sabato 3 febbraio 2018

E mo' chi voto?

Makroskop mi ha richiesto, tradotto e pubblicato un articolo sulle elezioni che pubblico con minimi ritocchi (anche perché l'ho scritto 15 giorni fa).
https://makroskop.eu/2018/02/die-linke-und-die-italienischen-wahlen/
E' piaciuto anche in Spagna, per cui lo tradurranno anche lì. Ma non è detto che nei prossimi giorni non cambi idea (ammesso che ne abbia una precisa).
Con l'occasione, intervista su Radio radicale,  notiziario delle 14,05, cliccare "scarica" e poi andare al minuto 27. Si parla dei medesimi temi, cominciando dalla questione Bagnai.



Che voto a fare? La sinistra e le elezioni italiane
Sergio Cesaratto
E tu che fai? Ti astieni oppure voti per qualcuno, si domanda il popolo di sinistra in questi giorni. Al di là dell’offerta elettorale, che descriveremo più avanti, c’è un problema di fondo che riguarda la democrazia italiana e quella degli altri Paesi dell’eurozona, con l’esclusione della Germania (e dei suoi satelliti). In democrazia si vota fondamentalmente per due ordini di questioni: le scelte socio-economiche e i diritti civili.

 
1.     Io voto a sinistra di Phillips
Con riguardo alla prima scelta, agli studenti di economia viene raccontato che un tempo, in epoca keynesiana, esisteva un menu di scelte macroeconomiche chiamato curva di Phillips: tale curva (figura 1) poneva in reazione il livello della disoccupazione con quello dell’inflazione. L’idea era che a livelli bassi di disoccupazione, a sinistra della curva [sic], il rafforzamento del potere contrattuale del sindacato avrebbe condotto a un aumento dei salari reali, ma anche dei prezzi; viceversa, a destra della curva, il prezzo di una bassa inflazione era un elevato numero di disoccupati. In questo bel tempo antico i lavoratori, rappresentati dalla sinistra, privilegiavano piena occupazione e salari elevati, mentre la piccola e media borghesia (preoccupata dei propri risparmi) privilegiava la bassa inflazione e la pace sociale votando centro-destra.


 

Figura 1 – La curva di Phillips
Nelle piccole e fortunate socialdemocrazie nordiche e in Germania si riuscì a ottenere il meglio dei due mondi, piena occupazione e bassa inflazione. Il trucco fu di basare la crescita della domanda aggregata non su una veloce crescita della domanda interna guidata dai salari, ma sulla domanda estera: la moderazione salariale si traduceva così in crescita della domanda estera, dell’occupazione e della produttività e dunque, nel lungo periodo, anche dei salari reali. Nei Paesi “keynesiani”, come Francia e Regno Unito (e negli Stati Uniti), la domanda interna (che include la spesa pubblica) giocò invece un ruolo più importante, con conseguenti squilibri dei conti esteri (consentendo così il neo-mercantilismo socialdemocratico del primo gruppo di Paesi). Negli anni cinquanta l’Italia seguì un modello export-led alla tedesca (tanto che nel 1959 il Financial Times nominò la lira come la moneta più stabile del mondo). La borghesia italiana non fu però intelligente quanto quella tedesca nel far partecipare le grandi masse popolari ai frutti del miracolo economico, per cui gli avanzamenti sociali furono ottenuti non attraverso l’accordo sociale, ma attraverso il conflitto (o la redistribuzione clientelare di marca democristiana). L’Italia scivolò così verso un disordinato keynesismo. Comunque sia, v’era nei diversi Paesi l’idea della scelta fra politiche economiche più orientate ai lavoratori o alla borghesia. Dagli anni ottanta all’università si cominciò tuttavia a insegnare ai giovani che la curva di Phillips dagli anni settanta era scomparsa (se mai fosse esistita), ma che l’economia, se lasciata liberamente operare, avrebbe condotto a un equilibrio “naturale” dove v’è piena occupazione e stabilità dei prezzi. In questo contesto la politica fiscale doveva essere vincolata dal pareggio di bilancio, mentre alla politica monetaria andava assegnato il solo compito della stabilità dei prezzi. Di qui l’idea dell’indipendenza delle banche centrali dal potere (democratico). C’era sempre tuttavia il pericolo che qualche presidente della banca centrale, troppo sensibile ai temi sociali, continuasse a credere al trade-off disoccupazione-inflazione (la vecchia curva di Phillips) e favorisse l’occupazione pur al prezzo dell’instabilità dei prezzi. Negli anni settanta un saggio e democratico economista, Paolo Baffi, governò la politica monetaria in questo senso: meglio una lira debole a un’elevata disoccupazione. Dei sagaci economisti bocconiani (Giavazzi e Pagano 1988) diedero tuttavia copertura accademica a un’altra scelta: quella del legarsi le mani con la moneta unica: in tal modo, privati della sovranità monetaria, non si poteva più conservare il modello italiano di alta inflazione, difesa di occupazione e salari attraverso la svalutazione esterna per conservare la competitività. Con la perdita della sovranità monetaria si perde così la facoltà di votare su quale punto della curva di Phillips collocarsi. La democrazia è monca. L’Europa monetaria è lo strumento con cui il capitale ha svuotato la democrazia nazionale del proprio sale, ovvero del conflitto sociale e distributivo che, se ben regolato (Hirschman 1994), è il cuore della democrazia.
Rimane il voto sui diritti civili, certamente importante, ma che finisce per rappresentare un’arma per nascondere lo svuotamento della democrazia sui temi socio-economici. Il Partito Democratico di Matteo Renzi ha per esempio cercato di presentarsi come (ancora) di sinistra sostenendo l’approvazione delle leggi sulle coppie gay o sul legge sul testamento biologico (il diritto di interrompere terapie troppo invasive) e, più timidamente vista l’opposizione dell’opinione pubblica, dello ius soli a favore di centinaia di migliaia di ragazze/i nati da genitori immigrati, ma che hanno frequentato le scuole italiane, italiani in effetti.

(vignetta di Plantu)
2.     E’ l’economia bellezza
La prima constatazione da farsi è che la consapevolezza della sinistra italiana su quest’ordine di problemi è scarsa se non nulla. Infatti nonostante l’intenso lavoro svolto in questi anni da un gruppo di economisti eterodossi[1] e che ha riscosso un buon seguito nell’opinione pubblica, gran parte del popolo di sinistra, quando non disilluso e ormai poco interessato, è pienamente caduto nella trappola dell’identificazione di europeismo e internazionalismo. Il lavoro di questi economisti ha cercato al riguardo di convincere la sinistra dell’irriformabilità dell’Europa monetaria in una direzione democratica e progressista in vista, soprattutto, del modello mercantilista tedesco che è incompatibile con corrette regole del gioco di un’unione monetaria (quali note persino dalla teoria economica convenzionale) (v. Cesaratto 2017, 2018). Essi hanno anche cercato di spiegare come il declino economico italiano sia stato proprio determinato dall’autoimposto vincolo estero della moneta unica (e del sistema monetario europeo prima) (Bagnai 2016). Naturalmente nessuno si nasconde la drammaticità di una eventuale uscita dell’Italia dall’euro, né crede che questa risolva automaticamente i problemi del Paese. La mia opinione è che se l’Italia uscirà dall’euro sarà in seguito al ripresentarsi di una crisi finanziaria come nel 2012, nell’ipotesi che questa volta il Paese rifiuti i diktat europei, politici ed economici. La sinistra radicale adotta tuttavia la politica dello struzzo, ritenendo che un progetto progressista si identifichi col ripristino di una serie di garanzie giuridiche nei riguardi del lavoro e a una lista di vaghi progetti ambientali senza discutere la gabbia costituita dal nuovo gold standard costituito dall’euro. Temiamo che, quando va bene, la stesura dei programmi sia stata affidata a giuristi e sociologi del lavoro senza che coinvolgere nessun serio economista radicale. Nell’ipotesi peggiore, il progetto è una lista della spesa calata dal basso (mi si perdoni l’ossimoro), quasi che la sommatoria delle istanze dal basso possa dar luogo, sic et simpliciter, a un progetto politico.
3.     L’offerta politica
L’elettore di sinistra certamente considererà fra le opzioni possibili il voto al Movimento 5 Stelle (M5S). Cominciamo dunque da questo. I processi decisionali di questo partito/movimento sono a dir poco torbidi. Le candidature appaiono più un arrembaggio alla poltrona da parte di una ristretta base di militanti che un processo di selezione, democratico e partecipato, di una classe dirigente. Questo è precisamente il contrario della lotta alla casta politica che è il cavallo di battaglia, piuttosto qualunquista, di questa formazione. Il programma economico è vago avendo i Cinque Stelle oscillato fra un referendum sull’uscita dall’euro e l’emissione di una moneta parallela (una proposta che si scontrerebbe con l’ovvia opposizione europea). La mia impressione è che un governo M5S condurrebbe politiche di austerità giustificando i tagli alla spesa pubblica come tagli ai privilegi della casta. Difficilmente il M5S raggiungerà una maggioranza parlamentare, anche in seguito alla pessima figura che i sindaci pentastellati han fatto nel governo di alcune città, in particolare a Roma. Molti a sinistra (compreso me nel ballottaggio per il sindaco di Roma) hanno votato M5S, molti non lo rifaranno. IL M5S sarà probabilmente il primo partito ma con non-oltre un 35% dei voti.
L’elettore di sinistra ha l’opzione Partito Democratico, in nome del realismo o del moderatismo. E’ difficile purtroppo, rebus sic stantibus, considerare il PD ancora un partito di sinistra. Peraltro la prospettiva che lo stesso Renzi si dà è di una Grosse Koalitione con Berlusconi con Paolo Gentiloni (l’attuale Presidente del Consiglio) come leader. I numeri parlamentari per questa soluzione non sono assicurati.
A sinistra del PD si è recentemente costituito un cartello elettorale chiamato Liberi e uguali fondato dal gruppo di ex comunisti che ha lasciato il PD lo scorso autunno (fra cui D’Alema e Bersani) e da esponenti di Sinistra italiana (molti ex SEL), fra cui Stefano Fassina. Come leader elettorale il raggruppamento ha nominato Pietro Grasso, un magistrato ex capo dell’Agenzia anti-mafia ed ex Presidente del Senato. Il programma alla Corbyn di Liberi e uguali è per certi aspetti ben articolato, ma evita di affrontare con realismo il tema europeo - è, diciamo, un programma microeconomico, visto che un serio programma macroeconomico implica affrontare il tema europeo. Fassina sembra aver rinunciato a una battaglia aperta su questi temi (come Alfredo D’Attorre dapprima) ed è comunque isolato. Il risultato di Liberi e uguali è stimato attorno al 7-8% - e per il dopo-elezioni non esclude un accordo col M5S (il quale per ora ufficialmente disdegna). Liberi e uguali potrebbe spaccarsi nelle scelte del dopo-elezioni.
Ancora più a sinistra è infine nato un raggruppamento elettorale chiamato Potere al popolo in cui sono confluiti, fra gli altri, Rifondazione comunista (la parte del partito comunista che nel 1991 non volle aderire al PDS-DS-PD, che all’apice raggiunse l’8% dei voti, ma che è da tempo fuori del Parlamento) e soprattutto Rete dei comunisti-USB. La Rete dei comunisti è il braccio politico delle USB (Unione sindacale di base), un sindacato autonomo che ha una buona presa in alcuni settori di lavoratori. Altre realtà di base legate ai centri sociali aderiscono alla lista. Questo rende Potere al popolo più simpatico di Liberi e uguali che assomiglia molto a un carrozzone attraverso cui una casta di notabili di sinistra cerca di riguadagnare uno scranno parlamentare. La formazione ha un programma “lista della spesa” dal basso, ovvero un elenco di rivendicazioni più o meno interessanti senza un disegno organico (è vero che la lista è recente, ma nella sinistra italiana da decenni manca un lavoro intellettuale di lunga lena). Sull’Europa Potere al popolo è più radicale di Liberi e uguali, ma pur sempre privilegiando l’europeismo del “cambiamo i Trattati” in senso progressista. Vi sono in verità presenti sia coerenti anti-euro che tsipraioli/e riciclati/e (reduci della lista europeista L’altra Europa con Tsipras delle scorse europee). Potere al popolo difficilmente supererà la soglia di sbarramento del 3% per entrare in Parlamento. Molti militanti sperano che, comunque vada, l’esperienza possa sfociare in un più consistente e genuino partito della sinistra radicale.
Questa è la scelta davanti all’elettore di sinistra, che è comunque un non-scelta in quanto ogni programma che punti seriamente alla piena occupazione e al ripristino di diritti del lavoro e sociali implica uno scontro con l’Europa e richiede misure economiche molto radicali. Di questo non v’è grande consapevolezza. Molte volte mi chiedo se, invece di invocare improbabili rotture con l’Europa, non sarebbe più serio lavorare a un programma riformista nel quadro di cose esistenti. La questione è che da genuino keynesiano ritengo che senza la crescita della domanda aggregata l’economia italiana non abbia chances di ripresa, e che non si fanno riforme (che sono cose ben diverse dalla controriforme sostenute dall’Europa) senza quattrini.
4.     Per chi votare?
In conclusione la sinistra si presenta con programmi economici inadeguati e non è un caso che l’intellighenzia economica di sinistra non sia stata coinvolta nella predisposizione dei progetti politici né di Liberi e uguali né di Potere al popolo. Questo è grave ed è anche frutto di una tara culturale italiana in cui la cultura filosofica-giuridica prevale su quella più analitica. I temi europei sono così stati lasciati alla destra, in particolare alla Lega Nord che tuttavia non credo faccio molto altro che demagogia su questo tema (nonostante la candidatura di Alberto Bagnai che ci auguriamo fortunata). Anche sul tema dell’immigrazione la sinistra non è riuscita a darsi un volto equilibrato e rassicurante di fronte a quello che personalmente ritengo un giustificato smarrimento dell’opinione pubblica.
Last but not least, la base tradizionale della sinistra è in Italia più che Oltralpe frammentata e divisa. La grande fabbrica, centrale nel paesaggio politico-sociale italiano degli anni sessanta, è scomparsa con l’eclissi della grande impresa vittima di uno sregolato conflitto sociale e della mancata lungimiranza tecnologica degli imprenditori. Quello che ne è rimasto è in gran parte in mani straniere. Così la classe lavoratrice è frammentata e dispersa, mentre il precariato e l’assenza di diritti domina le vite della gioventù italiana, anche di quella qualificata.
In tutto questo le mie personali simpatie vanno per default a Potere al popolo, nella speranza che esso si liberi degli elementi di demagogia “dal basso” e di verbosità estremista verso la costituzione di una formazione di sinistra radicalmente riformista che sappia coniugare le istanze e il lavoro di base con un progetto politico-intellettuale. Non ci spero, ma facciamo finta che. Naturalmente, auspico caldamente che sia Alberto Bagnai che Stefano Fassina ce la facciano, in verità i soli due candidati veramente competenti sui temi che contano. Ad maiora dunque.
Riferimenti
Cesaratto, S. (2017) Alternative Interpretations of a Stateless Currency crisis, Cambridge Journal of Economics, vol. 41 (4): 977-998
Cesaratto, S. (2018), Chi non rispetta leregole? Morali e doppie morali nell’Europa dell’euro, relazione per il seminario “Deutschland, Italien und die Eurokrise im Streit der Meinungen”, organizzato da Dante Alighieri Gesellschaft Freiburg e Universität Freiburg - Institute of Economic Research, Freiburg 25 gennaio 2018
Giavazzi, F. e Pagano, M. (1988) The Advantage of Tying One's Hands: EMS Discipline and Central Bank Credibility, European Economic Review, 32 (5):1055–82
Hirschman, A.O. 1994. Social conflicts as pillars of democratic market society, Political Theory, vol. 22 (2): 203-218.


[1] Oltre ad Alberto Bagnai, Vladimiro Giacché, Antonella Stirati, Gennaro Zezza e altri (fra cui il sottoscritto!) a livello più accademico mi piace citare Massimo Pivetti i cui lavori critici sulla “truffa sociale” dell’Europa monetaria risalgono agli anni novanta.

8 commenti:

  1. La conosco abbastanza (per aver ascoltato i suoi interventi e letto "Sei lezioni di economia") da aver immaginato la sua preferenza di voto prima di leggere questo post.

    Non ci spero, tuttavia mi auguro che - superato lo shock e il rigetto iniziali - la sua consapevolezza sui limiti di Potere al Popolo e sull'improbabilità che superi il 3%, faccia prevalere il Cesaratto economista, ovvero che consideri di sostenere l'unico economista competente a cui viene data un'opportunità (e per demagogia o meno) e che comunque ha il temperamento per prendersela (a differenza di Fassina che ha paura della sua ombra ed è completamente isolato all'interno del suo stesso partito).

    Bagnai è l'unica possibilità concreta di portare argomenti seri in parlamento (e in tv dove possono essere ascoltati e magari finalmente compresi da milioni di persone).

    A mio parere è anche l'unico modo di far capire definitivamente alla sinistra (Potere al Popolo, il resto non è sinistra) che non riuscirà a vivacchiare semplicemente sfruttando la nostalgia per un simbolo che non è all'altezza di rappresentare.

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  2. Grazie. Mi rincuora leggere i miei stessi sentimenti e difficoltà. E sapere che anche dall'alto della scienza economica si possa decidere di votare secondo "simpatia" (e quindi forse contro il calcolo scientifico o politico), come credo farò anch'io.

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  3. Mah, la speranza sul superamento della verbosità ha ormai quanto? 30 anni? 40? Avremmo dovuto smettere di sperarci vent'anni fa, quando adottarono il pacchetto Treu, linguaggio verboso e voto da padroni. Avrebbero dovuto farlo tanto più gli economisti, e a maggior ragione dovremmo farlo tutti oggi, visto che vi si aggiungono la cecità e la censura volute sui temi UE. Roba che arriva al ridicolo, se da quelle parti non si esita ancora a ricorrere al ritornello: "Ma la globalizzazione c'è anche senza l'euro": ma dài? O è idiozia o è complicità: non diamo troppo fastidio, magari l'elemosina ce la faranno ancora.
    Del resto l'analisi conferma che lo scenario dovrà essere questo e con ogni verosimiglianza lo sarà.

    Quanto alla demagogia della Lega, ascoltare Salvini quando dall'economia passa al suo lato nature e darla per assodata è tutt'uno, ahimé.

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  4. Salve dottor Cesaratto,
    Il suo articolo è di grande interesse, e risponde a domande che molti cittadini si pongono in continuazione.
    Mi chiedevo se fosse possibile contattarle in privato. Distinti saluti,
    Marco Moroldo

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  5. Personalmente voterò Lega. Giusto perché il mainstream sembra esserne terrorizzato. Per ora PD delendum est, poi vedremo...

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    1. Vedremo questo.

      A me sta benissimo distruggere il PD, figuriamoci, ma per distruggere le sue politiche, quelle sul lavoro a maggior ragione.
      Non credo sia un partito minimamente riformabile, fosse pure in seguito alla peggiore batosta elettorale. Con ogni evidenza tutta la sinistra elettoralmente rappresentativa ha rinunciato a difendere gli interessi dei ceti bassi.

      Dare una lezione al PD tanto per dargliela e poi non smontare il peggio della sua legislazione non significa distruggere quelle politiche, purtroppo.

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