Fabio Petri, Recensione
(intervento alla presentazione) del
libro “Rottamare Maastricht”, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L.
Paggi, A. Somma (Deriveapprodi), Roma, 27 ottobre 2016
Lo scopo del libro, dall’Introduzione
di Paggi, è aiutare ‘la costruzione di un movimento anti-Maastricht diverso da
quello populista’, sottrarre al populismo ‘il monopolio della critica della
situazione esistente’; combattere Maastricht come cultura, concezione del
mondo, proposta di civiltà; a tal fine aiutare a ‘trasformare la protesta
sociale in conflitto distributivo e in alternativa politica’, aiutare ‘la
costruzione di un movimento ancora inesistente’, per la qual cosa ‘occorre
mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo alternativa e di un
programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo concettuale, alcuni
punti di scorrimento verso un’Europa politica della crescita’.
Il libro non si spinge a proporre
esplicitamente questa filosofia di governo alternativa o programma (l’Introduzione
si limita a indicare il bisogno di più democrazia più salario più produttività,
ma senza entrare nel come raggiungere questi obiettivi); piuttosto fornisce
analisi preliminari per dimostrare la necessità di aprire il dibattito; tre
messaggi in particolare emergono dai cinque contributi.
Primo messaggio, che emerge dai
contributi di Paggi e Somma: la storia di come si arriva a Maastricht è storia
di abbandono, e tradimento, dell’idea originaria di una unione politica europea
collaborativa, unificante; Maastricht ha di fatto creato con la moneta unica un
ostacolo a tale obiettivo, perché
aumenta le differenze e i conflitti tra i paesi membri dell’euro, ponendoli in
concorrenza l’uno con l’altro. Il che è parte di un generale liberismo feroce:
gli ispiratori sono von Mises, Hayek, aggiungerei Ayn Rand (adorata da
Greenspan). Lo scopo centrale è la riduzione della democrazia, e la distruzione
del welfare
state ottenuto dalla popolazione europea dopo la seconda guerra mondiale. Paggi
riporta un passo eccezionale dai diari di Guido Carli, steso poco dopo la sua
firma del trattato di Maastricht (ne salto qualche frase per
brevità):
“L’Unione Europea implica la
concezione dello ‘Stato minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono
della programmazione economica, ... , una redistribuzione delle responsabilità
che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei
governi, l’autonomia impositiva degli enti locali [cioè niente solidarietà
nazionale, F.P.], il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente
riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala
mobile, ... , la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e
dell’industria, ... , l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto
da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi [dunque
non piena libertà ai mercati, ma solo quella compatibile con l’assenza di
inflazione, F.P.], l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi
amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a
favore di quest’ultimi.” Non era dunque difficile capire a cosa mirava Maastricht.
Somma aggiunge che la J
P Morgan in un documento del 2013 dice candidamente che
bisogna affossare le costituzioni europee progressiste generate, al crollo del
fascismo, dalla forza della sinistra, e cioè quelle sudeuropee, che tengono in elevata considerazione la tutela dei
diritti dei lavoratori e rispettano “il diritto di protestare nel caso in cui
si imprimano cambiamenti non condivisi dello status quo”.
Secondo messaggio, che emerge dai
contributi di Barba e D’Angelillo: una diversa interpretazione del ruolo dato dalla
classe dirigente tedesca alle esportazioni. Le esportazioni non bastano per la
crescita, fa notare Barba, perché non possono crescere a sufficiente velocità a
meno che non si basino su una crescente compressione salariale, che però riduce
la domanda e annulla l’aumento della domanda dovuto all’aumento delle
esportazioni.
“la crescita trainata dalle
esportazioni è una strategia mirante non alla crescita, quanto piuttosto a
consentire e preservare il mutamento distributivo avverso ai salariati. Si
tratta di una delle manifestazioni del
fatto che per i capitalisti è preferibile avere crescita frenata e una
posizione di forza sul piano della distribuzione, piuttosto che avere crescita
alta e accettare un più basso tasso di profitto”.
L’alta occupazione in Germania non
inganni, è largamente apparenza, per l’enorme importanza del lavoro part-time.
D’Angelillo aggiunge che non è che la Germania investa poco, è
che investe e compra all’estero, cioè il capitale
tedesco si espande molto di più del pil tedesco, e il surplus di bilancia
commerciale e l’afflusso di capitali aiutano; mentre la delocalizzazione riduce
il costo del
lavoro. Questo chiarisce meglio il perché del mercantilismo tedesco tanto sottolineato
da Cesaratto e altri.
La conclusione da trarne è che la Germania non è la
locomotiva dell’area euro ma ciò che la frena, al fine di impedire aumenti
salariali interni e di poter usare il suo vantaggio competitivo per espandere
il controllo del
suo capitale al di fuori dei suoi confini. Se l’Italia vuole più occupazione e
più crescita deve liberarsi di questo freno e aumentare la domanda (interna), e
ciò richiede di buttare a mare Maastricht, e forse anche l’euro (sul che
ritorno), che le impediscono una politica economica tesa a tale fine.
Terzo messaggio, con Lehndorff: è miope
prendersela solo con la
Germania, nessun governo si è opposto ai vari trattati,
nessuno si è opposto al principio antisolidaristico del no bail-out, nessuno si è opposto a come è stata trattata la Grecia: “una ‘coalizione
dei non volenterosi’ è tenuta insieme da un potente collante: il credo
condiviso secondo cui ‘non c’è un’alternativa’ all’approccio delle politiche
neoliberiste”. In Germania ci credono
particolarmente fanaticamente. Senza questo credo il sistema di Maastricht sarebbe molto
meno capace di resistere, sostiene Lehndorff.
Trovo questi tre messaggi del tutto convincenti.
Dal terzo, ricavo l’importanza di insistere sul fatto che invece l’alternativa
c’è. Questa alternativa consiste nel keynesismo ‘socialdemocratico’ degli anni
’50 e ’60, ben caratterizzato da un passo dell’americano Council of Economic
Advisors del 1965 (l’era Johnson), riportato a p. 60 del libro “La scomparsa
della sinistra in Europa” di Barba e Pivetti. Questo keynesismo è stato
sconfitto, a livello scientifico/accademico, dalle tesi liberiste e
ordoliberali sul funzionamento dei mercati, ma queste poggiano su una impostazione
teorica, quella neoclassica, incoerente a livello logico e smentita in modo
clamoroso dalla realtà, e che è riuscita ad affermarsi negli anni ’80 solo per
via della sua convenienza politica (a fronte delle agitazioni di sinistra della
fine anni ’60 e inizio anni ’70). A fronte delle palesi smentite fornite dalla
crisi del 2008, l’impostazione neoclassica
sopravvive per la paura a ammettere una visione meno apologetica del capitalismo (come
quella classica-keynesiana, ben altrimenti solida logicamente e empiricamente),
e per inerzia, perché è difficile uscire da un modo di vedere le cose
martellato nel cervello univocamente per decenni. Negli uffici studi delle
banche centrali, e in certi dipartimenti universitari, c’è qualcosa di simile
al fanatismo religioso nell’adesione a teorie palesemente smentite dalla
realtà, come che non vi è disoccupazione involontaria, che riduzioni della
spesa pubblica aumentano i consumi, che riduzioni dei salari aumentano
l’occupazione anche indipendentemente dagli effetti sulle esportazioni. Non
posso ovviamente dimostrarlo qui, ma vi sono argomenti teorici inoppugnabili
dimostranti che è falso:
- che il debito pubblico
sia sempre da evitare (Gran Bretagna anteguerra, Giappone)
- che la disoccupazione
non sia riducibile se non si vuole inflazione (neocorporatismo; Ray Fair)
- che la liberalizzazione del commercio
internazionale fa sempre bene (industrie nascenti)
- che politiche fiscali
espansive spiazzano gli investimenti
- che bisogna lasciare
piena libertà ai mercati finanzari (Keynes!)
- che è meglio che le
banche centrali siano indipendenti.
Inoltre l’evidenza empirica smentisce chiaramente
- che non si possono avere
controlli sui movimenti di capitali (Cina, Cipro, Islanda)
- che l’innovazione si può
lasciare ai privati (Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud: Mariana Mazzucato)
- che le privatizzazioni
aumentano sempre l’efficienza dell’economia (municipalizzate; ferrovie inglesi;
sistema sanitario statunitense).
Se non si inforcano i paraocchi delle
teorie economiche liberiste, appare chiaro che l’economia dei paesi avanzati ha
grande flessibilità, la produzione e l’occupazione si adeguano alla domanda
aggregata, l’investimento non ha bisogno di mercati finanziari ipersviluppati
ma solo di buone prospettive di vendite, l’intervento statale al fine di
stimolare la domanda aggregata è utile, l’inflazione si evita con accordi tra
le parti sociali e con la creazione di imprese pubbliche calmieratrici,
l’eventuale inefficienza delle imprese pubbliche si evita se lo si vuole. Insomma
un’alta occupazione non solo è desiderabile, è anche possibile.
Il politico non economista ha
ovviamente il problema, a chi credere. Se ha concluso che l’attuale ‘sistema di
Maastricht’ sta facendo solo male all’Europa e in particolare all’Italia, ne ricavi
stimolo a cercare di capire meglio chi ha ragione nel dibattito su come
funziona il mercato e quale spazio deve avere l’intervento statale. Sono
convinto che arriverà rapidamente a capire che l’impostazione
classica-keynesiana-kaleckiana è chiaramente quella che afferra come funzionano
le cose. Del resto, solo con programmi fondati
su una tale impostazione c’è qualche possibilità per una formazione politica di
ottenere l’appoggio del
lavoro dipendente che oggi vota Lega perché il PD fa politiche di austerità.
Senza un distacco radicale dalle politiche dell’austerità e dalle teorie che vi
stanno dietro, una formazione politica a sinistra del PD non ha senso. Il M5S deve prendere
posizione su questo, il suo capo mi sembra ne sappia troppo poco di macroeconomia
e evita troppo di discuterne. [Nota: gli altri relatori alla presentazione del libro erano Galli e
Fassina, parlamentari della Sinistra Italiana, e Marco Zanni, parlamentare
europeo M5S.]
Direi dunque che non ha senso fare
politica a sinistra del
PD se non si ritiene sbagliata l’impostazione teorica liberista e invece
corretta quella classica-keynesiana. Allora mi sembra che vi sia una battaglia
scientifica da fare, che è anche politica, e può avere frutti tanto più
importanti quanto più Lehndorff ha ragione. Credo possibile rompere la torre
d’avorio dei credenti nel liberismo, costringere gli ‘esperti’, gli accademici,
il pubblico colto, a confrontarsi con gli argomenti critici e la visione
alternativa. Bisogna organizzare una serie di incontri scientifici
politicamente sponsorizzati e approvati, in cui le teorie economiche dei
banchieri centrali o di uno Schauble vengano attaccate durissimamente come
frutto di dogmatismo e ignoranza, fino
all’irrisione. Se questi convegni saranno politicamente sponsorizzati e
approvati da una formazione politica di un qualche peso, sarà molto più
difficile ignorarli. Ne seguirà (se come fermamente credo le tesi
classico-keynesiane si mostreranno le più convincenti) un mutamento
dell’opinione pubblica.
Potendo, io sarei per licenziare tre
quarti degli ‘esperti’ che lavorano nelle banche centrali, e sottoporre gli
altri a duri corsi obbligatori di aggiornamento. Non potendolo fare, si deve
cercare di smontarne l’arroganza. Qualsiasi movimento politico che voglia
riconquistare una credibilità a sinistra deve farlo.
L’altra cosa che questo libro mostra
è che qualsiasi movimento politico che voglia riconquistare una credibilità a
sinistra deve affrontare molto seriamente, di nuovo sponsorizzando un dibattito
scientifico aperto, la questione di come modificare il ‘sistema di Maastricht’,
e cioè, vista l’enorme difficoltà a modificare i trattati (opposizione tedesca,
necessità dell’unanimità), la questione se uscire unilateralmente dall’euro. Su
questo il livello di rigore scientifico di chi cerca di dimostrare che l’uscita
sarebbe un disastro è sconcertante. Nessuno di costoro si misura con i lavori
che hanno sostenuto che certo l’uscita non sarebbe una passeggiata ma si può
fare: a cominciare dal lavoro (Bootle) che ha vinto nel 2012 il premio Wolfson
per il miglior studio su come uscire dall’euro, premio la cui commissione
giudicatrice era composta a maggioranza da economisti conservatori e liberisti
tra cui Giavazzi; il vincitore sosteneva appunto che uscire non è un disastro,
e che dopo un breve periodo di turbolenze la crescita riprenderebbe più veloce.
Contro i terroristi intellettuali che preconizzano svalutazioni del 50%, Bootle la prevede del 10%, e con un’inflazione al 7% per un
anno e poi in diminuzione. Alberto Bagnai riporta vari altri studi stranieri
che sostengono la stessa cosa, e la conferma con le proprie stime, che mi
sembrano serie. In Italia c’è anche stato il capitolo di Sergio Levrero nel
libro elettronico Oltre l’Austerità curato da Cesaratto e Pivetti. E
l’argomento che l’Italia da sola è troppo piccola dimentica la Corea del Sud, o
l’Australia.
Vi è forse una alternativa all’uscita
dall’euro se si vuole stimolare crescita e occupazione: violare Maastricht andando molto di più in deficit, e fregarsene
delle sanzioni, giacché queste saranno meno rilevanti dell’aumento delle
entrate dovuto all’aumento del
pil, se i soldi vengono spesi bene. L’argomento è semplice: l’austerità ha
fatto aumentare il rapporto
debito/pil, dunque l’abbandono dell’austerità lo farà diminuire! E i detentori stranieri di debito pubblico italiano, che
non sono stupidi, capirebbero che una spesa pubbica che stimoli il pil (e ovviamente anche, tramite politica
industriale ben fatta, stimoli l’investimento e l’innovazione, per cui la maggiore
crescita si annunci duratura) rende meno
probabile un default italiano, perché aumenta le entrate statali. Ma la BCE e Bruxelles non ce lo
lascerebbero fare a lungo. Non c’erano motivazioni di rischio di bancarotta che
giustificassero bloccare le banche nella crisi greca, ma lo hanno fatto, per
piegare Tsipras. (E in passato, come Paggi ricorda, hanno costretto Baffi a
dimettersi perché sollevava obiezioni alla moneta unica; e hanno costretto
Berlusconi, chissà con quali ricatti, a lasciare il governo a Monti.) Quindi in
un modo o nell’altro uno scontro duro ci sarà, se l’Italia non accetta tutto
quello che la BCE
vuole. In questo scontro duro non bisogna fare l’errore di Tsipras: non avere
un piano B consistente nell’essere pronti all’uscita. La minaccia di uscire è
l’unica cosa che può dare un potere contrattuale – e forse (io sospetto) uscire
è in ogni caso la cosa migliore da fare. Né bisogna rinunciare a discuterne
solo perché ora non sembra esservi un sufficiente sostegno popolare all’uscita.
Ciò che rende l’uscita poco popolare è la paura che questa causi inflazione che
intacchi pensioni e risparmi. Su questo c’è senza dubbio da lavorare per capire
come minimizzare questo rischio, in ogni caso molto meno grave di quanto si
tende a suggerire (Bootle, Bagnai). Una
formazione politica che voglia portare avanti la rottamazione di Maastricht deve stimolare,
o impegnarsi essa stessa in, seri studi su tutto ciò. Credo che potrebbe
trovare in Bagnai un utile riferimento per avviare questo lavoro.
(Fabio Petri è stato sino a due anni fa professore ordinario di Economia politica presso l'Università di Siena. E' uno dei più noti esperti internazionale di teoria del capitale. Continua a insegnare, su base volontaria, collaborando, fra l'altro, al corso di Post-keynesian Economics).
Nessun commento:
Posta un commento