Teorie economiche alternative: implicazioni per la politica economica
Fabio Petri
Docente di Economia
Politica presso l'Università degli Studi di Siena
26/01/1995
C'è da chiedersi innanzitutto
se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali
inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere
salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile
attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una
diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni
per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un'altra fa una
grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò
del problema del debito pubblico che è la questione di cui si
più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci
si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato
in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè
tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere
è che gli economisti non sono d'accordo su quale sia la migliore
descrizione di come funziona un'economia di mercato, e proprio
per questo non sono neppure d'accordo su quale siano le risposte
- in termini di scelte di politica economica - da dare alle domande
che ci siamo posti.
Vorrei tentare di individuare
la radice di fondo di questo disaccordo tra gli economisti. Tale
radice risiede fondamentalmente nelle differenze di impostazione
tra le due principali teorie economiche. Una di queste teorie
è quella che io chiamo classica
e che è quella di Adam Smith
, Ricardo
, di
Marx
- oggi integrata con l'apporto
di Keynes
- l'altra è quella che io chiamo marginalista anche se più spesso la si chiama neoclassica - che è quella oggi dominante nel mondo accademico. Il
mio intervento seguirà il seguente schema:
1. Quali sono le linee
fondamentali di queste due impostazioni teoriche ed in che cosa
differiscono nella struttura teorica.
2. Cercherò di dimostrare
come dalle differenze tra queste due impostazioni, emergano visioni
profondamente diverse della natura della società in cui viviamo.
3. Suggerirò che una
di queste due impostazioni, quella marginalista o neoclassica,
si sia rivelata scientificamente molto debole e quindi da scartare.
4. Cercherò di dimostrare
che le risposte più appropriate da dare ai problemi che ho indicato
- disoccupazione e debito pubblico- sono molto diverse di quelle
attualmente accreditate.
1. Le linee fondamentali della teoria classica e della teoria marginalista
Cominciamo dalle differenze
tra queste due impostazioni ponendoci questa domanda: come è spiegato
nelle due impostazioni il livello medio dei salari? Perché in
certi periodi esso aumenta ed in altri diminuisce?
La
scuola classica
Non
presupporrò quasi alcuna conoscenza da parte vostra di economia,
immagino però che tutti abbiate sentito parlare di Adam Smith
- filosofo e professore universitario della fine del Settecento
in Scozia - e di David Ricardo
- figlio di una famiglia
ebrea londinese,
diventato miliardario speculando sui cambi, il quale si ritirò
a vita privata e si occupò di economia politica per passione e
che fu anche parlamentare. La teoria di David Ricardo
venne a mio avviso travisata
e infine abbandonata, con la quasi sola eccezione di Karl Marx
, che la riprese nella seconda metà dell'Ottocento, quando già il pensiero
dominante si muoveva in un'altra direzione. Questa teoria fu poi
mantenuta in vita quasi esclusivamente da economisti marxisti,
i quali, per ragioni ideologiche, in pochi
trovarono spazio nelle università. Solo in tempi recenti
la si è ripresa, dopo l'impulso dato dalla rinascita del radicalismo
negli anni sessanta, ed anche ad opera di un notevolissimo economista
italiano che studiò a Cambridge, Piero Sraffa
.
Ebbene in Smith
, in Ricardo
, in
Marx
, troviamo sostanzialmente la stessa idea su che cosa determini il livello
dei salari. Si tratta di quella che Marx
avrebbe chiamato lotta
di classe, ma l'idea non è propriamente sua, la troviamo già
in Adam Smith
: ossia, per Marx
, ciò
che determina il livello medio dei salari è il rapporto
di forza tra la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori,
che è in genere nettamente favorevole ai primi tranne che nei
periodi di scarsità di manodopera, dovuti alle epidemie che decimavano
i lavoratori, o generati da momenti di rapida crescita economica.
Ma al di fuori di tali contingenze i capitalisti sono sufficientemente
forti da mantenere
il salario molto vicino ai livelli più bassi. Adam Smith
lo definisce come il livello
"compatibile con il
comune sentimento di umanità". Questa idea del comune
sentimento di umanità è un'idea interessante, su cui torneremo.
In genere,
nella cultura comune della sinistra - in tutto il mondo
- si pensa che questi siano concetti elaborati da Marx
, mentre
in realtà Marx
non faceva che riprendere,
approfondire e dire in termini più chiari quanto già era stato
detto prima di lui. Con la differenza che Marx
disse queste cose in un'epoca
in cui il conflitto tra operai e capitalisti era ormai diventato
aperto. Adam Smith
, alla fine del settecento, quasi un secolo prima di Marx
si esprime in modo chiarissimo:
"Quale sia il salario ordinario, dipende ovunque da
un contratto normalmente stipulato tra lavoratori salariati e
datori di lavoro, i cui interessi non sono affatto gli stessi.
I primi sono disposti a intese al fine di fare aumentare i salari,
i secondi al fine di farli abbassare. I lavoratori desiderano
ottenere il più possibile, i datori di lavoro dare il meno possibile.
In ogni caso non è difficile prevedere quale delle due parti sia
normalmente avvantaggiata nella disputa, e sia quindi in grado
di imporre all'altra parte i propri termini contrattuali. I datori
di lavoro, essendo in minor numero possono accordarsi più facilmente;
la legge - era palesemente così all'epoca di Smith
- agevola o non ostacola il perseguimento dei loro interessi,
mentre ciò non accade per i lavoratori. Ma soprattutto, in questo
conflitto, i datori di lavoro possono resistere molto più a lungo.
Un proprietario, un industriale, un mercante, potrebbe
generalmente vivere anche per un anno o due senza impiegare
alcun lavoratore, consumando il capitale accumulato. Al contrario,
senza impiego molti lavoratori non potrebbero resistere neppure
una settimana, pochi resisterebbero per un mese, quasi nessuno
per un anno".
Nella descrizione di
Smith
i datori di lavoro sono sempre
e ovunque una "casta" caratterizzata
da "una tacita,
ma costante, uniforme intesa a non aumentare i salari al di sopra
del loro saggio corrente. Violare questa intesa, ovunque è un'azione
assai impopolare", che solleva critiche da parte
degli altri imprenditori. Ai datori di lavoro si oppongono, nella
coalizione contraria, i
lavoratori. "I loro interessi abituali sono talvolta l'alto prezzo dei viveri,
talvolta i grandi profitti che i datori ottengono dal loro lavoro".
I lavoratori descritti da Smith
nel cercare un intesa migliore
fanno sempre molto chiasso. "Per
raggiungere una decisione sollecita essi ricorrono a metodi sempre
più spregiudicati e talvolta alla violenza e all'oltraggio. Essi
sono disperati e agiscono con la sconsideratezza dei disperati
destinati o a morire di fame, o a spaventare i loro datori di
lavoro affinché soddisfino immediatamente le loro richieste. In
queste occasioni però, i datori di lavoro, dal canto loro, non sono meno chiassosi e non cessano
di domandare ad alta voce l'assistenza della magistratura e l'applicazione
rigorosa di quelle leggi che sono state promulgate con grande
severità contro le coalizioni dei servitori lavoranti giornalieri.
Per cui assai raramente i lavoratori traggono vantaggio dalla
violenza di queste tumultuose coalizioni che, per l'intervento
della magistratura, o per la maggior fermezza dei datori di lavoro,
o ancora per la necessità della maggioranza dei lavoratori di
sottomettersi per non perdere la loro fonte di sussistenza, generalmente
finiscono con la punizione o la rovina dei loro capi".
Si capisce allora come
venisse spontaneo a qualsiasi lucido osservatore dell'epoca, ammettere
che i salari erano determinati da quella che Marx
da un lato e Smith
- che non era certo un socialista
né tanto meno un comunista rivoluzionario - dall'altro, avrebbero
chiamato lotta di classe. Tale lotta di classe era ovviamente
determinata dalla
disoccupazione, dalla fermezza dell'appoggio dello Stato ai datori
di lavoro e, soprattutto, dal livello dei consumi, quale ormai
era considerato indispensabile dalla consuetudine, come compatibile
con il comune sentimento
di umanità.
La situazione era molto
simile a quella dei servi della gleba nel feudalesimo, quando
i signori feudali riuscivano a ottenere un reddito positivo, ottenuto
dai versamenti da parte dei servi della gleba, dal prodotto sui
loro campi, o dalle corvée che i servi effettuavano sui campi
del signore. La domanda che bisogna porsi è: perché i servi della
gleba accettavano di rinunciare a una parte di ciò che avrebbero
dovuto avere di diritto? La risposta è semplice: perché i signori
feudali erano l'anello forte della catena sociale, era loro il
controllo delle terre. Essi avevano i soldati per far rispettare
il loro controllo sulle terre, perciò potevano imporre ai servi
della gleba di lavorare e a questi ultimi non rimaneva, evidentemente,
altra scelta se non cedere, per non morire di fame. Questo spiega
perché vennero promulgate leggi che vietavano di fuggire nelle
città da un lato, e dall'altro l'indebolimento del sistema feudale
in seguito allo sviluppo delle città. Ma finché i signori mantennero
ben saldo il monopolio della possibilità di lavorare, essi poterono
pretendere parte del prodotto dai servi della gleba, o parte del
loro tempo di lavoro.
Nel fare un'analisi
della storia del feudalesimo, si è anche descritto
un ciclo che potremmo definire politico, in cui i signori
feudali aumentano sempre più le loro pretese, le loro esazioni,
chiedono corvée sempre più lunghe, elevano le gabelle su ponti
e strade, fino a quando i contadini, esasperati, esplodono. Per
lo più le rivolte vengono facilmente soffocate nel sangue, ma
qualche volta i servi della gleba riescono a muoversi tutti insieme,
a marciare verso il castello e ad incendiarlo. A questo punto
gli altri signori si precipitano con le loro soldataglie dal feudatario
in difficoltà e per evitare che l'episodio si ripeta fanno molte
concessioni ai servi della gleba, la cui situazione migliora.
Così si esaurisce il ciclo, che si riapre quando i signori ricominciano
ad aumentare le esazioni, fino al successivo scoppio di ira popolare.
La situazione nel regime
capitalistico è, secondo Adamo Smith
, Ricardo
e Marx
, molto
simile. C'è un monopolio collettivo, detenuto dai capitalisti,
sulla possibilità di lavorare, poiché lavorare richiede il capitale
che i proletari non hanno, né esso gli viene anticipato dalle
banche, in quanto nullatenenti. I capitalisti allora offrono la
possibilità di lavorare, a patto che parte del prodotto resti
a loro come profitto.
Si capisce come in
una situazione del
genere ci sia una profonda indeterminatezza di quale debba essere
il livello del salario: i capitalisti vogliono abbassarlo il più
possibile, i lavoratori alzarlo il più possibile. Ma in ogni dato
momento c'è una storia passata che ha formato delle consuetudini.
In tutte le situazioni di indeterminatezza, è normale partire
dalle consuetudini. Esse permettono infatti di regolare la vita
senza che ogni giorno si debba ristabilire tutto da capo. Quando
poi da una delle due parti ci si accorge che i rapporti di forza
sono cambiati, si cerca di sostituire le vigenti consuetudini,
spingendo in un'altra direzione. E' assai difficile, tuttavia,
modificare le consuetudini, in quanto esse hanno un potere di
pressione fortissimo sui comportamenti sociali, anche nella società
odierna. I barboni, ad esempio, vivono con pochissimo, sono compagnie
sgradevoli per la gente comune, perché vivono in un modo molto
diverso dal nostro, perché il tipo di vita che fanno è notevolmente
deteriorato. Sono persone la cui vita è ormai incompatibile con
quella normale degli altri. Per questo la pressione sociale -
affinché la gente non dia fastidio agli altri e sia adattabile
ai modelli di vita dominanti - è un deterrente fortissimo. Tale
pressione sociale impone, con una forza impressionante, un livello
minimo di consumi, al di sotto del quale nessuno è disposto ad
andare. Proviamo a immaginare, per assurdo, che arrivi una
classe di invasori e imponga a tutti lo stile di vita dei barboni:
accadrebbe che la stragrande maggioranza della popolazione non
sarebbe disposta ad abbassare fino a quella soglia il proprio
stile di vita. Se per un barbone infatti il suo stato è il punto
di arrivo di un lento processo di degradazione, per la gente normale
un brusco abbassamento del tenore di vita è semplicemente insopportabile.
C'è un livello di consumi
al di sotto
del quale non vale la pena vivere, e per difendere il quale anzi
vale la pena mettere a repentaglio la propria vita.
La
scuola marginalista
Quella fin qui esposta
è l'idea degli economisti classici. Confrontiamola adesso con
l'altra, quella che abbiamo chiamato marginalista. La visione
è completamente diversa: l'idea è che ci siano una domanda
e un'offerta di lavoro [la domanda è quella espressa dalle
imprese che richiedono manodopera e l'offerta è quella dei lavoratori,
che offrono la propria forza lavoro, N.d.R.] e che la domanda di lavoro aumenti se i salari si abbassano.
Allora a determinare i salari
sarà il gioco della domanda e dell'offerta, ed infatti quando
c'è disoccupazione, se
i lavoratori non sono sciocchi, accetteranno che in una tale contingenza
i salari si abbassino: il risultato sarà che la domanda di lavoro
da parte delle imprese aumenterà.
Ora, l'idea comune
della concorrenza è: quando l'offerta di un bene è maggiore della
domanda, il prezzo si abbasserà, perché se chi offre non riesce
a vendere, pur di non restare con la merce invenduta accetterà
di piazzare il suo prodotto ad un prezzo più' basso. La teoria
marginalista, a questo
proposito, sostiene che se anche
i lavoratori accettassero di comportarsi in modo concorrenziale,
accettando quindi la caduta dei salari, finché permane la disoccupazione
- questo significa offerta di lavoro maggiore della domanda -
è necessario che il salario si abbassi ancora, cosicché la domanda
di lavoro da parte delle imprese possa aumentare e si arrivi,
per questa via, alla piena occupazione. Il livello a cui sarà
sceso il salario è il livello a cui le
forze di mercato tendono a spingere i salari. Ed è questo
che spiega il livello dei salari: perché esso aumenta? Perché
diminuisce? Quando diminuisce il livello dei salari? Semplicemente
quando aumenta l'offerta di lavoro. La crescente offerta di lavoro
da parte delle donne, ad esempio, fa ovviamente abbassare il livello
del salario, diversamente le imprese non avrebbero incentivi a
impiegare questa nuova forza lavoro. Questa è la teoria dominante,
quella che appare, a prima vista, la più plausibile.
Cerchiamo di capire
quale struttura teorica sorregge questa teoria. Si potrebbe, infatti,
ragionare in tutt'altro modo: supponiamo che ci sia
disoccupazione e che i lavoratori accettino di farsi concorrenza
e i salari si abbassino. Ma quando i salari si abbassano, quelli
che già lavoravano hanno meno soldi di prima, quindi comprano
meno beni e la domanda di beni che le imprese vendono diminuisce.
Esse vendono meno e cominciano a licenziare. Perciò se i salari
si abbassano non aumenta l'occupazione, ma al contrario diminuisce.
Allora quale di questi due ragionamenti è quello più solido?
Cerchiamo di capire
perché, quando il salario si abbassa, le imprese hanno convenienza
a impiegare più lavoratori. Per i sostenitori dell'idea marginalista
o neoclassica, la produzione non deriva solo dal lavoro, ma anche
dal capitale. Le imprese hanno infatti una certa quantità di capitale,
e quando con questa quantità di capitale vogliono impiegare più
lavoratori, ogni nuovo lavoratore
impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente
sempre minore per ogni lavoratore in più: e questo perché
con un dato impianto, con dati beni capitali, i lavoratori aggiuntisi
permetteranno di produrre cose via via meno utili (in una data
falegnameria con uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio
ad aumentare i lavoratori impiegati, il prodotto cresce, ma per
ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad
un certo punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà
più lavorare!).
Quale sarà allora il
ragionamento dell'impresa quando dovrà decidere quanti lavoratori
domandare? Confronterà quanto prodotto in più le verrebbe
dall'impiegare un nuovo lavoratore, con il costo che l'assunzione
di quest'ultimo comporta. Supponiamo che il centunesimo lavoratore
permetta all'impresa di produrre beni in più, e che tali beni
in più le diano un ricavo in più, dalla vendita, di un milione
e mezzo al mese. Il lavoratore costa - supponiamo - un milione
e duecentomila lire al mese: se l'impresa decide di assumerlo
avrà un milione e mezzo di ricavo, un milione e due di costo,
e trecentomila lire le
resteranno come profitto. Fatti questi calcoli il lavoratore viene
assunto. Stesso ragionamento verrà fatto per i successivi possibili
lavoratori che permetteranno ulteriori aumenti di prodotto (via
via sempre minori). Di conseguenza i ricavi in più saranno anch'essi
via via minori.
Per cui l'impresa continuerà
ad assumere fintanto che il ricavo ottenibile dalla maggiore produzione
ottenuta con nuovi lavoratori sarà superiore al costo per ogni
lavoratore in più. Questo meccanismo spiega il perché sia diffusa
l'idea che l'occupazione dipenda dal livello dei salari, ma ricordiamo
che stiamo ipotizzando un capitale dato, cioè degli impianti dati.
Se invece il capitale
impiegato aumenta, questo comporterà un aumento del prodotto ed
allora, probabilmente, anche gli ulteriori lavoratori contribuiranno
alla produzione in misura maggiore; a parità dei salari vi sarà
maggiore domanda di lavoratori da parte dell'impresa e, qualora
si fosse già in una situazione di piena occupazione, il salario
tenderà a salire. Quindi se aumenta l'offerta di lavoro il salario
si abbassa, mentre se aumenta il capitale impiegato il salario
tende ad innalzarsi.
Attenzione: non si
è ancora confutato l'altro modo di ragionare cui avevamo accennato,
in base al quale se i salari scendono i lavoratori comprano meno
beni, quindi le imprese venderanno meno e saranno costrette a
licenziare (per cui scendendo i salari l'occupazione diminuisce!).
Questo modo di ragionare
è confutato, dai marginalisti nel modo seguente.
Il ragionamento che
io ho fatto per il lavoro si può fare in modo esattamente simmetrico
per il capitale. Un impresa, in un dato momento, avrà sia una
certa quantità di capiate impiegato, che una certa quantità di
lavoro impiegato. Dunque l'impresa si può porre lo stesso problema
che abbiamo posto per i lavoratori anche per la quantità di capitale
da domandare: conviene impiegare più capitale? L'impresa farà
esattamente lo stesso tipo di ragionamento: se impiegasse un'unità
in più di capitale - diciamo un milione in più - per impiegare
ulteriori macchinari ecc., di quanto aumenterebbe il prodotto
e quindi il ricavo? Per calcolare in modo corretto bisogna tener
conto, però, anche del fatto che l'impresa dovrebbe indebitarsi per poter investire, quindi dovrebbe pagare un
interesse. Si dovrà dunque confrontare il ricavo in più con il
costo lordo del capitale (perché l'impresa dovrà restituire sia
il milione di capitale ottenuto a prestito che l'interesse). Ma
pur con questa piccola complicazione il ragionamento sarà esattamente
lo stesso che nel caso dei lavoratori.
Si metterà a confronto
il costo in più di ogni unità aggiuntiva di capitale con il ricavo
in più, e se quest'ultimo è superiore al costo in più, allora
conviene prendere a prestito quell'unità in più di capitale. Ed
anche qui l'idea è: dato l'impiego di lavoro, quanto più capitale
impiego tanto più aumenta il prodotto, ma via via di meno. Quindi
ci sarà un momento in cui il costo in più e il ricavo in più si
pareggiano e lì l'impresa si ferma. Ma se è così, non può mai
esserci problema a vendere tutto
ciò che si produce: infatti una parte di ciò che si produce verrà
domandato dai consumatori ed una parte dalle imprese, che la acquisteranno
come investimento. Ma quando le imprese fanno investimenti in
realtà stanno ampliando il loro capitale, e allora ciò vuol dire
che stanno decidendo di impiegare più capitale. Come abbiamo visto
le imprese decidono di impiegare più capitale quando il saggio
di interesse - che è il prezzo che devono pagare per il capitale
- si abbassa. In altre parole il saggio di interesse è il prezzo
che regola domanda e offerta di capitale: basta che il saggio
d'interesse sia determinato dalla concorrenza, per far sì che
le sue variazioni portino a far coincidere l'offerta di beni capitali
delle imprese con
la domanda.
Risulterà quindi che
il salario, sulla base della concorrenza, riesce a portare alla
piena occupazione il mercato del lavoro, ed il saggio di interesse,
sulla stessa base, riesce a garantire che tutti i beni non comprati
dai consumatori vengano comprati dalle imprese. Per questo, se
nel breve periodo può verificarsi che all'abbassarsi dei salari
i lavoratori comprino meno e quindi le imprese vendano meno, semplicemente
saranno le imprese a comprare di più sulla base della diminuzione
del saggio d'interesse. In ogni caso, essendosi abbassato il salario,
le imprese impiegano ulteriori lavoratori, aumentano la produzione,
e l'aumento della produzione in parte verrà comprato dai lavoratori
di nuova assunzione, mentre la differenza di nuovo dalle imprese,
purché si abbassi a sufficienza il saggio di interesse. Insomma
se i mercati concorrenziali vengono lasciati funzionare bene,
non c'è mai problema a vendere tutto quanto prodotto. E questa
è la teoria dominante nel mondo accademico.
Le implicazioni importanti
di questa teoria sono due: la prima è che se lasciamo funzionare
beni i mercati, questi porteranno alla piena occupazione - per
cui la disoccupazione che si osserva nella realtà è fondamentalmente
causata dai lavoratori ed in particolare dai sindacati, che bloccano
il meccanismo di mercato non lasciando abbassare il salario. Per
questo le imprese domandano solo il numero di lavoratori che rende
il costo del lavoro uguale a quel prodotto in più che gli economisti
chiamano prodotto marginale del lavoro. E poiché il potere dei
sindacati deriva da un riconoscimento del loro ruolo da parte
dei lavoratori, sono questi ultimi, in sintesi, i responsabili
della disoccupazione. La seconda conseguenza importante di questa
visione riguarda la remunerazione
che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al capitale come interessi: esse
corrispondono in realtà, in un senso molto profondo, ad un ideale
di giustizia.
Infatti pensiamo ad
un qualsiasi lavoratore: poiché come abbiamo visto, le imprese
domandano lavoro fino al punto in cui il ricavo in più è uguale
al costo in più, ciò vuol dire che il salario di questo qualsiasi
lavoratore è proprio uguale al prodotto in più che l'impresa perderebbe
se lo licenziasse. Quando l'impresa decide di impiegare quel lavoratore,
confronta il ricavo in più col costo in più. Allora se l'impresa
licenziasse il lavoratore essa perderebbe un ricavo in più proprio
pari al salario. Quindi ciò vuol dire che
il valore del salario è uguale al valore dei beni in più prodotti
da quel lavoratore. Quando reputiamo equo ciò che noi paghiamo
a qualcuno? Quando in qualche modo quello che noi paghiamo a qualcuno
corrisponde a ciò che questo qualcuno ha contribuito a darci.
Mettiamoci dal punto di vista della società: come facciamo a misurare
il contributo alla società di ciascun singolo lavoratore? Il contributo
che ciascun lavoratore dà alla società è esattamente ciò che la
società perderebbe se questo lavoratore decidesse di non lavorare
più, e cioè proprio quel prodotto in più attribuibile all'ultimo
lavoratore. E quanto riceve il lavoratore come salario? Il valore
di quel prodotto in più. Tanto dà e tanto riceve. C'è una
corrispondenza perfetta tra contributo alla società e paga al
lavoro.
Ora, si può dimostrare
- e ci arrivate già intuitivamente sulla base del ragionamento
fatto prima - che lo stesso deve valere anche per il capitale.
Abbiamo detto che le imprese decidono anche quanto capitale impiegare
con lo stesso ragionamento; e impiegano capitale fino al punto
in cui il ricavo in più dell'ultima unità di capitale è pari al
costo in più. Ma ciò significa che anche
il saggio d'interesse riflette proprio il contributo di ciascuna
unità di capitale, cioè anche l'interesse risponde a giustizia.
Voi potreste dire: "un attimo, il
lavoratore fatica, soffre per lavorare, mentre chi dà il
capitale che sofferenza subisce?" E invece c'è la risposta
anche qui: la sofferenza è la rinuncia al consumo. Da dove deriva
il capitale? Esso viene dal risparmio, e quando qualcuno risparmia,
rinuncia a consumare, è una sofferenza anche quella. Allora c'è
un sacrificio dietro il capitale, il sacrificio corrisponde al
risparmio, cioè alla rinuncia al piacere di consumare quei soldi.
Questo sacrificio permette di risparmiare e il risparmio crea
capitale. Quindi c'è un sacrificio dietro ogni unità di capitale.
Ed il contributo alla società di questo sacrificio è il contributo
corrispondente all'aumento di produzione reso possibile da quell'ulteriore
unità di capitale. Se qualcuno decidesse di non risparmiare, la
società perderebbe qualcosa. Perderebbe proprio quella produzione
in più resa possibile da quell'unità in più di capitale, resa
possibile da quel risparmio.
In
conclusione, quindi, dietro il salario c'è un sacrificio e quel
sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce
alla società. Allo stesso modo, dietro l'interesse c'è un sacrificio,
e anche quel sacrificio viene remunerato in base al contributo
che esso fornisce alla società.
Diciamo la verità:
è bello, c'è un'armonia, c'è un'eleganza, una simmetria affascinante
in questa teoria. Si può capire perché essa abbia avuto un notevole
successo in ambito accademico, ed essa, tra l'altro, sembra basarsi
su cose che paiono corrispondere alla realtà. Sembra corrispondere
alla realtà il fatto che se in un'impresa con un dato capitale
impieghiamo sempre più lavoratori, ad un certo punto i lavoratori
in più faranno sì aumentare il prodotto, ma via via di meno, perché
diventano via via meno utili. Ad un certo punto addirittura saranno
superflui, non si saprà più che farne del millesimo lavoratore
in una piccola falegnameria.
2. Le differenze: due diverse visioni della società
Chiarito dunque questo
fatto, chiarita quindi la profonda simmetria che in questa visione
c'è tra redditi da lavoro e redditi da capitale, chiarita la giustizia
che il mercato realizza nel determinare le retribuzioni del lavoro
e del capitale, e chiarita l'efficienza di tutto ciò - perché,
ricordate, si va alla piena occupazione, purché si lasci funzionare
la concorrenza - vediamo allora, brevemente, di sottolineare le
differenze rispetto all'altra impostazione, quella classica.
L'impostazione classica
vede le cose - soprattutto per via del posteriore contributo di
Keynes
- proprio nel modo che vi
dicevo: se si abbassano i salari, l'effetto sarà che i lavoratori
acquisteranno di meno, cioè le imprese venderanno meno e quindi
ci saranno licenziamenti.
La giustizia della
retribuzione
Ma vediamo innanzitutto
l'aspetto della giustizia della retribuzione. Se
si vedono le cose alla maniera dei classici - ricordatevi
quella analogia che vi ho fatto con il feudalesimo - parlare di
profitti delle imprese - che è il linguaggio usato poi da Marx
- oppure parlare di interessi
sul capitale, fondamentalmente è la stessa cosa: sono redditi
che derivano dalla proprietà del capitale. Spesso l'imprenditore
è egli stesso il proprietario del capitale, quindi i profitti
li percepisce senza nemmeno ripagarli con interessi, ma in realtà
se avesse prestato a qualcun altro il capitale avrebbe preteso
un interesse, quindi quello che guadagna come profitti anche in
quel caso va suddiviso tra compenso per il rischio e interessi.
Quindi parlare di interessi o profitti è equivalente.
Nella visione classica,
la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal
semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte
del manico. Essi dicono ai lavoratori: un salario talmente alto
che vi consenta di appropriarvi di tutto il prodotto, senza che
nulla resti a noi come interesse e profitti, semplicemente non
lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro capitale
- e ce l'abbiamo noi il capitale - vogliamo profitti o interessi.
E quindi la situazione è analoga a quella dei signori feudali
con i servi della gleba; ma se - come credo tutti - accettereste
che il reddito dei signori feudali sia in realtà analogo al pizzo
della mafia (che va dal commerciante e dice: io ho le pistole,
o mi dai queste 400mila lire al mese o ti spariamo), allora è
estremamente legittimo dire che il reddito del signore feudale
sia un'estorsione, uno sfruttamento. E poiché la situazione per
i profitti è del tutto analoga, i profitti sono sfruttamento.
Adam Smith
non usa questa parola - che userà Marx
- ma in realtà abbiamo visto,
dai passi di cui vi ho detto, che il concetto è lo stesso anche
per Smith
: tutto è necessario per poter fare sfruttamento.
La disoccupazione
Altra differenza interessante:
un marginalista direbbe che se c'è disoccupazione la colpa è dei
lavoratori che non lasciano abbassare i salari. Un classico che
cosa direbbe? Direbbe: "è semplicemente umano e normale che i lavoratori resistano agli
abbassamenti salariali", perché nella impostazione classica
- ed è qui in realtà la differenza di fondo - questa idea che
quando il prezzo del lavoro si abbassa, le imprese ne domandano
di più, o che se il prezzo del capitale si abbassa le imprese
ne domandano in più, quindi l'idea che noi ci potremmo costruire
una curva decrescente di
domanda per i fattori produttivi, in cui tanto più basso è
il prezzo del fattore produttivo, tanto maggiore sarà la domanda,
questa idea nei classici non c'è proprio. Se
i salari si abbassano, il risultato immediato, per i classici,
è semplicemente che si alzano i profitti: va di meno ai lavoratori
e va di più ai capitalisti. Gli effetti sull'occupazione il più
delle volte sono negativi; possono essere positivi solo se i capitalisti
decidono di investire di più. Ma come dirà l'analisi economica
successiva, a partire da questo importante economista, Keynes
, in
realtà le imprese non investono solo perché stanno facendo profitti.
Le imprese investono quando pensano di usare bene i loro profitti
nel costruire ulteriori impianti, quando cioè si aspettano
di riuscire a vendere di più. Perché le imprese investano di più
è necessario cioè che la domanda di beni stia già crescendo, per
cui le imprese si aspettano di riuscire a vendere ancora di più.
Quindi il risultato più probabile è l'altro, proprio quello che
l'abbassamento del salario faccia abbassare la produzione, faciliti
le crisi economiche.
Allora, dicevo, in
una situazione di questo tipo, in cui non c'è nessun meccanismo
di domanda e offerta che possa spontaneamente determinare un salario,
in cui se il salario si abbassa o si innalza semplicemente è questione
continua di lotta di classe, è
del tutto naturale che i lavoratori si rifiutino di abbassare
il salario.
Del resto provate a
metterla così: se un abbassamento di salario non fa aumentare
l'occupazione, quale sarà l'esperienza storica dei lavoratori?
Anche quelle rare volte che i disoccupati, per disperazione o
altro, dicono: purtroppo sto morendo di fame, vado alla fabbrica
e mi offro alla metà del salario dei già impiegati, che cosa succederà?
Succederà che i già occupati, per evitare il licenziamento, accetteranno
essi stessi di farsi pagare solo la metà. Nella visione marginalista
il risultato di questo abbassamento dei salari sarà l'aumento
della domanda di lavoro. Avranno lavoro sia quelli che già erano
occupati che i disoccupati. Nella visione classica invece gli
occupati restano occupati ad un salario inferiore - se non vengono
addirittura licenziati per l'abbassamento della domanda di beni,
dovuto alla diminuzione di reddito dei lavoratori - e i disoccupati
restano disoccupati. L'unica cosa che è successa è che ci hanno
perso tutti. Ci hanno perso anche i disoccupati, che sono in genere
mantenuti, almeno in parte, dai redditi dei loro parenti occupati.
Questa esperienza storica
insegna molto rapidamente ai lavoratori che farsi concorrenza
in questo modo - in cui i disoccupati si offrono ad un salario
più basso - è un disastro. L'unico risultato è che tutti i salari
si abbassano e l'occupazione non aumenta. E quindi è del tutto
ovvio che si formi quello che la storia insegna - cioè che si formino dei sentimenti di assoluta proibizione morale per la concorrenza
salariale. E in effetti questa cosa è talmente forte, che
praticamente non ci si pensa nemmeno. A chi di voi viene in mente,
se non ha trovato lavoro, di andare ad offrirsi ad un salario
inferiore a quello normale? Quando vi chiedono: avete bisogno
di lavoro? Ovviamente vi offrite al salario normale, al salario
abituale. Perché non ci si offre a meno? Io sostengo che non lo
si fa perché l'esperienza storica ha insegnato che ciò non serve.
Ed a questo punto è diventata parte integrante della cultura operaia
l'idea che sia qualcosa che, semplicemente, non si fa.
E questo è confermato
dal fatto che in quei casi in cui è legittimo pensare che abbassare
i salari serva a difendere l'occupazione, allora i lavoratori
lo accettano. Infatti, quando per esempio c'è una fabbrica in
pericolo di chiusura, e si riesce a mostrare ai lavoratori che
l'unico modo per salvarla è abbassare i salari, allora i lavoratori
lo accettano (spesso accettano di formare una cooperativa, e rilevare
loro la fabbrica, benché sappiano che siccome la fabbrica non
stava andando bene, questo significherà che per mesi, o forse
per anni, dovranno accettare un salario più basso di quello di
mercato).
La crescita economica
Altra differenza estremamente
importante: la crescita economica, da che cosa dipende? Secondo
l'impostazione marginalista, abbiamo visto, si riesce sempre a
vendere tutto ciò che si produce - ovviamente sto mettendola in
termini un po' rigidi, per qualche anno ci sarà magari qualche
difficoltà, i processi di aggiustamento del mercato non sono istantanei,
ma in media se si lascia funzionare bene il mercato, si riuscirà
a vendere tutto - e allora ciò che non viene venduto per consumi
verrà venduto alle imprese. Ciò significherà investimenti. Ma
ciò che non viene venduto per consumi che cos'è? Pensiamolo dal
punto di vista dei redditi. Ciò che viene prodotto dalle imprese
ha un valore e costituisce reddito. Allora, evidentemente, solo
una parte di questo reddito viene impiegato e speso a comprare
beni di consumo. Tutto il resto viene risparmiato. Quindi quella
parte del valore della produzione che non corrisponde ai consumi,
corrisponde al risparmio. Abbiamo detto che il risparmio è quella
cosa che crea capitale. Infatti che voi lo vediate come soldi
non spesi, o come beni prodotti e non consumati, ma che vanno
alle imprese, che cosa vedete? Vedete questo risparmio monetario,
che va ad incrementare il valore monetario del capitale - e a
questo corrispondono proprio beni prodotti e non consumati, che
però vanno alle imprese che aumentano il valore dei beni fisici
utilizzati come capitale. Quindi il risparmio crea capitale e
quanto più si risparmia, tanto più capitale si crea. E' il capitale
in più che determina la crescita economica. Conclusione: la crescita
è determinata dai risparmi. Se
vogliamo crescere di più bisogna risparmiare di più.
Nell'altra visione,
quella classica, invece, la
crescita è determinata dalle decisioni delle imprese di investire,
che dipendono da tutt'altre cose - per esempio dall'aspettativa
che si possa vendere di più in futuro. E molto spesso queste decisioni
di investire sono insufficienti a mantenere la piena occupazione
del lavoro. E' il caso di oggi in Italia: avrete letto che nell'ultimo
hanno [1994, N.d.R.]
sono stati 400 o 500mila i posti di lavoro persi. Mentre per i
classici lo Stato deve intervenire attivamente per favorire la
crescita economica e favorire l'occupazione, perché il mercato
di per sé non garantisce affatto che si arrivi alla piena occupazione
- questa curva di domanda decrescente di lavoro non c'è, come
pure non c'è una curva di domanda decrescente del capitale - per
i marginalisti, invece, il mercato mette tutto a posto da solo.
E da ciò ovviamente derivano le posizioni di tipo liberale, liberista
ecc. espresse da Berlusconi
o da Bossi
- per i quali non ci sono
punti di disaccordo sostanziale nelle linee di politica economica.
La politica economica
Veniamo alle differenze
tra le due impostazioni riguardo alla politica economica.
Per risolvere il problema
della disoccupazione, secondo i marginalisti bisogna spezzare
le reni ai sindacati - quello che esplicitamente disse di voler
fare la Tatcher
quando subentrò al governo
in Inghilterra. Non per cattiveria, ma semplicemente in ossequio
alle leggi del mercato. Se vogliamo aumentare l'occupazione bisogna
che i salari scendano, facendo funzionare la concorrenza. Invece
un classico, che abbia imparato la lezione di Keynes
, direbbe
che lo Stato deve intervenire attivamente stimolando la domanda.
Se non si stimola la domanda le imprese non decideranno di produrre
di più e quindi di assumere più lavoratori.
Sulla crescita economica,
l'implicazione di politica economica della teoria marginalista
è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare
di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato,
perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati
a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono.
I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici,
pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende
in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi
che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi
sottratti all'investimento presso le imprese, che permetterebbero
l'acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta
i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta
quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica.
Invece, nell'altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende
fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre
di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo
molto, decidono di ampliare l'impianto. Più lo Stato spende e
più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero
essere più diverse.
3. La solidità scientifica delle due teorie economiche
E allora visto tutto
questo, voi capite l'importanza del decidere, sul piano scientifico,
quale di queste due visioni sia più solida. Ora, ovviamente, ci
vorrebbe un intero corso di laurea - e in molte facoltà neppure
ci si arriva - per spiegare bene, fino in fondo, in tutti i dettagli,
gli aspetti negativi e positivi di queste due visioni.
Tuttavia voglio almeno
accennarvi al fatto che l'economista italiano di cui vi dicevo,
Sraffa
, ha mostrato sì che gli autori classici non avevano risolto alcuni problemi
teorici - in particolare la famosa teoria del valore-lavoro di
Marx
non funzionava bene - ma
che si trattava di problemi risolvibili all'interno della loro
stessa teoria. Marx
aveva incontrato un problema
nello spiegare la determinazione dei prezzi relativi delle merci,
e sosteneva che essi fossero determinati dal lavoro da esse incorporato
e questo non è vero. Ma la sua idea di fondo era che ci debba
essere un qualche modo per spiegare i prezzi relativi, una volta
che noi prendiamo il salario come dato e determinato dalla lotta
di classe. E' quello che Sraffa
dimostra: su questo Marx
aveva perfettamente ragione.
Si può costruire un sistema matematico che mostra - dato il salario
determinato dalla lotta di classe - come sia la concorrenza tra
i capitalisti (i quali tendono a far sì che il rendimento del
capitale diventi uguale tendenzialmente in tutte le industrie)
a determinare i prezzi delle merci. Quindi è vero che Marx
, e prima di lui Ricardo
ecc., non erano riusciti
a risolvere bene questa questione, ma essa non mette in crisi
la loro teoria. Essa resta logicamente forte.
La teoria marginalista,
invece, incontra gravissimi problemi. Li possiamo qui solo accennare.
Per spiegare che gli abbassamenti dei salari determinino un aumento
della domanda di lavoro da parte delle imprese, si è dovuto ragionare
ipotizzando che sia data
la quantità dei fattori produttivi diversi dal lavoro, cioè
capitale e terra (per dire che il contributo alla produzione di
ogni lavoratore aggiuntivo era via via minore, infatti, si è fatto
l'esempio di un dato impianto - una falegnameria in cui più aumentano
i lavoratori e più aumenta il prodotto, ma solo finché non comincia
a mancare fisicamente lo spazio ecc.). Data una certa quantità
di questi altri fattori, capitale e terra, se impieghiamo via
via più lavoratori, questi lavoratori faranno cose via via meno
utili. La teoria marginalista,
dunque, per essere forte, ha bisogno di argomentare che sia legittimo
ipotizzare come data la quantità di capitale. Ma questo, si
dimostrerà, non è legittimo.
Infatti è possibile
considerare come data la quantità di capitale in due sensi:
1)
si considera come data la quantità
dei singoli beni capitali;
2)
si considera come dato il valore
complessivo di tutti i beni capitali;
Il primo modo di considerare
come data la quantità di capitale, considerando come data la
quantità dei singoli beni capitali (si prende come data la
quantità di viti, trattori, vanghe, vernici, benzina, torni ecc.)
esistenti nell'economia, non funziona. Infatti, non appena le
imprese impiegano più lavoratori, un'enorme numero di queste quantità
si modificherà. Se l'impresa vuole produrre di più ha bisogno
di più pezzi intermedi per ottenere i prodotti finali. Quindi
quei beni capitali che sono pezzi intermedi del processo produttivo
dovranno essere acquistati anticipando soldi, cioè sarà necessario
prendere a prestito capitale. Qui i beni intermedi cambiano.
Inoltre, quando il
salario si abbassa, tutti i prezzi cambiano, perché i salari entrano
nei costi di produzione in modo diverso a seconda delle merci.
Per i prodotti chimici, ad esempio - dato che si tratta di prodotti
con enormi macchinari e pochissimo lavoro - se il salario scende
il costo di produzione quasi non cambia. Invece per prodotti ottenuti
con molto lavoro manuale, come i jeans, quando il salario si abbassa
il costo di produzione scenderà molto. Quindi cambieranno i prezzi
dei beni e di conseguenza cambierà la domanda di questi beni.
Cambiando la domanda di questi beni, cambieranno anche i beni
capitali impiegati e necessari per produrli. Se i jeans si abbassano
di prezzo la gente comprerà più jeans, le imprese acquisteranno
più macchinari per fare più jeans. Quindi dieci giorni dopo che
si è abbassato il salario sarà aumentata la domanda di jeans e
le imprese ordineranno più macchinari per fare jeans, e le fabbriche
che producono questi macchinari ne fabbricheranno di più.
Ovviamente se si comprano
più jeans si comprerà meno qualcos'altro, ad esempio meno prodotti
chimici che non sono diminuiti di prezzo. Allora le imprese chimiche
domanderanno meno beni capitali del tipo necessario a produrre
prodotti chimici. In ogni caso le quantità dei singoli beni capitali
non resteranno invariate all'abbassarsi del salario, e di conseguenza
non è possibile considerare il capitale come dato in questo senso.
Allora forse si deve
considerare la quantità di capitale come data nel secondo modo,
cioè come valore complessivo
di tutti i beni capitali. Questo lascerebbe effettivamente il
capitale libero di cambiare di composizione - più macchine per
fare jeans e meno macchine per fare prodotti chimici - senza che
cambi il valore complessivo. Ed in effetti è questo il modo in
cui, tradizionalmente, gli economisti di scuola marginalista parlano
di una "data quantità di capitale" nella determinazione
della domanda di lavoro. Ma, sfortunatamente per i marginalisti,
la misura del capitale come valore di un complesso di beni - che
sta anche cambiando - si modifica al modificarsi dei prezzi dei
beni stessi. Abbiamo appena detto che quando i salari cambiano,
anche i prezzi cambiano. Il risultato sarebbe dunque che il valore
del capitale dipende dai salari, e cambia quando cambiano i salari.
Dunque non è possibile
considerare come data la quantità di capitale, il che permetteva
di costruire quella curva della domanda di lavoro che assieme
all'offerta doveva determinare il salario. In questa teoria, infatti, finché non è determinato il salario non sappiamo
il valore del capitale, finché non sappiamo il valore del capitale
non conosciamo la domanda di lavoro, e quindi non sappiamo quale
possa essere il salario di equilibrio: la teoria crolla.
In effetti, per motivi
connessi a questi problemi teorici, la teoria marginalista negli
ultimi anni è andata sviluppandosi in direzioni molto particolari,
nel tentativo di fare a meno di questa nozione di capitale misurato
come quantità di valore, della quale - come abbiamo visto - si
riesce a dimostrare in due minuti l'insostenibilità. Dunque i
marginalisti hanno tentato altre strade, che per brevità non vi
posso illustrare. Si tratta delle cosiddette "Teorie moderne
dell'equilibrio economico generale". Ciò che vi posso dire
è che un numero crescente di teorici dell'equilibrio economico
generale ammettono che si stanno cacciando in un vicolo cieco,
diventano sempre più scettici sulla loro stessa teoria. In effetti
ho la netta impressione che ormai la teoria marginalista, che
è ancora quella dominante a livello accademico, a livello dei
consulenti di governo ecc., sia un gigante dai piedi d'argilla.
Questa teoria resta ancora accettata soprattutto dagli economisti
applicati, i quali per via della necessaria divisione del lavoro
in ambito scientifico, hanno imparato questa teoria qualche decennio
fa per poi mettersi ad applicarla, per fare studi applicati, senza
più tenersi al corrente dei successivi dibattiti sulla solidità
delle fondamenta di questa impostazione. Ed i successivi dibattiti,
invece, stanno minando alla base questa teoria, in modo secondo
me ormai totale.
In conclusione la teoria
logicamente e scientificamente più solida è quella classica.
4. Le risposte ai problemi del debito pubblico e della disoccupazione
E su questa base veniamo
a quei due problemi cui si accennava all'inizio, cioè la disoccupazione
ed il debito pubblico ed al modo in cui affrontarli. Sul debito
pubblico in realtà ve l'ho già anticipato. Per i marginalisti
il debito pubblico crea dei problemi di instabilità finanziaria
- perché ci sono tutti questi titoli che possono essere venduti
e non rinnovati ed i risparmi portati all'estero - ma il problema
veramente grave non è questo. Infatti si sa che l'instabilità
finanziaria, se c'è un governo che vuole davvero intervenire in
modo duro, è fermabile (certamente, comunque, il governo deve
sormontare la resistenza della comunità finanziaria, che ha forti
interessi nel poter avere perfetta libertà di movimento dei capitali
perché in questo modo fa più soldi; ma un governo deciso a fermare
l'instabilità finanziaria, di fatto ci riesce). Il vero problema
che i marginalisti pongono, per sostenere che il debito pubblico
va eliminato, è quello che vi dicevo prima: il debito pubblico
fa sì che lo Stato si faccia prestare e usi per fini non di investimento,
risparmi che altrimenti andrebbero ad aumentare gli investimenti.
E così facendo diminuisce la crescita, col risultato che quando
saremo anziani, e con noi
i nostri figli, ci troveremo con molto meno capitale di
quello che altrimenti ci sarebbe. E quindi c'è, in questo senso,
un onere del debito pubblico sulle generazioni future.
Quest'onere non è dovuto
alla semplice esistenza del debito pubblico - si tratta infatti
di un debito degli italiani verso se stessi. Non si tratta di
un vero debito perché non si tratta di un debito della nazione
verso altri, bensì di un debito della nazione verso se stessa.
Esso certo crea problemi redistributivi perché è molto difficile
politicamente tassare solo quei cittadini che hanno prestato denaro
allo Stato. Ma per la nazione nel suo complesso il debito pubblico
non esiste. La nazione non è indebitata. Chi usa l'argomento della
semplice esistenza del debito pubblico come fonte di problemi
è ignorante o in malafede. Ed infatti il vero problema, che è
poi quello che pongono gli economisti marginalisti seri, è che
con il debito pubblico stiamo diminuendo l'accumulazione del capitale.
Invece nell'impostazione
classica, proprio perché il debito pubblico non è un debito verso
altri, esso non è un vero debito. E' vero che esso crea problemi
di instabilità finanziaria, ma questi problemi, con sufficiente
volontà possono essere risolti. Il tentativo di diminuire il debito
pubblico, una volta che c'è, crea disastri. Infatti per diminuire
il debito pubblico bisogna aumentare le imposte o diminuire la
spese. Se lo Stato diminuisce le spese esso induce una contrazione
della domanda. Se invece lo Stato aumenta le imposte diminuisce
il reddito delle persone e quindi, di nuovo, diminuisce la domanda.
Il risultato sarà che lo Stato non riuscirà nemmeno a ridurre
il debito pubblico, perché se diminuisce le spese diminuiscono
anche le entrate (perché le imprese produrranno meno, guadagneranno
meno e pagheranno meno come tasse). Lo Stato, quindi, nel cercare
di aumentare le entrate le fa in realtà diminuire e fa aumentare
soltanto la disoccupazione.
Abbiamo detto che per
lo Stato l'instabilità finanziaria esiste solo finché esso non
voglia schierarsi contro gli interessi della comunità finanziaria.
Inoltre basta ricordare che in Inghilterra il debito pubblico
è stato il doppio del prodotto nazionale per decenni, nell'ottocento.
Allo Stato, invece, conviene, almeno temporaneamente, aumentare
il debito pubblico, aumentando le spese. Questo farà aumentare
i consumi, stimolerà le imprese a produrre di più ed ad investire
. E allora forse si riuscirà perfino a ridurre il debito grazie
all'aumento delle entrate. Certo, resta vero che se lo Stato finanzia
le sue spese in deficit, ci saranno meno risparmi che si convogliano
verso le imprese. Ma il punto da capire è questo: lo Stato, in
questo modo, prende risparmi da un reddito più grande, perché
è un reddito che è lo Stato stesso a stimolare, quindi lo Stato
raccoglie dei risparmi che senza le sue spese, senza il suo stimolo
sulla domanda, non sarebbero nemmeno esistiti. Quindi se lo Stato
segue queste linee, raccoglie sì dei risparmi, ma ne restano ugualmente
per l'industria ed in misura superiore che se lo Stato non si
fosse indebitato.
Per quanto riguarda,
invece, l'occupazione, lo Stato deve in un modo o nell'altro stimolare
la domanda, addirittura aumentando i consumi (attraverso eventualmente
aumenti dei salari). Questo certo crea problemi, perché aumentando
i salari si ridurranno i profitti e la concorrenza internazionale
può portare alla fuoriuscita di capitali. Non si possono dunque
aumentare molto i salari, ma qualcosa si può fare. Quella stessa
cosa che diminuisce l'instabilità finanziaria connessa ai titoli
del debito pubblico - cioè controlli sull'apparato finanziario
ed in particolare sui movimenti di capitale - può, se non impedire,
almeno rendere un po' più costoso esportare capitali all'estero.
Questo diminuirebbe l'instabilità finanziaria, farebbe ridurre
il tasso d'interesse interno che è necessario pagare ai capitalisti
e quindi permettere di aumentare i salari, diminuendo nel contempo
le spese dello Stato per gli interessi sul debito pubblico.
Ovviamente le cose
non sono mai così facili. C'è - e questo lo ammette anche l'economista
classico - un problema grave, che riguarda il vincolo esterno.
Se il governo fosse un governo di sinistra, con economisti classici
a fare da consulenti, le politiche di espansione della domanda
potrebbero far crescere in modo più forte le importazioni delle
esportazioni, i possessori di capitali si spaventerebbero temendo
una svalutazione, esporterebbero capitali, ci sarebbe la svalutazione,
essa porterebbe nel tempo ad inflazione ecc.
Questo problema del
vincolo estero è sormontabile? Innanzitutto bisogna dire che se
tutti i governi seguissero queste linee di espansione della domanda
per favorire l'occupazione, il problema non esisterebbe. Tutti
i paesi aumenterebbero le loro importazioni e cioè tutti aumenterebbero
le esportazioni. Se tutte le nazioni decidessero di occuparsi
del problema della disoccupazione, non ci sarebbe vincolo estero.
Questo ovviamente non
succede, sia perché domina la teoria e la visione marginalista,
sia per il cinismo del capitalista "marxista", il quale
pur privo di fiducia nelle teorie della scuola marginalista, trova
conveniente che le sue proposte siano attuate: non credo che Agnelli
abbia bisogno di cedere nelle
tesi marginaliste per capire che se si abbassano i salari per
lui c'è una convenienza. In ogni caso sono
ragioni politiche ad impedire l'attuazione di queste politiche
espansive. In altre parole non
si tratta di ragioni connesse al naturale funzionamento dei meccanismi
di una economia di mercato. E per ragioni politiche si deve
intendere che c'è un gruppo, molto forte e compatto, soprattutto
negli ambienti finanziari, che sostanzialmente dice "A noi
queste politiche non convengono".
Tuttavia, supposto
che le altre nazioni non siano favorevoli a queste politiche per
l'occupazione, il governo di una singola nazione potrebbe riuscire
a portarle avanti con successo? In effetti, a mio avviso, delle
vie le si potrebbe trovare. Innanzitutto un singolo Stato potrebbe
accettare, per un certo periodo, di indebitarsi, concentrando
la sua espansione soprattutto sugli investimenti, i quali potrebbero
portare un tale ammodernamento da rendere questo Stato molto competitivo
- il che permetterebbe poi di esportare molto (è ciò che in qualche
misura hanno fatto le tigri asiatiche, la Corea, Hong Kong, Singapore
ecc.).
Ma supponiamo che sia
necessario aumentare le esportazioni più rapidamente di quanto
non avverrebbe grazie agli investimenti (che hanno bisogno di
tempo per fruttare) e che per farlo si debbano ridurre i costi
delle imprese. Ma i costi delle imprese non sono costituiti solo
dai salari! C'è anche il costo del denaro! Si potrebbe dunque
ridurre il tasso d'interesse. Certo, sappiamo che c'è gente che
si oppone a queste riduzioni, e non si tratta certo dei piccoli
risparmiatori. Ai piccoli risparmiatori sarebbe facile spiegare
che quel che perdono da una parte in termini di interessi sui
titoli di Stato, lo guadagnano dall'altra in termini di minori
spese sanitarie, maggiore occupazione per i propri figli ecc.
A queste condizioni i piccoli risparmiatori non sarebbero contrari
all'abbassamento dei tassi d'interesse. Chi è veramente contrario
a queste riduzioni è chi possiede miliardi in titoli di Stato,
e cioè non soltanto i vari Agnelli
ecc., ma proprio le banche.
Quelle banche che prima erano tutte pubbliche e che ora lo Stato
sta privatizzando, diventando dunque qualcosa che lo Stato non
può più controllare. Non ci sono affatto solide ragioni per sostenere
le privatizzazioni, ed infatti all'estero, spesso, le imprese
nazionalizzate funzionano benissimo. La Renault è nazionalizzata,
la Wolkswagen lo era fino a poco tempo fa. Con una semplice particolarità:
semplicemente i manager lavoravano.
Anche in Italia, del
resto, molte imprese pubbliche erano in perdita perché dovevano
fare prezzi bassi alle imprese private a cui vendevano beni capitali.
Altre sono in perdita perché erano già in perdita quando lo Stato
le ha comprate dai privati. E moltissime imprese private, invece,
hanno fatto la fine che hanno fatto.
In conclusione pongo
un’ultima questione. La promessa di Berlusconi
di un milione di posti di lavoro non è insensata a priori. Sarebbe
in qualche modo possibile, in un tempo relativamente breve, una
creazione di lavoro così forte, ma ci vorrebbe la forza e la volontà
di intaccare una serie di interessi economici e di privilegi,
soprattutto legati agli ambienti finanziari - che sono quelli
che obbligano l'Italia ad avere perfetta libertà di movimento
dei capitali, il che rende estremamente difficile qualunque politica
espansiva (infatti non appena l'Italia volesse espandere la produzione,
avrebbe più importazioni che esportazioni e si verificherebbe
il caso cui si accennava sopra: i possessori si spaventerebbero,
comincerebbero a esportare capitali per timore di una svalutazione,
questo porterebbe effettivamente alla svalutazione, essa protraendosi
porterebbe inflazione ecc.).
Ma un governo che fosse
deciso e che capisse che il mondo non funziona come dicono i marginalisti,
ma piuttosto come dicono i classico-keynesiani, potrebbe effettivamente
creare, in tempi ragionevolmente brevi, il famoso milione di posti
di lavoro.
Come sempre contributi fondamentali per studiare e capire l'economia e soprattutto i fatti economici che ogni giorno accadono attono a noi. GRAZIE. Fla.
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