Manovra, Europa, crisi internazionale: intervista a Sergio Cesaratto
Intervista a Sergio
Cesaratto, Professore ordinario di Economia internazionale, di Politica
monetaria e fiscale nell’Unione Monetaria Europea, a cura della
redazione di ComINFO, su manovra, europa e crisi internazionale.
In queste settimane è in elaborazione e discussione la
manovra finanziaria 2017, una manovra che si preannuncia in continuità
con le politiche di liberiste volte alla tutela delle imprese attraverso
le decontribuzioni e la riduzione della tassazione sui profitti. Qual è
il suo punto di vista?
Non ho francamente molto da dire sulla
Legge Finanziaria che se non propone tagli massicci per non mortificare
una ripresa già anemica, neppure si proietta a incentivarla. Il sostegno
all’occupazione a tempo indeterminato aiuta sì questo tipo di
contratti, come si è visto nel 2015-16, ma cosa accadrà poi al termine
della decontribuzione? Si pongono poi discrimini per età che sono
francamente ingiusti: come se avere 36 anni fosse meglio di averne 35, e
35 meglio di 29.
Van bene i sostegni a favore
dell’innovazione – la sinistra non deve opporsi al progresso tecnologico
– ma che si monitori l’uso del fondi. A fronte del mantenimento del
ridicolo bonus ai diciottenni o al sostegno ai vivai calcistici si
lesina nelle assunzioni nella ricerca ( e si perpetua una ingiustizia
verso i professori universitari). La conferma del prolungamento dell’età
lavorativa a età avanzate (67 anni lo sono) è una vera tortura per chi
aveva l’aspettativa di un po’ di anni di riposo in salute. Mai
dimenticare che l’alto peso del sistema pensionistico sul Pil in Italia
dipende dalla debole base occupazionale, non tanto (o non solo)
dall’invecchiamento. E ci sono milioni di giovani italiani a spasso. E
certo che non fanno figli!
Il contesto europeo è ahinoi un po’
questo, e gli spazi di politica fiscale limitati. Nel futuro potrebbe
andar peggio se il nuovo governo tedesco riuscisse a fare la voce grossa
a Bruxelles sul rigore fiscale. O forse non la farà perché ci
getterebbero nel baratro. Continueranno a farci campare alla giornata. E
non sappiamo come sarà la nuova BCE a guida tedesca. Certo i tassi
saliranno, e con essi il costo del debito pubblico.
A fine anno, in un silenzio
politico e mediatico totale, il Parlamento sarà chiamato alla ratifica
del Fiscal Compact, il trattato fiscale che ha assunto una natura
persino simbolica delle politiche di austerity della UE contro la
sovranità economica e politica degli Stati. Intanto, la UE si prepara ad
un consolidamento politico e giuridico delle asimmetrie economiche su
cui si fonda: la cosiddetta “Europa a due velocità”. Qual è il progetto
a cui tendono le classi dominanti europee ed, in particolare, quella
egemone, cioè quella tedesca?
Secondo molti l’iscrizione del fiscal
compact nei Trattati non cambierebbe molto. In effetti la legislazione
fiscale europea è una giungla che come docente di economia europea trovo
difficile a districare. L’ennesimo esempio dell’anti-demoraticità
dell’Europa: questa risulta incomprensibile al semplice cittadino. I
medesimi vincoli fiscali sono dunque ripetuti da più parti in varie
salse, per cui una volta di più una meno… Dovremmo naturalmente
approfondire, ma la sinistra è occupata, come è ben noto, in chiacchiere
elettoralistiche o nell’assemblearismo alla Falcone&Montanari con
gli over 60. Circa l’Europa a due velocità non si è mai ben capito di
cosa consista. Una rafforzata alleanza franco-tedesca? Chi comanderebbe è
chiaro. Oppure un gruppo di testa con una rafforzata governance tedesca? E l’Italia dove la vorranno collocare?
I progetti tedeschi di riforma
dell’eurozona sono nella direzione di una definitiva sottrazione di
sovranità fiscale ai paesi membri, in cambio di briciole come una
parvenza di sussidi di disoccupazione europei (proposta invero francese)
e di assicurazione sui depositi bancari sotto i 100 mila euro (in
cambio le banche italiane dovrebbero rapidamente ricapitalizzarsi per
tener conto dei crediti deteriorati che possiedono, un salasso per le
banche; e disfarsi dei titoli di Stato, un salasso per i titoli
pubblici). Ma i liberali tedeschi ora rifiutano persino questi piatti di
lenticchie offerti alla periferia. Probabilmente nei fatti la linea
dura dei liberali non prevarrà, ma serva questo da monito a chi a
sinistra vagheggia di più Europa. Se va bene l’Europa continua così.
Questi sinistresi sono persino meno realistici di Renzi.
Non so a cosa tenda la Germania, non
sono bravo negli scenari. Di certo i tedeschi si tengono stretto il
proprio modello. Sono un società ben organizzata e non vogliono
annacquarla con il vino di cattiva qualità del sud europeo. Se fossi in
loro farei lo stesso. E perché mai dovremmo aspettarci solidarietà.
Dovremmo piuttosto cominciare a badare a noi stessi. Di interessante c’è
che con la coalizione Jamaica, la Merkel distribuirà una mancia a
ciascuno dei partiti della compagine da spendere nel proprio bacino
elettorale (tutto il mondo è paese). Ma non basterà certo a far uscire
quel paese dalla austerità fiscale.
Nell’ambito del dibattito
scientifico ed economico internazionale, molti osservatori rimarcano il
rischio incombente di una nuova crisi finanziaria pronta ad esplodere,
un crisi incubata ancora negli USA, frutto – si sostiene – delle
politiche monetarie espansive e della mancata regolamentazione
finanziaria da più parti invocata dopo lo scoppio della crisi del
2007/2008. Quanto è concreto questo rischio?
Da come capisco Trump sta facendo marcia
indietro sul quel po’ di regolazione dei mercati finanziari che era
seguita alla crisi del 2007-8. D’altronde il capitalismo deve generare
domanda aggregata da qualche parte. Se non lo fa con elevati salari
diretti e indiretti (come nell’epoca keynesiana), o con le esportazioni
(come fa la Germania), lo deve fare con l’indebitamento delle famiglie
tramite credito al consumo, o con gli effetti ricchezza dalle bolle
borsistiche, o con il spesa militare. E’ il capitalismo, bellezza!
Questa non è stata né la prima né l’ultima crisi. A fronte di questo i
compiti della sinistra sono enormi. Ma l’occasione del centenario della
rivoluzione sta passando senza un minimo di riflessione. Sto tornando da
una bella cittadina tedesca. Qui il cinema comunale ha una mesata di
iniziative sull’anniversario. In Italia nulla, o quasi – di mio ho
organizzato un paio di presentazioni di libri al casale Alba 2 a Roma
con Giacché (5 novembre) e Rita di Leo (26 novembre). Eppure su un nuovo
modello di sviluppo si dovrebbe tornare a ragionare. Il socialismo si è
scontrato con molti problemi. Provo a citarne alcuni. Nel capitalismo
la mano invisibile di Adam Smith, cioè il sistema dei prezzi, svolge una
funzione di coordinamento delle decisioni di produzione, sebbene si sia
rivelato non in grado di assicurare la piena occupazione e l’assenza di
crisi. La pianificazione socialista è forse riuscita a evitare le crisi
e assicurare la piena occupazione, ma a costo dell’efficienza
economica. Come se ne esce? Possiamo andar oltre il modello
socialdemocratico nordico – il modello più di successo che conosciamo,
ma che non ha certo abolito il capitalismo? La piena occupazione, nel
capitalismo come nel socialismo porta al rifiuto del lavoro. La maggior
parte delle occupazioni sono alienanti (se non peggio). Se il posto di
lavoro è sicuro la gente non lavora. Come se ne esce? E, infine,
possiamo abolire le gerarchie? Assieme ai prezzi, le relazioni
gerarchiche sono un mezzo per gestire flussi complessi di informazioni, e
soffrono esse stesse di inefficienze. Nel capitalismo queste sono
tenute sotto controllo dal mercato (chi è inefficiente chiude), e nel
socialismo? Danno e beffa: gerarchie e per giunta inefficienti!
Controllo democratico, mi direte: ma anche questo è lento e
inefficiente. Su tutto questo si deve ragionare. Eppure è un dibattito
antico, che partì nel 1908 quando un economista italiano (un grande
marginalista), Enrico Barone, argomentò che il socialismo non poteva che
funzionare come imitazione burocratica del mercato capitalista. Hayek
argomentò più tardi che, allora, il mercato sarebbe stato più efficiente
dell’imitazione. E poi c’è il presunto socialismo cinese su cui
ragionare… Dov’è la sinistra?
"La piena occupazione, nel capitalismo come nel socialismo porta al rifiuto del lavoro. La maggior parte delle occupazioni sono alienanti (se non peggio). Se il posto di lavoro è sicuro la gente non lavora. Come se ne esce?"
RispondiEliminaBuongiorno Professore, potrebbero queste due idee essere come base di partenza della discussione nella sinistra?
a) Il turnover dei lavori più umili e più alienanti; tradotto nell'arco della vita lavorativa di ciascun individuo ognuno è tenuto, per un breve/medio periodo, a svolgere questi lavori prima di ascendere alle professioni più alte. Es, il medico, prima di fare il medico, per i primi anni della sua vita lavorativa fa l'infermiere, così come il magistrato, nei primi anni della sua vita farà i lavori d'ufficio al più basso livello, così come l'ingegnere civile nei suoi primi anni lavorativi farà il muratore, piuttosto che il saldatore e via così.I lavoratori costretti per tutta la vita a svolgere lavori umili e alienanti dovrebbero avere una vita lavorativa più corta e percepire stipendi più elevati a compensazione delle poche o nulle soddisfazioni nell'ambito lavorativo.
b) In piena occupazione la governabilità dei luoghi di lavoro diventa impossibile, una soluzione potrebbe essere la compartecipazione degli utili da parte dei lavoratori.