(articolo scritto con Massimo D'Antoni e pubblicato anche sul suo blog)

Niente di nuovo sotto il sole. Così ha argomentato nella sua audizione il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri a proposito del nuovo MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità): la possibilità di ristrutturazione del debito pubblico è già presente nell’attuale versione del trattato e quindi gli allarmi sollevati per le modifiche sono ingiustificati. Eppure tra i primi a sollevare dei dubbi erano stati economisti che, quanto a fedeltà all’ortodossia europea, sono al di sopra di ogni sospetto.


Giampaolo Galli, già deputato del Pd, aveva scritto un articolo nel quale, pur con cautela, metteva in fila gli elementi problematici della riforma. Egli ricordava l’episodio della famosa “passeggiata di Deauville” di Merkel e Sarkozy dell’ottobre 2010: il fatto che per in quella occasione la prima volta si sia menzionata la possibilità di un “coinvolgimento del settore privato” (una perifrasi per dire la ristrutturazione del debito) viene considerato come uno degli elementi scatenanti della speculazione che ha portato alla crisi dei debiti sovrani del 2011. Rilevava come nella nuova versione del trattato si attribuiscano al MES poteri molto ampi, in parte sovrapposti a quelli della Commissione, nella valutazione della sostenibilità dei debiti dei paesi membri, e con maggiore nettezza che in passato si stabilisce che l’assistenza verrà data solo ai paesi con debito sostenibile; una valutazione negativa sul debito rischia dunque di costringere il paese a ristrutturare il proprio debito per poter accedere ai fondi del MES. Se dunque è vero che il testo del trattato non prevede automatismi, in una situazione di reale necessità un paese bisognoso di aiuto con debito dichiarato non sostenibile avrebbe ben poca scelta.

Galli non è stato l’unico ad avanzare questi dubbi. In un commento del luglio 2018, l’ex direttore della gestione debito pubblico del Tesoro, Maria Cannata aveva espresso simili preoccupazioni per la prevista modifica di alcune clausole (le famigerate CAC) che ridurranno la possibilità per i sottoscrittori di opporsi a una ristrutturazione del debito. Si sa che i mercati sono molto sensibili a questo tipo di segnali e la reazione a queste modifiche potrebbe essere quella di attribuire una maggiore probabilità all’eventualità di un default. Ciò a sua volta potrebbe rendere meno attraente l’acquisto del debito di paesi come l’Italia, determinando un classico caso di aspettative che si auto-avverano. Sia Galli che Cannata hanno recentemente voluto rettificare la propria valutazione, forse preoccupati che i loro rilievi fossero utilizzati per criticare in modo così severo l’operato del governo, e che la critica potesse portare a una crisi di governo e a nuove frizioni a livello europeo.
Messo in questi termini, lo scontro sembra dunque riconducibile a una diversa percezione del rischio di dare segnali sbagliati ai mercati: da una parte chi, come Gualtieri, tende a rassicurare minimizzando la portata delle modifiche introdotte, dall’altra chi invece ritiene che basti poco per scatenare il panico e un’altra crisi debitoria e quindi ci si debba muoversi coi piedi di piombo.

In realtà, se il tema è esploso in questo modo non è (solo) per la volontà dell’opposizione di sfruttare l’occasione per mettere in difficoltà il governo, è perché la questione chiama in causa considerazioni ben più ampie e rilevanti. In un certo senso Gualtieri ha ragione: le novità introdotte non sono di grande rilevanza sostanziale, buona parte delle questioni di cui si discute oggi erano già nel trattato istitutivo del 2012. Ci pare tuttavia che questo argomento sia debole. Nel 2012, nel pieno della crisi, ogni discussione sull’argomento era preclusa dalla pressione a “fare presto”. Il Parlamento e l’opinione pubblica dovettero digerire l’indigeribile, dal pareggio di bilancio in Costituzione al fiscal compact fino, appunto, al MES. Il MES è nato come meccanismo di solidarietà, ma che la solidarietà all’interno dell’eurozona debba assumere questa forma è indicativo dei difetti di fondo della costruzione dell’Unione monetaria. Il trattato in discussione precisa che il MES dovrà operare “dalla prospettiva del creditore”, ovvero in un’ottica di mercato che poco ha a che vedere con un approccio cooperativo e un’attenzione all’interesse comune dell’Unione. Rivolgersi al MES non sarà dunque molto diverso da ricorrere al Fondo Monetario Internazionale, vista la previsione di severe condizionalità in cambio degli aiuti. Che il massimo della solidarietà tra membri di un’unione monetaria avvenga attraverso uno strumento di questo tipo dovrebbe far riflettere, ed è bene che se ne rifletta ora, visto che non si è fatto a suo tempo.

Può allora essere utile confrontare la situazione dell’Unione monetaria europea con quella degli Stati Uniti, che sono in fondo anch’essi un’unione monetaria fra Stati (anche se più omogenei). Negli Stati Uniti, la funzione che si vorrebbe attribuire al MES è svolta dalla banca centrale (la Federal Reserve): essa garantisce implicitamente che i titoli del Tesoro americano siano ripagati e fornisce un backstop (una garanzia) all’intero sistema bancario. Lo stesso vale per la verità per qualsiasi altro Paese dotato di una propria banca centrale che si indebita in una valuta di cui tale banca centrale ha il controllo. Nell’Unione monetaria europea questa possibilità è preclusa, perché la costruzione di Maastricht, che fa da cornice istituzionale alla moneta comune, poggia sul presupposto della diffidenza reciproca, sul timore che in assenza di regole rigide uno Stato possa approfittare della situazione a scapito degli altri: il cosiddetto azzardo morale. Che sia o meno giustificato questo timore, tale diffidenza è ciò che rende particolarmente vulnerabile l’Unione europea, impedendo un’azione di politica economica più coordinata e quindi efficace. È per diffidenza, ad esempio, che la Germania si oppone alla creazione di un’assicurazione comune sui depositi, nel timore che i correntisti (e in ultima istanza i contribuenti) tedeschi possano trovarsi a dover salvare le banche italiane, che hanno nel proprio portafoglio ingenti quantità di titoli pubblici italiani, determinando così un implicito trasferimento di risorse verso il nostro Paese. Il rifiuto di ogni possibile forma di solidarietà fiscale è stato del resto ripetutamente ribadito, nel no alla mutualizzazione del debito, nel no a qualsiasi ipotesi di “unione fiscale” (a meno che per unione fiscale non si intenda un più rigido controllo comunitario delle politiche di bilancio nazionali), nei tanti tentativi di ostacolare anche sul piano legale il Quantitative Easing voluto dal presidente Draghi.

Il MES ribadisce, accentuandola, questa impostazione di fondo. Nel contesto delle ripetute negoziazioni in sede europea per ottenere margini di flessibilità di bilancio, è emerso da parte dei Paesi piu rigoristi un crescente scetticismo sull’efficacia delle regole europee e sulla credibilità dei meccanismi di sanzionamento delle stesse, visto che la Commissione finisce inevitabilmente per muoversi con criteri “politici”. Anche il fiscal compact, che doveva essere un modo per irrigidire vincoli e sanzioni, viene applicato con una certa flessibilità; per noi insufficiente ma secondo altri eccessiva. Se l’impostazione prevalente prima della crisi prevedeva un’implicita promessa di solvibilità dei debiti pubblici (il default dei debiti sovrani non era considerato tra le possibilità) affidando alle regole del patto di stabilità il controllo dell’azione fiscale degli Stati membri, sembra affermarsi ultimamente una nuova impostazione, che fa affidamento sui mercati finanziari come strumento di disciplina. Il meccanismo si è visto in azione in alcuni cruciali passaggi politici del nostro Paese: ogni deviazione dalle “buone politiche”, che vanno qui intese come politiche gradite agli investitori sui mercati finanziari, viene sanzionata da un’impennata degli spread che, determinando un aumento del rischio di default, rimette in riga i riottosi. L’istituzionalizzazione della possibilità di ristrutturare il debito nell’ambito del MES, strumento che era nato in un’ottica emergenziale e che ora assumerebbe un carattere strutturale, può essere letta in questa prospettiva.

Siamo a nostra volta troppo sospettosi e pessimisti? Ma è sempre Giampaolo Galli a spiegare nel suo articolo che Germania e l’Olanda sono favorevoli a questa riforma “perché ritengono che le regole europee non siano riuscite a disciplinare paesi come l’Italia e dunque occorra fare maggiore affidamento su meccanismi di mercato”. La finalità del MES non sarebbe cioè “quella di indurre l’Italia a ristrutturare, ma al contrario quella di indurla ad assumere le iniziative che sono necessarie per evitare di perdere l’accesso al mercato e dunque essere costretta a rivolgersi all’assistenza della comunità internazionale”. Insomma, per un paese gravato da elevato debito il MES rappresenta nella peggiore delle ipotesi un maggior rischio di default (un default che a quel punto sarebbe gestito sotto la vigile supervisione dei partner, attenti a evitare di doverne sopportare i costi), nella più favorevole è l’ennesimo strumento di disciplina con il quale vincolare le scelte di politica economica. Non stupisce che, al netto di qualche timore che certi dispositivi della riforma possano aumentare i rischi per il debito, chi crede che l’Italia debba continuare su una linea di austerità e di riforme in continuità con il passato decennio valuti in modo complessivamente positivo la filosofia che ispira il trattato del MES. Per noi il problema è proprio quella filosofia, inaccettabile per chiunque auspichi un’Europa costruita non sulla diffidenza e sul sospetto, con i mercati finanziari nel ruolo di “gendarme”, ma come comunità cooperativa e solidale. Dunque, il fatto che nulla o poco cambi con le modifiche proposte è tutt’altro che una buona notizia. La riforma del MES è un’occasione per provare – almeno provare – a cambiare il modo di funzionare dell’Europa. Sarebbe un peccato sprecarla con l’ennesimo acritico assenso dato perché non c’è alternativa, there is no alternative.