https://makroskop.eu/2018/02/die-linke-und-die-italienischen-wahlen/
E' piaciuto anche in Spagna, per cui lo tradurranno anche lì. Ma non è detto che nei prossimi giorni non cambi idea (ammesso che ne abbia una precisa).
Con l'occasione, intervista su Radio radicale, notiziario delle 14,05, cliccare "scarica" e poi andare al minuto 27. Si parla dei medesimi temi, cominciando dalla questione Bagnai.
Che voto a fare?
La sinistra e le elezioni italiane
Sergio Cesaratto
E tu che fai? Ti
astieni oppure voti per qualcuno, si domanda il popolo di sinistra in questi
giorni. Al di là dell’offerta elettorale, che descriveremo più avanti, c’è un
problema di fondo che riguarda la democrazia italiana e quella degli altri
Paesi dell’eurozona, con l’esclusione della Germania (e dei suoi satelliti). In
democrazia si vota fondamentalmente per due ordini di questioni: le scelte
socio-economiche e i diritti civili.
1.
Io voto
a sinistra di Phillips
Con riguardo alla prima scelta, agli studenti di economia viene raccontato
che un tempo, in epoca keynesiana, esisteva un menu di scelte macroeconomiche
chiamato curva di Phillips: tale curva (figura 1) poneva in reazione il livello
della disoccupazione con quello dell’inflazione. L’idea era che a livelli bassi
di disoccupazione, a sinistra della curva [sic], il rafforzamento del potere
contrattuale del sindacato avrebbe condotto a un aumento dei salari reali, ma
anche dei prezzi; viceversa, a destra della curva, il prezzo di una bassa
inflazione era un elevato numero di disoccupati. In questo bel tempo antico i
lavoratori, rappresentati dalla sinistra, privilegiavano piena occupazione e
salari elevati, mentre la piccola e media borghesia (preoccupata dei propri
risparmi) privilegiava la bassa inflazione e la pace sociale votando centro-destra.
Figura 1 – La
curva di Phillips
Nelle piccole e
fortunate socialdemocrazie nordiche e in Germania si riuscì a ottenere il
meglio dei due mondi, piena occupazione e bassa inflazione. Il trucco fu di
basare la crescita della domanda aggregata non su una veloce crescita della
domanda interna guidata dai salari, ma sulla domanda estera: la moderazione
salariale si traduceva così in crescita della domanda estera, dell’occupazione
e della produttività e dunque, nel lungo periodo, anche dei salari reali. Nei
Paesi “keynesiani”, come Francia e Regno Unito (e negli Stati Uniti), la
domanda interna (che include la spesa pubblica) giocò invece un ruolo più
importante, con conseguenti squilibri dei conti esteri (consentendo così il neo-mercantilismo socialdemocratico del
primo gruppo di Paesi). Negli anni cinquanta l’Italia seguì un modello
export-led alla tedesca (tanto che nel 1959 il Financial Times nominò la lira come la moneta più stabile del
mondo). La borghesia italiana non fu però intelligente quanto quella tedesca
nel far partecipare le grandi masse popolari ai frutti del miracolo economico,
per cui gli avanzamenti sociali furono ottenuti non attraverso l’accordo
sociale, ma attraverso il conflitto (o la redistribuzione clientelare di marca
democristiana). L’Italia scivolò così verso un disordinato keynesismo. Comunque
sia, v’era nei diversi Paesi l’idea della scelta fra politiche economiche più
orientate ai lavoratori o alla borghesia. Dagli anni ottanta all’università si cominciò
tuttavia a insegnare ai giovani che la curva di Phillips dagli anni settanta era
scomparsa (se mai fosse esistita), ma che l’economia, se lasciata liberamente
operare, avrebbe condotto a un equilibrio “naturale” dove v’è piena occupazione
e stabilità dei prezzi. In questo contesto la politica fiscale doveva essere
vincolata dal pareggio di bilancio, mentre alla politica monetaria andava
assegnato il solo compito della stabilità dei prezzi. Di qui l’idea
dell’indipendenza delle banche centrali dal potere (democratico). C’era sempre
tuttavia il pericolo che qualche presidente della banca centrale, troppo
sensibile ai temi sociali, continuasse a credere al trade-off disoccupazione-inflazione (la vecchia curva di Phillips)
e favorisse l’occupazione pur al prezzo dell’instabilità dei prezzi. Negli anni
settanta un saggio e democratico economista, Paolo Baffi, governò la politica
monetaria in questo senso: meglio una lira debole a un’elevata disoccupazione.
Dei sagaci economisti bocconiani (Giavazzi e Pagano 1988) diedero tuttavia
copertura accademica a un’altra scelta: quella del legarsi le mani con la
moneta unica: in tal modo, privati della sovranità monetaria, non si poteva più
conservare il modello italiano di alta inflazione, difesa di occupazione e
salari attraverso la svalutazione esterna per conservare la competitività. Con
la perdita della sovranità monetaria si perde così la facoltà di votare su
quale punto della curva di Phillips collocarsi. La democrazia è monca. L’Europa
monetaria è lo strumento con cui il capitale ha svuotato la democrazia
nazionale del proprio sale, ovvero del conflitto sociale e distributivo che, se ben regolato (Hirschman 1994), è il cuore della democrazia.
Rimane il voto
sui diritti civili, certamente importante, ma che finisce per rappresentare
un’arma per nascondere lo svuotamento della democrazia sui temi
socio-economici. Il Partito Democratico di Matteo Renzi ha per esempio cercato
di presentarsi come (ancora) di sinistra sostenendo l’approvazione delle leggi
sulle coppie gay o sul legge sul testamento biologico (il diritto di
interrompere terapie troppo invasive) e, più timidamente vista l’opposizione
dell’opinione pubblica, dello ius soli
a favore di centinaia di migliaia di ragazze/i nati da genitori immigrati, ma
che hanno frequentato le scuole italiane, italiani in effetti.
(vignetta di Plantu)
2.
E’
l’economia bellezza
La prima constatazione
da farsi è che la consapevolezza della sinistra italiana su quest’ordine di
problemi è scarsa se non nulla. Infatti nonostante l’intenso lavoro svolto in
questi anni da un gruppo di economisti eterodossi[1]
e che ha riscosso un buon seguito nell’opinione pubblica, gran parte del popolo
di sinistra, quando non disilluso e ormai poco interessato, è pienamente caduto
nella trappola dell’identificazione di europeismo e internazionalismo. Il
lavoro di questi economisti ha cercato al riguardo di convincere la sinistra
dell’irriformabilità dell’Europa monetaria in una direzione democratica e
progressista in vista, soprattutto, del modello mercantilista tedesco che è
incompatibile con corrette regole del gioco di un’unione monetaria (quali note
persino dalla teoria economica convenzionale) (v. Cesaratto 2017, 2018). Essi
hanno anche cercato di spiegare come il declino economico italiano sia stato
proprio determinato dall’autoimposto vincolo estero della moneta unica (e del
sistema monetario europeo prima) (Bagnai 2016). Naturalmente nessuno si
nasconde la drammaticità di una eventuale uscita dell’Italia dall’euro, né crede
che questa risolva automaticamente i problemi del Paese. La mia opinione è che
se l’Italia uscirà dall’euro sarà in seguito al ripresentarsi di una crisi
finanziaria come nel 2012, nell’ipotesi che questa volta il Paese rifiuti i diktat
europei, politici ed economici. La sinistra radicale adotta tuttavia la
politica dello struzzo, ritenendo che un progetto progressista si identifichi
col ripristino di una serie di garanzie giuridiche nei riguardi del lavoro e a
una lista di vaghi progetti ambientali senza discutere la gabbia costituita dal
nuovo gold standard costituito
dall’euro. Temiamo che, quando va bene, la stesura dei programmi sia stata
affidata a giuristi e sociologi del lavoro senza che coinvolgere nessun serio
economista radicale. Nell’ipotesi peggiore, il progetto è una lista della spesa
calata dal basso (mi si perdoni l’ossimoro), quasi che la sommatoria delle
istanze dal basso possa dar luogo, sic et simpliciter, a un progetto politico.
3.
L’offerta
politica
L’elettore di
sinistra certamente considererà fra le opzioni possibili il voto al Movimento 5 Stelle (M5S). Cominciamo
dunque da questo. I processi decisionali di questo partito/movimento sono a dir
poco torbidi. Le candidature appaiono più un arrembaggio alla poltrona da parte
di una ristretta base di militanti che un processo di selezione, democratico e
partecipato, di una classe dirigente. Questo è precisamente il contrario della
lotta alla casta politica che è il cavallo di battaglia, piuttosto
qualunquista, di questa formazione. Il programma economico è vago avendo i
Cinque Stelle oscillato fra un referendum sull’uscita dall’euro e l’emissione
di una moneta parallela (una proposta che si scontrerebbe con l’ovvia
opposizione europea). La mia impressione è che un governo M5S condurrebbe
politiche di austerità giustificando i tagli alla spesa pubblica come tagli ai
privilegi della casta. Difficilmente il M5S raggiungerà una maggioranza
parlamentare, anche in seguito alla pessima figura che i sindaci pentastellati
han fatto nel governo di alcune città, in particolare a Roma. Molti a sinistra
(compreso me nel ballottaggio per il sindaco di Roma) hanno votato M5S, molti
non lo rifaranno. IL M5S sarà probabilmente il primo partito ma con non-oltre
un 35% dei voti.
L’elettore di sinistra
ha l’opzione Partito Democratico, in nome del realismo o del moderatismo. E’
difficile purtroppo, rebus sic stantibus,
considerare il PD ancora un partito di sinistra. Peraltro la prospettiva che lo
stesso Renzi si dà è di una Grosse Koalitione con Berlusconi con Paolo
Gentiloni (l’attuale Presidente del Consiglio) come leader. I numeri parlamentari per questa soluzione non sono
assicurati.
A sinistra del
PD si è recentemente costituito un cartello elettorale chiamato Liberi e uguali fondato dal gruppo di ex
comunisti che ha lasciato il PD lo scorso autunno (fra cui D’Alema e Bersani) e
da esponenti di Sinistra italiana (molti ex SEL), fra cui Stefano Fassina. Come
leader elettorale il raggruppamento ha nominato Pietro Grasso, un magistrato ex
capo dell’Agenzia anti-mafia ed ex Presidente del Senato. Il programma alla
Corbyn di Liberi e uguali è per certi
aspetti ben articolato, ma evita di affrontare con realismo il tema europeo -
è, diciamo, un programma microeconomico, visto che un serio programma
macroeconomico implica affrontare il tema europeo. Fassina sembra aver
rinunciato a una battaglia aperta su questi temi (come Alfredo D’Attorre
dapprima) ed è comunque isolato. Il risultato di Liberi e uguali è stimato attorno al 7-8% - e per il dopo-elezioni
non esclude un accordo col M5S (il quale per ora ufficialmente disdegna). Liberi e uguali potrebbe spaccarsi nelle
scelte del dopo-elezioni.
Ancora più a
sinistra è infine nato un raggruppamento elettorale chiamato Potere al popolo in cui sono confluiti,
fra gli altri, Rifondazione comunista (la parte del partito comunista che nel
1991 non volle aderire al PDS-DS-PD, che all’apice raggiunse l’8% dei voti, ma
che è da tempo fuori del Parlamento) e soprattutto Rete dei comunisti-USB. La
Rete dei comunisti è il braccio politico delle USB (Unione sindacale di base),
un sindacato autonomo che ha una buona presa in alcuni settori di lavoratori. Altre
realtà di base legate ai centri sociali aderiscono alla lista. Questo rende Potere al popolo più simpatico di Liberi e uguali che assomiglia molto a
un carrozzone attraverso cui una casta di notabili di sinistra cerca di
riguadagnare uno scranno parlamentare. La formazione ha un programma “lista
della spesa” dal basso, ovvero un elenco di rivendicazioni più o meno
interessanti senza un disegno organico (è vero che la lista è recente, ma nella
sinistra italiana da decenni manca un lavoro intellettuale di lunga lena). Sull’Europa
Potere al popolo è più radicale di Liberi e uguali, ma pur sempre
privilegiando l’europeismo del “cambiamo i Trattati” in senso progressista. Vi
sono in verità presenti sia coerenti anti-euro che tsipraioli/e riciclati/e
(reduci della lista europeista L’altra
Europa con Tsipras delle scorse europee). Potere al popolo difficilmente supererà la soglia di sbarramento
del 3% per entrare in Parlamento. Molti militanti sperano che, comunque vada,
l’esperienza possa sfociare in un più consistente e genuino partito della
sinistra radicale.
Questa è la
scelta davanti all’elettore di sinistra, che è comunque un non-scelta in quanto
ogni programma che punti seriamente alla piena occupazione e al ripristino di
diritti del lavoro e sociali implica uno scontro con l’Europa e richiede misure
economiche molto radicali. Di questo non v’è grande consapevolezza. Molte volte
mi chiedo se, invece di invocare improbabili rotture con l’Europa, non sarebbe
più serio lavorare a un programma riformista nel quadro di cose esistenti. La
questione è che da genuino keynesiano ritengo che senza la crescita della domanda
aggregata l’economia italiana non abbia chances di ripresa, e che non si fanno
riforme (che sono cose ben diverse dalla controriforme sostenute dall’Europa)
senza quattrini.
4.
Per chi
votare?
In conclusione
la sinistra si presenta con programmi economici inadeguati e non è un caso che
l’intellighenzia economica di sinistra non sia stata coinvolta nella
predisposizione dei progetti politici né di
Liberi e uguali né di Potere al
popolo. Questo è grave ed è anche frutto di una tara culturale italiana in
cui la cultura filosofica-giuridica prevale su quella più analitica. I temi
europei sono così stati lasciati alla destra, in particolare alla Lega Nord che
tuttavia non credo faccio molto altro che demagogia su questo tema (nonostante
la candidatura di Alberto Bagnai che ci auguriamo fortunata). Anche sul tema
dell’immigrazione la sinistra non è riuscita a darsi un volto equilibrato e
rassicurante di fronte a quello che personalmente ritengo un giustificato
smarrimento dell’opinione pubblica.
Last but not least, la
base tradizionale della sinistra è in Italia più che Oltralpe frammentata e
divisa. La grande fabbrica, centrale nel paesaggio politico-sociale italiano
degli anni sessanta, è scomparsa con l’eclissi della grande impresa vittima di
uno sregolato conflitto sociale e della mancata lungimiranza tecnologica degli
imprenditori. Quello che ne è rimasto è in gran parte in mani straniere. Così la
classe lavoratrice è frammentata e dispersa, mentre il precariato e l’assenza
di diritti domina le vite della gioventù italiana, anche di quella qualificata.
In tutto questo
le mie personali simpatie vanno per default a Potere al popolo, nella speranza che esso si liberi degli elementi
di demagogia “dal basso” e di verbosità estremista verso la costituzione di una
formazione di sinistra radicalmente riformista che sappia coniugare le istanze
e il lavoro di base con un progetto politico-intellettuale. Non ci spero, ma
facciamo finta che. Naturalmente, auspico caldamente che sia Alberto Bagnai che
Stefano Fassina ce la facciano, in verità i soli due candidati veramente
competenti sui temi che contano. Ad maiora dunque.
Riferimenti
Bagnai, A.
(2016) Italy’s decline and the
balance-of-payments constraint: a multicountry analysis International, Review of Applied Economics, Vol. 30 (1): 1-26.
Cesaratto, S. (2017)
Alternative Interpretations of a Stateless Currency crisis, Cambridge Journal of Economics, vol. 41
(4): 977-998
Cesaratto, S. (2018), Chi non rispetta leregole? Morali e doppie morali nell’Europa dell’euro, relazione per il
seminario “Deutschland, Italien und die Eurokrise im
Streit der Meinungen”, organizzato da Dante Alighieri Gesellschaft Freiburg e
Universität Freiburg - Institute of Economic Research, Freiburg 25 gennaio 2018
Giavazzi,
F. e Pagano, M. (1988) The Advantage of Tying One's Hands:
EMS Discipline and Central Bank Credibility, European Economic Review, 32 (5):1055–82
Hirschman, A.O. 1994. Social conflicts
as pillars of democratic market society,
Political Theory, vol. 22 (2): 203-218.
[1] Oltre ad Alberto Bagnai,
Vladimiro Giacché, Antonella Stirati, Gennaro Zezza e altri (fra cui il
sottoscritto!) a livello più accademico mi piace citare Massimo Pivetti i cui
lavori critici sulla “truffa sociale” dell’Europa monetaria risalgono agli anni
novanta.
La conosco abbastanza (per aver ascoltato i suoi interventi e letto "Sei lezioni di economia") da aver immaginato la sua preferenza di voto prima di leggere questo post.
RispondiEliminaNon ci spero, tuttavia mi auguro che - superato lo shock e il rigetto iniziali - la sua consapevolezza sui limiti di Potere al Popolo e sull'improbabilità che superi il 3%, faccia prevalere il Cesaratto economista, ovvero che consideri di sostenere l'unico economista competente a cui viene data un'opportunità (e per demagogia o meno) e che comunque ha il temperamento per prendersela (a differenza di Fassina che ha paura della sua ombra ed è completamente isolato all'interno del suo stesso partito).
Bagnai è l'unica possibilità concreta di portare argomenti seri in parlamento (e in tv dove possono essere ascoltati e magari finalmente compresi da milioni di persone).
A mio parere è anche l'unico modo di far capire definitivamente alla sinistra (Potere al Popolo, il resto non è sinistra) che non riuscirà a vivacchiare semplicemente sfruttando la nostalgia per un simbolo che non è all'altezza di rappresentare.
Sono assolutamente d'accordo con lei.
EliminaGrazie. Mi rincuora leggere i miei stessi sentimenti e difficoltà. E sapere che anche dall'alto della scienza economica si possa decidere di votare secondo "simpatia" (e quindi forse contro il calcolo scientifico o politico), come credo farò anch'io.
RispondiEliminaMah, la speranza sul superamento della verbosità ha ormai quanto? 30 anni? 40? Avremmo dovuto smettere di sperarci vent'anni fa, quando adottarono il pacchetto Treu, linguaggio verboso e voto da padroni. Avrebbero dovuto farlo tanto più gli economisti, e a maggior ragione dovremmo farlo tutti oggi, visto che vi si aggiungono la cecità e la censura volute sui temi UE. Roba che arriva al ridicolo, se da quelle parti non si esita ancora a ricorrere al ritornello: "Ma la globalizzazione c'è anche senza l'euro": ma dài? O è idiozia o è complicità: non diamo troppo fastidio, magari l'elemosina ce la faranno ancora.
RispondiEliminaDel resto l'analisi conferma che lo scenario dovrà essere questo e con ogni verosimiglianza lo sarà.
Quanto alla demagogia della Lega, ascoltare Salvini quando dall'economia passa al suo lato nature e darla per assodata è tutt'uno, ahimé.
Salve dottor Cesaratto,
RispondiEliminaIl suo articolo è di grande interesse, e risponde a domande che molti cittadini si pongono in continuazione.
Mi chiedevo se fosse possibile contattarle in privato. Distinti saluti,
Marco Moroldo
Personalmente voterò Lega. Giusto perché il mainstream sembra esserne terrorizzato. Per ora PD delendum est, poi vedremo...
RispondiEliminaVedremo questo.
EliminaA me sta benissimo distruggere il PD, figuriamoci, ma per distruggere le sue politiche, quelle sul lavoro a maggior ragione.
Non credo sia un partito minimamente riformabile, fosse pure in seguito alla peggiore batosta elettorale. Con ogni evidenza tutta la sinistra elettoralmente rappresentativa ha rinunciato a difendere gli interessi dei ceti bassi.
Dare una lezione al PD tanto per dargliela e poi non smontare il peggio della sua legislazione non significa distruggere quelle politiche, purtroppo.
Ottimo articolo
RispondiElimina