Pubblichiamo col permesso dell'autore un bell'articolo del prof. Roberto Artoni (originariamente in Riforma del capitalismo e democrazia economica, a cura di L. Pennacchi e R. Sanna, Ediesse 2015). Attualissimo il passo di Guido Carli citato all'inizio: “L’Unione europea implica la concezione dello “Stato
minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione
economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una
redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee
parlamentari e aumenti quelle dei governi”.
LE PRIVATIZZAZIONI E
L’ARRETRAMENTO DEL PERIMETRO PUBBLICO[1]
(Roberto Artoni)
Dopo
oltre venti anni non è inopportuno tentare un bilancio della politica di
privatizzazione seguita nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso. Si
devono cioè chiarire, sia pure in termini molto sintetici in questa sede, i
presupposti delle politiche allora intraprese, individuarne i limiti e
delinearne gli effetti che si sono progressivamente manifestati.
PRESUPPOSTI
All’origine
della drastica riduzione della presenza pubblica nell’economia si può collocare
una lettura per così dire strutturale degli effetti del progressivo
rafforzamento dell’Unione europea: questo rafforzamento trovava o doveva
trovare espressione nella creazione del Mercato unico, che sanciva la libertà
di movimento di merci, lavoro e capitali, oltre al perseguimento di un
generalizzato contesto concorrenziale. Un’espressione esemplare degli effetti
che l’Unione europea avrebbe prodotto sull’economia italiana si ritrova in un
intervento di Guido Carli: “L’Unione europea implica la concezione dello “Stato
minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione
economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una
redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee
parlamentari e aumenti quelle dei governi”[2].
Riportandoci al contesto culturale e politico dell’epoca, sembra di capire che
l’Unione europea, pur costituita da molti stati con strutture economiche e
sociali molto diverse, dovesse, di fatto, adottare nella sua generalità le
politiche seguite dal governo conservatore del Regno Unito nel corso degli anni
‘80.
La
rapida adozione di una rivoluzione economica nel senso auspicato da Carli
richiedeva peraltro che il processo fosse innescato da una causa esogena,
evitando le lentezze e le inevitabili cautele che sarebbero state connesse a un
graduale aggiustamento delle nostre strutture economiche alla nuova realtà
europea. La causa esogena, e dirompente, fu la crisi valutaria del 1992 che manifestatasi
in primo luogo nel Regno Unito, si diffuse i numerosi paesi europei,
travolgendo anche l’Italia costretta a svalutare pesantemente.
Interpretazioni
autorevoli sottolineano l’inevitabilità della crisi che investì l’Italia,
attribuendone l’origine non alla profonda instabilità del sistema finanziario
internazionale ed europeo, ma alle dissennate politiche economiche e sociali
seguite nel precedente ventennio in Italia[3].
Probabilmente
un’analisi, sine ira ac studio, della
vicenda economica italiana nel corso degli anni ’80 deve ancora essere scritta[4].
In quest’analisi dovrebbero essere adeguatamente sottolineati i nessi fra
evoluzione economica e competizione politica, tutta tesa, soprattutto nei primi
anni del decennio, a ridimensionare il ruolo di forze politiche e sindacali di
sinistra. Gli effetti possono essere sintetizzati sotto tre punti, integrati da
due corollari: adozione di politiche economiche pericolosamente espansioniste
negli anni successivi alla seconda cisi petrolifera, ritardo nel varo di
provvedimenti di riequilibrio della finanza pubblica che il buon andamento
economico avrebbe reso possibile e continuazione di una politica
svalutazionistica nei confronti delle altre valute europee, necessariamente
associata a una maggiore inflazione interna. A ciò si deve aggiungere che,
negli anni successivi all’introduzione della piena liberalizzazione dei
movimenti di capitale, la politica di elevatissimi tassi d’interesse seguita
dalla Banca d’Italia (intesa anche come strumento che costituisse un freno delle
decisioni parlamentari in materia di finanza pubblica) favorì un forte afflusso
di capitali a breve per loro natura volatili, senza peraltro scoraggiare il
deflusso di capitali privati verso l’estero. Nel corso degli anni ’80 si manifestò
poi un grande apprezzamento per le capacità innovative delle grandi imprese
italiane che sembravano essere capaci di operare con efficacia sui mercati
internazionali anche in settori tecnologicamente avanzati.
Le precedenti
considerazioni possono essere ulteriormente rafforzate da alcuni dati. Il tasso
di sviluppo dell’economia italiana era stato nel corso del decennio ’80 superiore
a quello degli altri paesi europei. La bilancia commerciale era stata in sostanziale
equilibrio, se depurata dalle ricorrenti componenti speculative. Il saldo primario
del conto delle pubbliche amministrazioni era tornato attivo nel 1990, con un consistente
miglioramento rispetto al disavanzo di quattro punti in termini di prodotto
interno del 1985; la quota di profitti sul valore aggiunto, secondo quanto
scrive Rossi, raggiunse il massimo nel 1988 Rimaneva il punto dolente della fragilità
della struttura finanziaria, che si manifestò pienamente nel 1992, quando i
capitali bancari nel timore di una svalutazione della lira, peraltro confermata
dagli eventi successivi, rientrarono nei loro paesi di origine, aggiungendosi al
deflusso di capitali privati[5].
LA
RIVOLUZIONE DEL 1992
Qualunque
fosse la causa (sciagurati comportamenti interni o, più verosimilmente,
instabilità finanziaria internazionale), la crisi del 1992 fornì l’occasione
per una rivoluzione nella politica, non solo economica, del paese.
Sul
piano strettamente politico, le capacità dialettiche o di proposta delle forze
di sinistra, in alternativa ad una linea liberista di stampo thatcheriano,
furono totalmente e, a quel che sembra, definitivamente annullate; sul piano
economico furono adottati incisivi provvedimenti tendenti alla liberalizzazione
del mercato del lavoro e al ridimensionamento delle prestazioni sociali, oltre,
ed è il punto che qui interessa, alla decisione di smantellare la presenza pubblica
nel settore produttivo.
Entrando
nel tema specifico, deve essere sottolineato che il sistema delle
partecipazioni statali, rappresentato essenzialmente, ma non solo, dall’IRI,
doveva essere comunque oggetto di una rivisitazione, essendo per molti versi
superato il modello che ne aveva caratterizzato l‘attività nei decenni
successivi al dopoguerra. Sul piano programmatico un intervento del 1988 Romano
Prodi affermava l’esigenza che l’IRI si concentrasse sui settori che sembravano
più significativi sul piano del progresso tecnologico e produttivo, per le
importanti esternalità che ne sarebbero derivate su tutto il sistema.
Ma
si ponevano allora problemi di più immediata urgenza. In quegli anni l’IRI doveva
in particolare affrontare la crisi della siderurgia, che assorbiva, in un
periodo di eccesso di capacità a livello globale, enormi risorse finanziarie,
in un quadro di paralisi decisionale che suscitava una viva ostilità degli
altri partner europei.
Vi
erano poi problemi di natura squisitamente giuridica derivanti dal fatto che lo
Stato azionista unico diventava illimitatamente responsabile delle perdite
delle imprese controllate, introducendo per questa via potenziali distorsioni
alla concorrenza.
Si
manifestò infine un progressivo restringimento dell’intervento finanziario
pubblico sotto forma di conferimenti ai fondi di dotazione o di garanzie sui
debiti, che, in presenza di programmi d’investimento impostati nel corso degli
anni ’80, rendeva sempre più affannoso l’accesso a forme di finanziamento
appropriate. Di fatto, all’inizio degli anni ’80 la situazione finanziaria
appariva deteriorata, anche se le vicende successive, e nonostante
privatizzazioni effettuate a prezzi certamente non onerosi per l’acquirente,
dimostrarono che all’esito della privatizzazione l’IRI non era un gruppo
decotto.
In
questo contesto certamente difficile, ma che forse non era giunto a un punto d’irreversibile
drammaticità, due vie potevano essere seguite: una via liquidatoria, in cui le
considerazioni di natura finanziaria erano del tutto dominanti, e una via
riformatrice, ispirata dal Ministro Guarino, che riconoscesse il ruolo che la
politica industriale in senso lato doveva comunque avere nelle vicende economiche
di un paese non piccolo, quale l’Italia, e adeguasse la presenza pubblica alle
mutate circostanze.
Di
fatto prevalse l’ipotesi liquidatoria, senza che quella alternativa fosse
seriamente analizzata. A favore dell’adesione incondizionata all‘ipotesi
liquidatoria giocarono molti fattori. In primo luogo non si ritenne, com’è
esplicito nella precedente citazione di Carli, più praticabile il modello
dell’economia mista. L’esperienza delle privatizzazioni del Regno Unito era
considerata un grande successo, non solo per il ridimensionamento del ruolo
dello stato nell’economia, ma anche per i due corollari che ne discendevano: il
forte ridimensionamento del potere sindacale e il potenziamento dei mercati
borsistici associato, là dove fossero state create public companies, alla
diffusione della proprietà azionaria.
Ma
la scelta di un radicale processo di privatizzazione fu anche determinata dal
panico determinato dalla crisi valutaria del 1992 e dalla pressione che il
mondo finanziario internazionale, anche attraverso gli organi europei, esercitò
sui nostri governi. Il nostro sistema finanziario era giudicato fragile e
soprattutto pericoloso per gli intermediari internazionali che avevano una
posizione creditoria nei confronti del nostro paese. Le vicende dell’Efim attorno
al 1990, con le incertezze che si manifestarono in relazione all’esistenza o
meno di una garanzia statale sui debiti contratti da questo ente, non
contribuirono certamente al rafforzamento della posizione italiana nei
confronti della Commissione europea, quando si affrontò, nel clima concitato
successivo alla crisi valutaria, la questione dell’indebitamento dell’IRI,
giudicato eccessivo e di dubbia sostenibilità nel lungo periodo.
Di
fatto, i negoziati condotti dal commissario Van Miert e dal Ministro Andreatta
condussero a un accordo, che imponeva una drastica riduzione dell’indebitamento
dell’IRI nel giro di quattro anni. S’individuarono le imprese immediatamente
vendibili, quali banche, imprese alimentari e di costruzione, che furono,
infatti, rapidamente cedute, mi pare di capire a condizioni certamente non
penalizzanti per l’acquirente. Si creò poi una categoria d’imprese cedibili
solo dopo un processo di ristrutturazione (cantieristica e trasporti) che sono
rimaste poi, con l’eccezione di Alitalia, nel perimetro pubblico. In questa
categoria rientravano anche le imprese siderurgiche che furono attribuite senza
particolari oneri a operatori privati, peraltro poco prima dell’inizio di un
periodo particolarmente favorevole per i produttori di acciaio. La terza
categoria era costituita dalle imprese operanti in regime di tendenziale
monopolio naturale, quali telecomunicazioni e autostrade, per le quali si
subordinava la cessione alla creazione di adeguate forme di regolamentazione.
La difficoltà di trovare compratori con le caratteristiche idonee, associate
all’incertezza relativa all’individuazione del nucleo di controllo delle
imprese in via di privatizzazione, ritardò la cessione di queste imprese
rispetto a quanto previsto dall’accordo Andreatta – Van Miert, imponendo un
passaggio delle quote azionarie di Telecom al ministero del Tesoro. Il processo
di cessione di queste imprese, che dal punto di vista degli introiti
costituirono la componente più importante, si compì negli ultimi anni del
secolo scorso. Infine, furono individuate imprese per le quali il controllo
doveva rimanere in capo allo Stato, ma per le quali si prevedevano cessioni
parziali di quote azionarie. Finmeccanica, Eni ed Enel erano appunto le imprese
non totalmente privatizzabili per ragioni di sicurezza nazionale, anche se è
intenzione del Governo attualmente in carica di procedere a ulteriori cessioni
di quote. L’esito emblematico del processo di privatizzazione è costituita
dalla liquidazione dell’IRI avvenuta nel 2002.
Abbiamo
già accennato al fatto che in alternativa all’ipotesi liquidatoria si sarebbe
potuta perseguire una via alternativa che avrebbe garantito una revisione più
cauta della presenza pubblica nel settore manifatturiero, garantendo una certa
continuità nella politica lato sensu industriale perseguita nel nostro paese
dagli albori dell’unità d’Italia. Questa politica ha registrato un notevole successo,
se si guarda al progressivo avvicinamento dei nostri standard di vita a quelli
dei maggiori paesi europei. Si è parlato a questo riguardo d’industrializzazione
guidata dall’alto, o se preferisce, di un’economia mista che ha saputo superare
con successo notevoli difficoltà, scontrandosi nell’ultimo periodo con
l’ostacolo difficilmente superabile dell’arretratezza del Mezzogiorno. Se si
vuole, in termini estremamente sintetici ma forse non inappropriati,
all’integrazione reale della nostra economia con le maggiori economie europea
perseguita lungo il XX secolo con il rafforzamento dell’apparato produttivo
attraverso il concorso di operatori privati e pubblici, si è optato alla fine
del secolo scorso per un inserimento finanziario rappresentato dalla nostra
adesione all’euro. Mi sembra di poter affermare che al contrario di quanto
avveniva in Italia, i più rappresentativi dei paesi europei continuavano, e
continuano, una politica molto attenta agli interessi nazionali sul piano produttivo,
oltre che su quello finanziario.
EFFETTI
Al
di là dell’orientamento alla sostituzione di un modello di economia mista con
uno essenzialmente privato, sostenuto da un vigoroso mercato borsistico, a
distanza di oltre venti anni ci possiamo chiedere quali sono stati i risultati
di questo cambiamento di orientamento dell’economia italiana.
Un
primo criterio di valutazione è costituito dall’andamento macroeconomico:
considerando le medie decennali, se fino agli anni ottanta il ritmo di sviluppo
dell’economia italiana era superiore a quello dei maggiori paesi
industrializzati, nel decennio successivo e ancora di più in questo secolo il
ritmo di crescita è fortemente rallentato collocandosi al livello più basso nel
confronto con gli stessi paesi. Non è evidentemente corretto stabilire nessi
causali fra privatizzazioni e insoddisfacente crescita, dovendosi piuttosto
fare riferimento al complesso delle politiche economiche poste in essere a
partire dal 92; rimane tuttavia il fatto che il mutamento delle strutture
proprietarie di importanti settori dell’economia nazionale non ha prodotto
effetti evidentemente positivi sul tasso di crescita del sistema, ragionando
sempre in termini relativi rispetto agli altri paesi.
Si è
assistito al contrario a un indebolimento strutturale del sistema economico
nazionale. Le grandi imprese private, che sembravano operare sulla frontiera
della competitività internazionale nel corso degli anni ottanta, persero
slancio fino a essere fortemente ridimensionate, o a scomparire in alcuni casi,
nel decennio successivo. In altri termini, queste imprese, su cui si faceva
affidamento per un esito progressivo del processo di processo di
privatizzazione non si rivelarono capaci di sostituire l’imprenditoria
pubblica, in difficoltà in alcuni settori, ma certamente efficace in altri. Tutto
ciò sta forse a dimostrare che l’assetto proprietario non è condizione
sufficiente per un duraturo successo, ma che altri fattori di competenza
pubblica sono necessari per garantire uno sviluppo duraturo.
A
cavallo dei due secoli si sono manifestati piuttosto, in alcuni settori
tecnologicamente avanzati, quali le telecomunicazioni, comportamenti definibili
come predatori che hanno indebolito le imprese operanti nel settore, annullando
in buona misura le esternalità positive che queste imprese creavano per
l’intera economia nazionale. In alcuni casi meccanismi di regolazione molto
deboli hanno compromesso il necessario adeguamento delle dotazioni
infrastrutturali, consentendo l’acquisizione di rendite probabilmente
ingiustificate da parte di operatori privati. In altri settori, quale quello
alimentare, la presenza di imprese straniere è diventata centrale, sia per
effetto delle privatizzazioni, sia per l’inadeguatezza dell’imprenditoria
privata. Ovviamente in un mondo economicamente integrato la presenza di imprese
straniere è in certa misura un fatto fisiologico; diventa pericolosa quando si
manifesta in una subordinazione delle realtà nazionali a quelle straniere per
tutto quello che riguarda le attività strategiche di un’impresa. Anche sotto quest’aspetto
si ha l’impressione che all’interno dell’Unione europea i comportamenti delle
nazioni più importanti sia stati meno permissivi di quanto non siano stati
quelli delle autorità italiane (che peraltro sono proseguiti anche in questi
ultimi anni).
Su
un piano più generale non si può non convenire con le osservazioni di Giuseppe
Berta: Il degrado dell’impresa pubblica, il ridimensionamento di alcune grandi
realtà industriali, la diminuzione del numero stesso delle grandi imprese non
potevano non portare a una restrizione complessiva della qualità del settore
manifatturiero, il quale non doveva più riacquistare lo smalto perduto fra la
ricostruzione e gli anni Settanta[6].
Nella
valutazione degli effetti delle privatizzazioni si deve infine fare un breve
accenno all’evoluzione del sistema finanziario, profondamente trasformato con
la privatizzazione delle banche di interesse nazionale, oltre che della BNL.
Con effetti molto significativi sono stati modificati anche gli assetti
proprietari delle Casse di Risparmio con la creazione delle fondazioni bancarie.
Anche in questo caso il modello era la banca universale di derivazione
anglosassone operante in un articolato mercato dei capitali. Questo modello è
stato posto in discussione dalle turbolenze finanziarie dei successivi venti
anni, pur essendo vero che le crisi finanziarie hanno toccato in modo marginale
il nostro sistema. Rimane il fatto che gli esiti non sono stati quelli attesi:
una rilevante concentrazione del sistema bancario nazionale con un ruolo
fondamentale giocato dalle fondazioni bancarie negli assetti proprietari delle
due maggiori banche, uno sviluppo comunque limitato dei mercati borsistici e
una forte presenza straniera nella gestione del risparmio nazionale, per larga
parte orientata ai mercati internazionali.
VALUTAZIONI
Trascorso
un congruo periodo di tempo, si può ragionevolmente affermare che le
privatizzazioni del settore finanziario, del comparto manifatturiero e di
quello dei servizi non hanno in larga misura corrisposto alle attese. Si
possono individuare alcuni motivi di fondo.
Il
peccato di origine sta forse in una certa ingenuità, culturale e teorica.
L’ingenuità culturale era stata soprattutto il frutto di una lettura acritica
dell’esperienza inglese. E’ certamente vero che nel Regno Unito erano stati
privatizzati i grandi servizi pubblici con l’obiettivo fondamentale di potenziare
le strutture finanziarie del paese, contribuendo alla creazione di un centro finanziario
mondiale. Ma al di là dei risultati strettamente operativi (nel lungo periodo
meno brillanti di quanto apparisse allora), la trasposizione di questo modello
in Italia, una realtà sociale ed economica profondamente diversa, non poteva
che portare a risultati sostanzialmente insoddisfacenti. In altri termini,
l’uscita dall’economia mista non poteva non essere accidentata, come in effetti
lo è stata.
L’ingenuità
culturale può essere colta anche da un altro punto di vista. Tutta la storia
d’Italia, ma questa considerazione vale in sostanza per tutti i paesi, è
impregnata da una guida, più o meno sagace nei diversi periodi, ma positiva nel
lungo periodo, di origine pubblica. Gli stessi operatori privati hanno potuto
prosperare sulla base di una rete infrastrutturale e di industrie di base
gestiti e sostenuti dall’azione pubblica. Si deve qui sottolineare che le
imprese pubbliche nel corso degli anni ’80 furono importanti investitori, con
un’attenzione concentrata nel Mezzogiorno d’Italia, svolgendo quindi una
funzione di supplenza di una più generale azione di politica economica e
sociale.
Pensare
che quest’azione potesse essere sostituita con l’attribuzione di così ampie
responsabilità a imprese private non sostenute da strutture finanziarie
adeguate è stata un’ulteriore manifestazione d’ingenuità. A ciò ha certamente
contribuito una lettura fondamentalmente distorta, come abbiamo tentato di
dimostrare, della situazione economica italiana, quale si era venuta
modificando nel corso degli anni ’80.
Tornando
su un punto esaminato in precedenza, è vero che le grandi imprese private
diedero significative prove di vitalità nel corso degli anni ’80, riscuotendo
un generale plauso. Questa vitalità sembrò svanire nel giro di pochi anni dopo
la crisi del 1992. Secondo alcuni questa vitalità era solo apparente, essendo
in sostanza frutto di una sorta d’illusione ottica, che non poteva, com’è
avvenuto, non svanire di fronte alle prime difficoltà. In un’altra
interpretazione, la vitalità, comunque riscontrabile, degli anni ’80 non era
solo il frutto delle capacità imprenditoriali private, più o meno solide, ma di
un contesto che, pur in un quadro economico perturbato, garantiva, anche
attraverso l’azione pubblica, crescita a tutto il sistema: di nuovo qui
dobbiamo fare riferimento allo sviluppo delle infrastrutture ad opera delle
imprese pubbliche o lo sviluppo della ricerca di base nel settore delle telecomunicazioni
sempre in ambito IRI. La soppressione di questi meccanismi di creazione di
benefici diffusi, oltre a un funzionamento del mercato del lavoro che
certamente non favoriva lo sviluppo della domanda interna, contribuirono a un
rallentamento della crescita del corso degli anni 90 fino alla contrazione
produttiva degli ultimi anni.
Ma
accanto a queste manifestazioni d’ingenuità, o di cattiva interpretazione della
realtà, nella vicenda delle privatizzazioni italiane ha giocato anche una
rilevante timidezza istituzionale nei confronti degli organi dell’Unione
europea. Come abbiamo già ricordato, alla fine degli anni ’80 la Commissione
adottò la tesi che tutti i conferimenti ad aziende pubbliche dovessero essere
considerati aiuti di Stato e quindi incompatibili con i principi ispiratori del
Mercato unico. Di fronte ad interpretazioni così restrittive un minimo di
fantasia istituzionale avrebbe consentito di evitare l’inaridimento delle fonti
di finanziamento fisiologico delle imprese a partecipazione statale, impegnate
come già osservato in importanti progetti di investimento. La crescita
dell’indebitamento negli anni precedenti il 1992 fu poi prodromica all’accordo
Andreatta- Van Miert che impose, com’è stato scritto, che si procedesse alla
privatizzazione dell’IRI a passo di carica.
Ma
forse, la critica più significativa della politica seguita riguarda il rifiuto
di ogni forma di indirizzo pubblico nella gestione dei processi produttivi. Quest’atteggiamento,
che non trova riscontro probabilmente in altri paesi (non in Germania, non in
Francia, nello stesso Regno Unito la centralità del sistema finanziario diventa,
e continua a esserlo, l’obiettivo centrale del governo). Il rifiuto
sostanzialmente sprezzante dell’ipotesi Guarino costituisce l’esempio più evidente.
Tutto
ciò sembra essere il frutto di una lettura molto libresca del funzionamento dei
meccanismi di mercato nei paesi più avanzati. Letture accurate recenti hanno a
mio giudizio compiutamente dimostrato che sia l’avvio, sia il sostegno di un
processo di sviluppo richiedono una consapevole azione pubblica, rendendo di
fatto irrilevante gli assetti proprietari, privati o pubblici. Al contrario, in
assenza di un orientamento pubblico, l’imprenditoria privata nei paesi non dominanti
su scala globale o su scala regionale, tende a inaridirsi, o scomparendo o
diventando oggetto di acquisizione da parte d’imprese straniere, con effetti certamente
subottimali.
In
conclusione, ci dobbiamo chiedere quali possono essere le prospettive in un paese
come l’Italia. Premesso che politiche appropriate sul piano distributivo sono
comunque necessarie per un buon andamento macroeconomico, la vicenda degli
ultimi venti anni ha dimostrato che è imprescindibile il ruolo dello stato
nella promozione dello sviluppo dei settori strategici, a prescindere dalla
natura pubblica o privata dei soggetti coinvolti. Al riguardo, si deve essere
consapevoli che il processo di depauperamento di capitale umano dovuto
all’assenza del nostro paese dai settori strategici produce alla lunga
risultati nefasti A livello nazionale devono essere in altri termini attivati e
potenziati tutti gli strumenti di intervento che una volta andavano sotto il
nome di politica industriale e di sostegno diretto e indiretto alla ricerca.
Esistono
peraltro anche molti problemi a livello sovranazionale che sembrano essere particolarmente
penalizzanti per un paese come l’Italia. A livello europeo, esiste un problema
di riequilibrio all’interno dell’Unione europea fra i diversi paesi (l’Unione
ricorda sotto certi aspetti La fattoria degli animali di Orwell). Nello stesso
tempo esiste un problema di rafforzamento istituzionale a fronte delle grandi
sfide indotte della globalizzazione. Qui basti ricordare che la globalizzazione
ha comportato la rilocalizzazione di molte produzioni manifatturiere, a
vantaggio delle classi imprenditoriali e degli intermediari finanziari dei
singoli paesi, ma con evidenti effetti di dumping sociale, a sua volta
incompatibile con un duraturo sviluppo. Inoltre, la liberalizzazione die movimenti
di capitale, a parte i benefici di breve periodo che può aver prodotto, ha
evidenti ricadute negative sotto il profilo sia politico, sia economico, se non
altro sotto il profilo fiscale. Si profila poi una tendenza al monopolio a
livello mondale sia nell’ambito dei servizi innovativi, legati alla ricerca e
alle applicazioni scientifiche, sia di quelli finanziari, gestiti dal paese dominante
al di fuori si ogni vincolo.
Non
si tratta dunque di tornare a un tempo passato ormai irripetibile (anche se con
troppa leggerezza cestinato), ma piuttosto di creare le condizioni perché anche
in ambito sovranazionale si possano ricostituire gli spazi nazionali per un significativo
processo di sviluppo.
[1]
Questa nota riflette, in un’interpretazione personale, i contributi dei saggi
contenuti in R. Artoni (a cura di), Storia dell’IRI, 4. Crisi e
privatizzazione, Roma-Bari, Laterza,2014, autori Barucci, Cavazzuti, Curli,
D’Antoni, Devillanova, Mariotti Mucchetti, Petrini,Ravazzi e Satta.
[2]
G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari. Laterza, 1993, citato da
R. Petrini. L’IRI nei tre anni fatali, in Artoni (2014) cit.
[3]
S.Rossi, La politica economica italiana 1968-2007, Roma-Bari, Laterza, 2008.
[4]
Spunti suggestivi si possono cogliere in G. Berta, La via del Nord, Bologna ,
il Mulino, 2015.
[5]
R. Artoni, Le interpretazioni del declino economico italiano in S.Pons,
A.Roccucci, F.Romero ( a cura di), L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a
oggi. Fine della Guerra fredda e
globalizzazione, Roma, Carocci editore, 2014.
[6]
G. Berta , La qualità dell’impresa in P.Ciocca, G.Toniolo (a cura di), Storia
Economica d’Italia. 3. Industrie, mercati, istituzioni, 1. Le strutture
dell’economia, Roma-Bari, Banca Intesa-Laterza, 2004, p.485,
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