Dalle frecce un po’ spuntate degli strumenti convenzionali, fino ad arrivare al “big bazooka”, cioè le Outright Monetary Transactions (OMT), sfoderato nell’estate del 2012. La morale che si evince dalla moltitudine di strumenti e provvedimenti passati in rassegna da Cesaratto è che la politica monetaria è riuscita ad evitare il crollo del sistema finanziario, ma non può, da sola, tirarci fuori dalla crisi. Per far questo, invece degli strumenti di Draghi, servirebbero quelli di Keynes.
In conclusione, a dispetto del titolo, il libro di Cesaratto contiene molto più di sei lezioni di economia. Anzi, contiene argomenti che eccedono, sia in ampiezza che in profondità, il programma di un intero corso di istituzioni di Economia Politica. Proprio per questo il libro ha diversi livelli di lettura. Pur essendo scritto in un linguaggio accessibile anche a coloro che non hanno svolto studi di economia, risulta essere una lettura ancora più interessante per chi ha già una formazione economica. Il punto di vista adottato da Cesaratto è inequivocabilmente riconducibile, come egli stesso apertamente afferma, alla scuola che fa riferimento ai contributi di Sraffa, di Keynes e al recupero dei Classici. Si tratta di una scuola un tempo florida in Italia[4], ma con cui oggi studenti e giovani studiosi, anche nel nostro paese, non riescono facilmente ad entrare in contatto. Il libro di Cesaratto offre l’occasione per colmare questa lacuna.
NOTE
[2] Piero Sraffa (1898-1983) è stato un noto economista italiano, che ha vissuto e lavorato a Cambridge dal 1927, dove fu chiamato su iniziativa di Keynes. I suoi lavori più importanti sono l’edizione delle opere complete e della corrispondenza di David Ricardo (Cambridge University Press, 1951-73) e Produzione di Merci a Mezzo di Merci (Einaudi, 1960). Nel 1961, quando il premio Nobel per l’economia ancora non era stato istituito, la Royal Swedish Academy of Sciences conferì a Sraffa la medaglia Söderström. Tra gli economisti italiani che sono stati in contatto con lui a Cambridge e che hanno contribuito allo sviluppo delle sue idee, ricordiamo Pierangelo Garegnani (che a sua volta è stato maestro di numerosi economisti italiani, tra cui Cesaratto e il sottoscritto) e Luigi Pasinetti.
[3] Keynes (1883-1946), forse, non avrebbe bisogno di essere presentato, essendo uno degli economisti più noti e influenti di tutti i tempi. Oltre all’impegno accademico presso l’università di Cambridge, ebbe numerosi incarichi politici. Fece parte della delegazione inglese alla conferenza di pace di Versailles (incarico da cui si dimise quando comprese che il trattato che si stava delineando avrebbe condotto ad un secondo conflitto). Fu poi uno degli artefici degli accordi di Bretton Woods del 1944, che costituirono la base del sistema internazionale dei pagamenti fino agli anni ’70. La sua opera più importante è la Teoria Generale dell’Interesse, della Moneta e dell’Occupazione (Macmillan, 1936; traduzione italiana: UTET, 1947).
[4]
L’accademia italiana ha avuto, fino a non troppi anni fa, degli
importanti economisti, dei capiscuola, che hanno formato i loro allievi e
i loro studenti proponendo un punto di vista indipendente nei confronti
dell’approccio mainstream. Per fare qualche nome, pur
consapevole di tralasciarne molti altri altrettanto importanti, posso
ricordare Federico Caffè, Marcello De Cecco, Pierangelo Garegnani,
Augusto Graziani, Luigi Pasinetti e Paolo Sylos Labini. Economisti molto
diversi tra loro, ma accomunati da un forte spirito critico e da un
sostanziale scetticismo nei confronti dei presunti effetti benefici del
liberismo. Fino agli anni ’90, era praticamente impossibile laurearsi in
economia in Italia senza essersi imbattuti nelle idee di almeno uno di
questi studiosi. Oggi è esattamente il contrario, è quasi impossibile
averne sentito parlare.
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