Ripubblico dal mio blog su Micromega (il manifesto non l'ha pubblicato)
La sinistra non abdichi alle proprie
responsabilità
Sergio Cesaratto
L’intervista ad
Anna Falcone di alcuni giorni fa su il
manifesto (29/9/17) suscita alcune perplessità relative a una concezione
della politica che sta prendendo piede anche a sinistra. Per cominciare rende
perplessi il metodo scelto per arrivare a un programma: oltre cento assemblee
ciascuna su “uno o più temi” che produce un “report con le soluzioni ai
problemi scelti” fra i quali “la tutela del lavoro, la riconversione
energetica, l’intervento dello stato nell’economia, la pace, l’immigrazione, la
lotta al terrorismo”. A quel punto “gli utenti registrati sceglieranno, quelle
che avranno maggiore consenso entreranno nel programma”. In sintesi assemblee magari
di poche ore dovrebbero produrre “soluzioni” a problemi epocali successivamente
selezionate on line da una platea più ampia. Un ironico compagno l’ha definita
su FB più una ricerca di mercato consona alla Casaleggio & associati che un
percorso politico.
Il percorso annunciato è infatti l’abdicazione della politica
intesa come selezione degli obiettivi e orientamento di lotte e progettualità. La
politica consulta dialetticamente la piazza e gli intellettuali, ma non scaturisce
né dall'una né dagli altri. Peraltro nel disegno che emerge dall'intervista gli
intellettuali non sono neppure contemplati, e difficilmente un loro ruolo è
prefigurabile nella cacofonia di “cento assemblee”. Temiamo che questa rinuncia
della politica al suo ruolo di guida in un rapporto dialettico con militanti e
intellettuali, sia frutto di una fuga dalle responsabilità del ceto dirigente
della “sinistra” a fronte delle gravi scelte che il momento storico impone al
nostro Paese e dunque alla politica. Prima di esplicitare questo punto, è
importante denunciare il frequente abbaglio a sinistra fra obiettivi, e
strumenti di lotta e progettuali per arrivarvi. Evitiamo intanto la parola
programma, che sa di tecnocratico, parliamo di proposta politica. Questa non
consiste di un mero elenco di obiettivi, in particolare sul lavoro, su cui sono
almeno a chiacchiere d’accordo tutti, dal PD alla Meloni passando per Di Maio.
Certo a sinistra l’obiettivo della piena occupazione – termine meno generico e
più impegnativo di “lavoro” - si associa anche a diritti e stato sociale. Ma
ciò che fa la vera differenza è la proposta su come realizzare questi
obiettivi. E qui ci si scontra con i nodi politici, e in particolare con quello
europeo. Credo che sia ormai accresciuta la consapevolezza che poche o nulle
siano le speranze di raddrizzare il progetto europeo in un senso minimamente
progressista. Anzi, gli osservatori più avvertiti come Giorgio La Malfa o Carlo
Bastasin denunciano come la tenaglia franco-tedesca associata a una BCE
post-Draghi potrà presto stringersi sulle nostre finanze pubbliche, gettandoci
di nuovo nell’incubo dello spread e di una rinnovata feroce austerità. Allora
si deve scegliere fra l’essere la costola di sinistra di un redidivo montismo,
magari guidato da Enrico Letta e non da Renzi (troppo indisciplinato per gli
europei), oppure pensare alla possibilità di opzioni radicali, molto radicali, delle
quali nessuno sottovaluta la gravità. Con la prima scelta non ci si illuda che
spostando qui e là qualche risorsa si riporti il Paese su un sentiero di
giustizia e sviluppo. Il crollo ulteriore della domanda interna ne segnerà il
destino infausto. E’ su queste scelte che si devono chiamare le assemblee a
decidere, senza distrarle con temi che non riguardino il futuro di questo Paese
e del suo popolo. Questo dovrebbe fare una politica che non abdichi alle proprie
responsabilità, cominciando a farlo con la sua gente e i suoi intellettuali per
poi presentarsi con idee chiare e forti all’esterno.
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