Econopoly, il blog de Il Sole-24 Ore ha pubblicato un articolo di Antonino Iero e mio. Uscito sabato sera, il lunedì mattina aveva avuto 20 mila visualizzazioni.
E’ il tasso di interesse, bellezza!
Nel pieno della polemica di queste settimane, il
commissario europeo Moscovici ha affermato: "Una
manovra che aumenta il debito pubblico che è già 132%, il cui rimborso annuale
ammonta a 65 miliardi l'equivalente del bilancio per l'istruzione, e che pesa
1.000 euro a italiano, non è bene per il popolo. E' il popolo che paga ed è il
popolo che rimborsa. Sono i più vulnerabili" (La Repubblica, 26 ottobre
2018). La ricetta di Moscovici, presentata come puro buon senso dalla maggior
parte degli opinionisti, consisterebbe nell’abbattere il debito pubblico per
abbattere la mole di interessi. O viceversa? Due cose oltre a tasse e funerale
sono certe: le manovre di abbattimento del rapporto fra debito pubblico e PIL
sono una fatica di Sisifo, in quanto spesso deprimono il denominatore più che
il numeratore. La spesa per interessi non è una “variabile indipendente”, un
fattore ineluttabile: i tassi di interesse li fanno le banche centrali e non i
mercati, a meno che questi vengano lasciati operare liberamente.
Un altro commentatore, Carlo Bastasin (2018), nel
passato spesso molto lucido, ha scritto che alla tesi che l’austerità sia stata
responsabile dell’”aumento
di circa 33 punti percentuali del debito pubblico tra il 2008 e il 2016, non
corrisponde a un’analisi appena approfondita. Sono sufficienti pochi calcoli
per verificare che l’aumento del debito è in larghissima parte attribuibile
all’incremento della spesa per interessi sul debito stesso. Altri fattori più
tecnici (tra cui quasi 4 punti di Pil in aiuti italiani ai Paesi europei in
difficoltà) possono aver contribuito, ma è stata la tensione sui tassi d’interesse, causata soprattutto
dall’incertezza sulla permanenza dell’Italia nell’euro, a far esplodere il
debito”.
Più che con elevatezza
del debito, Bastasin sembra prendersela con il timore di una Italexit. Ma il
timore dell’Italexit dipende proprio dall’aumento dei tassi, gli spread ormai
ben noti anche alla casalinga di Voghera: una volta superata una qualche soglia
fatidica – i “pundit” dell’economia nel 2012 parlavano di un rendimento sui
decennali al 7%– per un Paese non ha più senso ricorrere ai mercati, ma la
solvibilità e la possibilità materiale di pagare stipendi e pensioni potranno
essere garantite solo riappropriandosi della stampa della propria moneta.
Insomma è tutta, e forse solo, una questione di tassi di interesse – e così è
sempre stato, sin dall’origine dell’elevato debito pubblico italiano. Prendendo
spunto da Iero (2018a), nell’esercizio che segue quantifichiamo
il peso che ha avuto la spesa per interessi rispetto ad altri fattori nello
spiegare l’andamento del rapporto debito pubblico e PIL negli scorsi decenni.
Ci domanderemo poi se tutto questo è stato il risultato di circostanze ineluttabili,
o se l’abnorme peso della spesa per interessi non sia stato il risultato di
scelte deliberate o supinamente accettate e condivise.
1. It’s the interest rate, stupid
Abbiamo allo scopo
periodicizzato gli scorsi decenni a seconda del regime di politica economica
(Cesaratto 2018; Cesaratto e Zezza 2018a/b). La tabella 1 riporta la sintesi dei vari contributi alla dinamica del rapporto
debito pubblico / PIL per ogni periodo e il loro totale nel periodo 1980 – 2017. I numeri esprimono
l’aumento (segno positivo) o la diminuzione (segno negativo) del rapporto
attribuibile ad ogni variabile nel periodo specificato (l’ultima riga non è
altro che il totale di colonna). La tabella 2 esprime la media annua in ciascun
periodo (elemento utile in quanto i periodi non contengono il medesimo numero
di anni). Per
metodologia e fonti rimandiamo a Iero
(2018a).
Tabella
1
Tabella 2
Cominciamo col guardare
ai totali, all’ultima riga di Tabella
1, anche per capire come “gira” la tabella. I fattori col segno più hanno contribuito ad accrescere il rapporto debito/PIL, quelli
col segno meno a diminuirlo. La somma algebrica di ciascuna riga dà la variazione
del rapporto tra debito pubblico e PIL nel periodo riportata nell’ultima colonna.
Fra il 1980 e il 2017 il
debito pubblico, in termini di peso sul PIL, è aumentato di poco meno del 76%. Questo
è il risultato esclusivo (e impressionante) del contributo della spesa per
interessi, pari a 275 punti (ossia, 7,24 punti di media annua). Tutti gli altri
fattori hanno, nel complesso, “remato a favore”. In particolare, il saldo
primario, ossia la differenza fra entrate fiscali e spese pubbliche (al netto
della spesa per interessi) evidenzia un piccolo saldo negativo (-7,76): questo significa che nei quasi
quattro decenni esaminati gli italiani hanno ricevuto in beni e servizi meno di
quanto abbiano versato in tasse. Politicamente, a fronte delle continue accuse
dal Nord d’Europa, questo è un fatto non trascurabile. Semmai è il contributo
italiano al salvataggio delle banche tedesche e francesi (versamenti ai fondi
europei ESFS e ESM) che ha remato contro (chi legge sarà ben consapevole di
come il salvataggio della Grecia fosse un salvataggio delle banche tedesche e
francesi creditrici verso quel Paese). Le privatizzazioni hanno avuto un ruolo
secondario nell’alleviare il rapporto debito/PIL (-11,80 punti), il che suona desolante a fronte
della demolizione dell’apparato industriale italiano che esse comportarono. La
crescita reale del PIL (che aumenta il denominatore del rapporto debito /PIL)
e, soprattutto, l’inflazione (deflatore PIL) sono stati fattori che hanno
contribuito ad alleviare il rapporto. L’aumento del denominatore (il PIL
nominale) determinato dall’inflazione contribuisce a contenere il valore del
rapporto (debito / PIL, appunto) o, detto in altri termini, un elevato
deflattore del PIL riduce i tassi reali pagati sui titoli del debito sovrano,
come evidenziato nella Figura 1.
Figura 1
Ma andiamo ora a una
sintetica analisi per periodi (Cesaratto e Zezza 2018b per una ricostruzione
storico-economica più puntuale).
1980-1992 Il “nuovo regime”
Il “nuovo regime” è
quello che, dietro l’ispirazione di Beniamino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi e
altri padri della Patria, si affermò in Italia dal 1979 attraverso l’adesione
allo SME e il “divorzio” fra Tesoro e Bankitalia. Il “vecchio regime” era
caratterizzato da elevata conflittualità, inflazione, svalutazione della lira,
espansione della spesa pubblica. Tuttavia, una politica monetaria accomodante
consentiva allo Stato italiano di operare con tassi di interesse reali negativi,
per cui il rapporto debito pubblico/PIL cresceva in maniera contenuta. Era la
via italiana per gestire il conflitto distributivo, la cui vittima era la
stabilità dei prezzi. Nel nuovo regime,
per contro, la politica monetaria e quella del cambio si distaccarono da quella
fiscale, le prime due puntando
alla stabilità dei prezzi e la terza
a crescita e occupazione, ciascuna andando per proprio conto. I “famigerati”
governi dell’epoca del CAF (Craxi, Andreotti e Forlani) non rinunciarono, infatti,
alla crescita e all’occupazione, sostenendole con una fiscal stance espansiva, tanto più che la perdita di competitività
esterna che seguì allo SME deprimeva la domanda estera. L’elevata spesa per
interessi di quell’epoca rifletteva sia gli alti tassi internazionali, che la
necessità di attirare capitali a fronte dei disavanzi esterni. Interessi
passivi e saldo primario agivano così da fattori negativi sul rapporto
debito/PIL, mentre lo alleviavano, ma non a sufficienza, la crescita e,
soprattutto, l’inflazione. La vittima del nuovo regime fu così proprio il
debito pubblico che crebbe, in rapporto al PIL, del 45,4% (24,27+21.15 come si evince dall’ultima colonna di
Tabella 1), ad un ritmo annuo di 3,49 punti.
La grande svalutazione
Nel 1992 il Paese esce
dallo SME, ma nonostante questo porti al riaggiustamento degli squilibri esterni,
in soli tre anni il rapporto debito PIL cresce del 15,6% (5,2% annuo). Questo
nonostante già dal 1992 il
Paese cominci ad inanellare una serie pressoché continua di avanzi primari –
come si vede dalla seconda colonna che a partire dal 1993 presenta un segno
negativo (contributo alla diminuzione del rapporto debito/PIL). La questione è
che gli alti tassi di interesse internazionali, la liberalizzazione del
movimenti di capitale completata nel 1990, la necessità di stabilizzare la lira
per rientrare nello SME - come richiesto dal Trattato di Maastricht - resero la
spesa per interessi ancora più esosa, per ben 12 punti annui (tabella 2), il
massimo storico. I tassi di interesse reali presentano infatti un picco storico
in quel periodo (Figura 1).
Verso e nell’euro
I periodi di transizione verso l’euro (1996-1998) e dell’euro pre-crisi
(1999-2007) hanno caratteristiche simili: il peso degli interessi passivi
diminuisce mentre lo sforzo fiscale continua, in maniera più spiccata nella
transizione (-5,4 annuo nel periodo 1996-98). Prosegue la diminuzione del
contributo dell’inflazione alla diminuzione del rapporto, già iniziata nei
periodi precedenti. Il contributo delle privatizzazioni a migliorare il
rapporto è maggiore che in altri periodi, ma pur sempre irrilevante rispetto
agli altri fattori, sì da confermare quanto suggerito sopra, che il prezzo in
termini di autonomia industriale del Paese è stato probabilmente ben più alto
degli effetti modesti sulle finanze pubbliche.
Crisi e debole ripresa
Durante gli anni della crisi (2008-2014), il contributo degli interessi
passivi diminuisce ancora, ma questo non è sufficiente a compensare il
peggioramento del saldo primario e, soprattutto, il contributo per la prima
volta peggiorativo della crescita del PIL, risultato evidente di una fiscal stance restrittiva che si
riflette anche nel proseguimento della discesa del contributo positivo della
dinamica dei prezzi. (Naturalmente l’orientamento della politica fiscale non è
il solo determinante della crescita e del tasso di inflazione, il ciclo
internazionale ed i prezzi di materie prime ed energetiche sono per esempio
altri fattori).
La debole ripresa (2015-2017) vede la stabilizzazione del rapporto
debito/PIL (-0,79, equivalente ad un -0,26 annuo) dovuto a una ulteriore
discesa dei tassi (probabilmente anche legata agli effetti del “quantitative
easing” lanciato dalla Banca Centrale Europea nei primi mesi del 2015) e a un
saldo primario moderato, tale da non scoraggiare troppo la crescita, il cui
contributo torna positivo.
Conclusioni: Il tasso di interesse è una “variabile indipendente”?
Alla luce di quanto illustrato, la questione
del debito pubblico sembra soprattutto una questione di tassi di interesse (per un’analisi storica v. Reinhart e
Sbrancia 2011). Contrariamente, tuttavia, a quanto sostenuto da
Moscovici, non è sul debito che si deve agire per diminuire la spesa per
interessi, poiché in tal modo si deprime l’economia rendendo vani gli sforzi di
aggiustamento, ma sui tassi di interesse. Come si vede nella Figura 1, gli
sforzi in questa direzione in anni recenti non sono stati affatto sufficienti,
anzi. Nel frangente corrente, i tassi di interesse nominali stanno di nuovo,
drammaticamente, aumentando Che fare, dunque?
Non possiamo non concordare con Giorgio La
Malfa (Il mattino 29 ottobre 2018) –
una voce autorevole non pregiudizialmente avversa ad una rottura della politica
impostata dai precedenti governi, come noi del resto – quando afferma che la
strategia impostata da questo governo è stata piuttosto scomposta sin dal
principio. Come nella classica tempesta nella tazzina da tè, i soli confusi
annunci di magnificenti piani di spesa sono stati sufficienti a gettare
scompiglio nei mercati dei nostri titoli di Stato (La voce 23 ottobre 2018) senza che nulla di operativo sia stato
intrapreso. Eppure, sottolinea La Malfa, di ragioni da vendere in Europa ce ne sarebbero
in abbondanza (v. anche Alessandro Penati, Sole-24
Ore 2 novembre 2018): il fallimento sfacciato delle politiche di austerità;
un pluridecennale rigore fiscale ineguagliato persino dalla Germania (Figura 2),
che stoppa ogni obiezione di possibile moral
hazard italiano;[1] la
solidità dei conti con l’estero; un’entità della manovra che non giustifica le
scomposte reazioni europee. Proprio per questo è sciocco rispondere alle
obiezioni europee, come hanno rispettivamente e ripetutamente fatto i due
leader maximi, con slogan banali come “noi tireremo diritto” o che “sono
impegni presi con gli elettori”, nella peggiore accezione del populismo.
Inoltre i contenuti della manovra sono da un lato discutibili da svariati punti
di vista e con un impatto di stimolo della domanda aggregata poco attendibile, tanto
per i contenuti delle misure, quanto per i tempi di attuazione – che nel
cosiddetto “reddito di cittadinanza” non possono che essere lunghi - tant’è
che, di necessità virtù, su questo allungamento dei tempi probabilmente si giocherà
la trattativa con l’Europa.[2] Misure
più volte agli investimenti, piccoli e grandi, sarebbero state più presentabili
in Europa e, almeno in parte, avrebbero prodotto effetti più certi. Rebus sic stantibus, il rischio per
governo e Paese è di andare a sbattere: da un lato la congiuntura
internazionale e le aspettative non aiutano, dall’altro le misure hanno effetti
incerti mentre gli spread sono aumentati. Non abbiamo particolari simpatie
intellettuali per il governatore Visco, ma i suoi allarmi non appaiono
immotivati.[3]
Figura 2
E se una trattativa ci dovrà essere con
l’Europa, il governo dovrebbe su questo avere le idee più chiare. Dato che una
marcia indietro sarà nei fatti (con la menzionata dilazione dei tempi delle
misure), tanto vale utilizzarla per ripensare i contenuti della manovra e
indirizzarli verso investimenti e supporto dell’economia reale.[4] Nessuna
crescita sostenibile è peraltro pensabile senza che una politica dell’offerta
accompagni il sostegno alla domanda aggregata. Ma il governo italiano dovrebbe
anche aver chiaro cosa vuole in cambio. La risposta non può che essere una
riduzione drastica dei tassi di interesse sul debito italiano, da sempre, come
sopra illustrato, la variabile chiave della sua dinamica.
Al riguardo, il ministro Paolo Savona nel
documento inviato qualche settimana fa a Bruxelles (Politeia 2018) ha indicato
come possibile e necessario un intervento selettivo della BCE a favore dei
titoli di Stato italiani. Si è obiettato che la BCE non ha questa facoltà. E’
stato spiacevole ascoltare il Presidente della BCE Draghi, nella sua ultima
conferenza stampa, affermare sconsolatamente che i tassi di interesse di
mercato sono una variabile indipendente su cui la banca centrale può poco – salvo
smentirsi poco dopo ricordando l’esistenza di quello che nel 2012 fu definito
il big bazooka, ovvero l’acquisto illimitato di titoli di Stato da parte della
BCE nel caso di un Paese sull’orlo del default. Certo, questa operazione
denominata OMT (Outright Monetary Transactions) è subordinata alla firma da
parte del Paese di un memorandum fiscale stile greco. Ma intanto si ammette che
se la BCE volesse, ben potrebbe farlo (e, com’è noto, nell’estate del 2012
bastò l’annuncio di questa possibilità a cominciare a chetare le acque). [5] Né è
un’obiezione sostenibile che quando la BCE cominciò effettivamente ad
acquistare titoli di Stato – col famoso quantitative easing – lo ha dovuto fare
in proporzione alla partecipazione dei Paesi al capitale della BCE (che
riflette grosso modo il loro peso demo-economico).
Infatti, fra il 2010 e il 2012 la BCE adottò il cosiddetto “Security Market
Programme” (SMP) che comportò l’acquisto mirato di titoli di Stato dei Paesi
della periferia europea per circa 220 miliardi (di cui un centinaio italiani).
La misura ebbe scarso effetto perché timida e mal comunicata ai mercati, ma è
lì a testimoniare che le scelte sono politiche non tecniche. E una “copertura”
tecnica la si trova sempre. Nel caso del SMP la BCE non si giustificò affermando
di voler sostenere i titoli di Stato di alcuni Paesi, ma di voler adempiere al proprio mandato di
assicurare la “trasmissione della politica monetaria”, come documentato dalla
medesima BCE (2012), ovvero che il costo del credito non sia troppo squilibrato
nelle diverse giurisdizioni dell’eurozona. La lettrice non si spaventi, un
bambino sveglio lo può capire, lo spieghiamo in nota.[6] E come
nel 2012, alla BCE magari “basta la parola” (come nella famosa pubblicità di un
lassativo).
Più volte si è sottolineato come l’Italia, pur
senza negare le sue mille fragilità, sia ancora un Paese solido, per esempio
senza un rilevante debito estero netto, a differenza di Francia e Spagna
(rispettivamente, in peso su PIL, -3,4%, -19,1%, -82,4%[7]). Non
v’è dunque motivo perché i tassi sui titoli pubblici italiani non siano a
livello francese (che hanno una trentina di punti di spread rispetto a quelli
tedeschi), offrendo uno spazio più ampio per un sostegno fiscale della domanda
interna – assicurando al contempo la stabilizzazione e persino una lenta
riduzione del rapporto debito/PIL (Cesaratto e Zezza 2018 a/b). Serve un nuovo
patto di fiducia fra Italia ed Europa, e questo non può che consistere in un
rispetto (ragionevole e non “stupido”) delle regole di bilancio in cambio di un
impegno chiaro (“ma di'
soltanto una parola ...”) delle
istituzioni europee alla credibilità delle finanze pubbliche italiane.
Sia ben chiaro, con questo si rischia di tornare
al periodo 1999-2007 in cui ai bassi tassi si accompagnava un orientamento
fiscale restrittivo e una conseguente crescita anemica (seppur positiva). Può
tuttavia ora aiutare il livello storicamente molto basso dei tassi di
interesse. Un’obiezione è qui che tali tassi potrebbero nel lungo periodo non
essere convenienti per l’economia tedesca: ma le regole del gioco di un’unione
monetaria sostenibile sono che la politica economica sostenga i Paesi più
deboli, di nuovo una scelta politica (Cesaratto 2018). Certo, in teoria, una limitata
svalutazione di una redenta moneta nazionale aiuterebbe una robusta ripresa
della nostra economia, permettendoci di recuperare i gap di competitività di
costo accumulati negli anni dell’euro (Iero 2018b). Messa da parte questa
scelta, per svariate ragioni, tra cui le incertezze finanziarie che implica,
c’è una ragione di più per una spesa indirizzata a rafforzare al contempo
domanda aggregata e apparato produttivo.
Riferimenti bibliografici
Bastasin, C. (2018) Narrazione sul debito, realtà e politica di alleanze europee, Il Sole-24 Ore, 26 ottobre.
Cesaratto, S. (2018), Chi non rispetta le regole? Italia e Germania, le doppie morali dell'euro, Imprimatur, Reggio Emilia
Cesaratto, S. & G. Zezza (2018) What went wrong with Italy, and what the country should now fight for in Europe, FMM Working Paper, Nr. 37, https://www.boeckler.de/imk_108546.htm?produkt=HBS-007008&chunk=1&jahr=#
Cesaratto e Zezza 2018b Farsi male da soli: disciplina esterna, domanda aggregata e il declino economico italiano, Giornate dell’economia Marcello de Cecco, Lanciano, 28-30 settembre 2018, in corso di pubblicazione su un numero speciale de L’industria.
Eser, F. et al. (2012) The Use of the Eurosystem's Monetary Policy Instruments and Operational Framework since 2009, ECB Occasional paper no. 135, https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpops/ecb.op188.en.pdf
Iero, A. (2018a), Debito
pubblico, una questione di
interessi, https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/debito-pubblico-una-questione-di-interessi/, 11 aprile 2018
Iero, A. (2018b), Un altro spread: competitività e inflazione, https://www.economiaepolitica.it/industria-e-mercati/mercati-competizione-e-monopoli/un-altro-spread-competitivita-e-inflazione/, 22 ottobre 2018
Giannetto,
C., Lisciandro, M. e LSala, L. (2018) Lo spread
colpisce ancora: ma è un nuovo 2011? La voce 23.10.18 https://www.lavoce.info/archives/55616/lo-spread-colpisce-ancora-ma-e-un-nuovo-2011/
La Repubblica 26 ottobre 2018) https://www.repubblica.it/economia/2018/10/26/news/manovra_moscovici_non_c_e_rischio_contagio_con_altri_paesi_-210022415/
Lenzi,
F. (2018) Ci sono limiti al debito pubblico? (e come provare ad abbassarlo), Econopoly, 24 aprile,
http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/04/24/debito-pubblico-senza-limiti/
Politeia (2018) http://www.politicheeuropee.gov.it/it/ministro/comunicati-stampa/una-politeia-per-uneuropa-diversa-piu-forte-e-piu-equa/
Reinhart, C.M. e
Sbrancia, M.B. (2011) The liquidation of government debt, NBER, Working Paper
16893
[1] Per “moral hazard” si intende un comportamento
opportunista per cui, nella fattispecie, un sostegno europeo alla sostenibilità
delle finanze pubbliche italiane si tradurrebbe in un presunto ulteriore
lassismo di bilancio.
[2]
Il ministro del Tesoro Tria ha alluso a questo: “A rendere «sostenibile» il
disavanzo, conferma il testo bollinato della manovra inviato ieri al Quirinale,
c’è il fatto che i due fondi destinati a reddito di cittadinanza e pensioni
sono tetti di spesa che non possono essere superati, ma possono essere non
raggiunti destinando ad altro le «eventuali economie».” (Sole-24 Ore 1 novembre
2018)
[3]
“Il rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato si riflette negativamente
anche sul bilancio pubblico. Qualora non venisse riassorbito, l’incremento fin
qui registrato provocherebbe, già dal prossimo anno, maggiori spese per
interessi per circa 0,3 punti percentuali del prodotto (oltre 5 miliardi).
L’aggravio salirebbe a mezzo punto nel 2020 e a 0,7 punti nel 2021. Ciò
accrescerebbe l’avanzo primario necessario anche solo a stabilizzare il
rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo.” (intervento alla
Giornata del risparmio, 31 ottobre 2018,
http://www.bancaditalia.it/media/notizia/giornata-mondiale-del-risparmio-del-2018-intervento-del-governatore/)
[4]
Per esempio il sostegno alle imprese del settore areo-spaziale sembrerebbe
penalizzato da questa finanziaria.
[5] Dispiace che Econopoly
ospiti articoli dilettanteschi, che non vale neppure la pena citare, che
affermano il contrario. Ragionevole alla luce di quanto da noi sostenuto è
invece Lenzi (2018).
[6] La BCE svolge la propria politica monetaria
manovrando i tassi di interesse a brevissimo termine. Ciò facendo cerca di
orientare i tassi a più lungo termine, quelli rilevanti per il credito a
famiglie e imprese e dunque per l’attività economica. Tale “trasmissione della
politica monetaria” deve essere, per definizione, egualmente efficace in tutta
l’eurozona. I tassi che famiglie e imprese pagano in ciascuna giurisdizione
dell’eurozona è però condizionata anche dai tassi di interesse sui titoli di
Stato a lungo termine. Una efficace trasmissione della politica monetaria può
dunque implicare un intervento sui titoli di Stato. Un documento della BCE che
i miei studenti stanno esaminando in questi giorni spiega in questi termini,
per esempio, le circostanze che diedero avvio al SMP nel 2010: “Il
malfunzionamento di certi mercati di titoli sovrani, in particolare in Grecia,
Portogallo e Irlanda, che soffrivano di illiquidità fu ritenuto minaccioso per
la trasmissione della politica monetaria. In risposta a ciò, fu introdotto il
Security Market Programme. All’interno di questo programma vengono acquistati
alcuni strumenti del debito dell’area euro allo scopo di mitigare gli
impedimenti al meccanismo di trasmissione della politica monetaria” (Eser et
al. 2012,p. 5). Nel 2011 il programma fu esteso a Italia e Spagna.
[7] Eurostat, Net international investment position -
quarterly data, % of GDP. Dati al secondo trimestre del 2018.
(Econopoly, 10 novembre 2018)
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