Pubblichiamo intervista su Forex. Buona lettura e buon 1° Maggio.
Buon giorno,
in questi giorni
è sulla bocca di tutti il bonus da 80 euro voluto dal Governo Renzi, ormai in
fase di attuazione grazie alle linee guida pubblicate oggi dall’Agenzia delle
Entrate. Uno specchietto per le allodole, in vista delle elezioni europee o una
misura di politica economica realmente utile per far ripartire i consumi.
80
euro in più al mese sono una cosa importante per milioni di famiglie e quindi,
di per sé, la misura è giusta e utile a far ripartire i consumi. Il problema è
che a fronte di essa si operano tagli della spesa pubblica inclusi sanità ed
enti locali. Sicché i cittadini si vedranno togliere con una mano ciò che vien
dato loro con l’altra. Certo, pochi maledetti e subito, ma vedremo peggiorare
trasporti pubblici e file d’attesa per le cure mediche. Ricordiamo che
nonostante gli sprechi lo Stato italiano è da più di vent’anni assai
parsimonioso, vale a dire spende meno di quanto incassa. E’ infatti la spesa
per interessi sul debito a portarlo in deficit. E il debito non fu frutto
dell’eccesso di spesa ma della tolleranza dell’evasione fiscale e dagli alti
tassi di interesse che pagammo negli anni 1980 per stare nel sistema monetario
europeo (il padre dell’euro). Combattere gli sprechi non è comunque facile e le
spending review non sono altro che
tagli lineari mascherati. Gli sprechi si combattono con un ceto politico che si
occupa quotidianamente e meticolosamente della macchina pubblica invece di
chiacchierare su inutili riforme.
Almeno per il
2015 il DEF prevede che il debito pubblico continuerà a crescere e che
l’aumento del PIL sarà molto contenuto (+0,8%). Il Governo Renzi sta mettendo
in campo gli strumenti giusti per uscire dalla crisi o, anche in questo caso,
si tratta di propaganda?
A
meno di miracoli l’attesa del +0,8% è ottimistica, e comunque con questa
crescita l’occupazione non aumenta. La situazione è drammatica, ormai la
disoccupazione colpisce i nostri amici e parenti, e i giovani anche ben formati
non hanno prospettive. Il crollo del mercato interno sta distruggendo il
tessuto industriale italiano. Per rilanciare crescita e occupazione serve il
rilancio in grande stile della domanda aggregata e questo può farlo solo il
settore pubblico, invertendo quindi il segno alle politiche di austerità.
Questo può esser fatto solo a livello europeo. Purtroppo né Letta né Renzi lo
capiscono, per formazione o per incompetenza, e dunque il nostro paese non si
batte a sufficienza. Sono persino peggio di Monti che, a tratti, ci illuse di
stare trattando a livello europeo. Il governo Renzi è davvero una compagine di
sprovveduti bellocce e bellocci.
Sul suo blog Lei
ha recentemente sostenuto che le stime del DEF sono troppo ottimistiche e che
viene tenuto in scarsa considerazione il rapporto deficit/PIL. Perché è così importante,
in una prospettiva di medio periodo stabilizzare il debito pubblico?
No,
del rispetto dei vincoli europei si tiene fin troppo conto! Abbiamo documentato
come l’applicazione del “fiscal compact” che impone all’Italia la riduzione del
rapporto debito pubblico/Pil al 60% in vent’anni è “mission impossible”, che
distruggerebbe il Paese peggiorando quel rapporto. Nessuna persona seria pensa
sia applicabile. Esso rimane però come un monito a continuare una rigida
austerità. Quello che proponiamo è una manovra europea a due tempi: nel breve
periodo si tratta di mollare i cordoni della spesa anche a costo di maggiori
disavanzi per far riprendere la crescita. In questa fase si dovrebbe anche
pensare a forme di ristrutturazione dei debiti in modo da abbassarne il costo
in termini di tassi di interesse. Nel medio periodo poi la ripresa della
crescita e i minori tassi sul debito sono compatibili con la stabilizzazione
del rapporto debito/Pil (in luogo di assurdi piani di riduzione). Tutto questo
è ragionevole. Ma l’impressione è che a parte Fassina (che però è intrappolato
nel PD) non vi siano politici italiani in grado di recepire l’importanza di
avere proposte alternative su cui battersi in Europa. Il livello dei candidati
alle europee è, con poche eccezioni, deprimente.
Quali sono i
pericoli di una deroga del fiscal compact per l’Italia?
Non
c’è nessun pericolo. Con crescita e tassi di interesse bassi nessun debito,
pubblico o privato, è un problema. Attenzione però, la questione non va posta
in termini di deroga. Questo perché da un lato è l’insieme dell’Europa che deve
adottare politiche espansive, sennò l’espansione in un solo paese si
tradurrebbe in maggiori importazioni dagli altri paesi senza un corrispondente
aumento delle esportazioni verso in partner. Dall’altro lato, una deroga ci sarà
nei fatti poiché il fiscal compact è inapplicabile ma, ripeto, costituirà
comunque un’arma di ricatto. E’ l’intera logica che va ribaltata. Logica che,
ricordiamo, si basa sull’idea che l’origine della crisi sia fiscale – un
eccesso di spesa pubblica. Non è vero.
Anche la
disoccupazione non sembra aver dato segnali rassicuranti negli ultimi mesi. Le
misure del Jobs Act sono apprezzabili o, anche in questo ambito sono state
fatte scelte discutibili?
La
scommessa che il governo fa col Jobs Act è che la disponibilità di contratti a
termine renda più probabile che i timidi segni di ripresa si traducano qualche
posto di lavoro in più. Questo perché le imprese devono essere sicure di poter
licenziare i lavoratori se la ripresa (com’è probabile) si rivelasse effimera. Vede,
qualunque sia la forma contrattuale, a termine o indeterminata, il numero di
posti di lavoro non dipende dalla veste giuridica dei contratti, ma dalla
domanda aggregata. Se vi fossero solo contratti flessibili l’occupazione
oscillerebbe di più, cioè le imprese assumerebbero di più nella fase alta del
ciclo, licenziando tuttavia di più nella fase bassa. In media il numero di
posti di lavoro sarebbe il medesimo di quello che si avrebbe se i contratti
fossero tuti a tempo indeterminato (in questo caso le imprese assumerebbero di
meno nella fase alta ma licenzierebbero anche di meno nella fase bassa). Quindi
il problema è il sostegno della domanda aggregata ciò che renderebbe in gran
parte inutile tutto il dibattito sul mercato del lavoro. Pensare che, dunque,
l’occupazione nel lungo periodo aumenti per il Jobs Act è una mera bugia. Si mortificheranno
diritti e redditi deprimendo ancor di più la domanda interna.
Nei suoi studi
Lei si è occupato anche del sistema pensionistico. Come giudica a tal proposito
la recente riforma Fornero? Più in generale è un settore che necessita di
(nuove) riforme strutturali?
Intanto
va rilevato che l’allungamento dell’età pensionistica ha comportato minori
opportunità di lavoro per i più giovani, come gli economisti “eterodossi” han
da sempre sostenuto. Quello che accade nel sistema pensionistico va infatti
sempre visto nell’ambito economico generale di cui esso è parte. Da questo
punto di vista la situazione è preoccupante, non tanto per la sostenibilità
finanziaria del sistema pubblico ma da quello della sostenibilità sociale.
Vediamo meglio. Con la riforma contributiva degli anni ’90 dello scorso secolo
il sistema è stato reso finanziariamente sostenibile. Vi sono infatti dei
meccanismi automatici per cui le pensioni erogate dipendono dall’andamento del
Pil. Se lei oggi versa 100 euro di contributi e il Pil decresce del 2%, lei
domani riceverà 98 di pensione. Da un lato questo rende il sistema
contabilmente sostenibile, nel senso che se l’economia va male – per cui ci
sono meno lavoratori attivi a versare i contributi – l’ammontare di pensioni
erogate automaticamente diminuisce. Ma dall’altro questo ha una ricaduta
sociale sui redditi dei pensionati futuri poiché l’importo delle pensioni cade.
E questo si aggiunge al vero dramma: ormai da più di due decenni assistiamo a
generazioni di giovani precari che accumulano pochi contributi, e ora le nuove
generazioni disoccupate neppure quelli. Questa è una catastrofe sociale
epocale, presente e futura. Non c’è soluzione tecnica interna al sistema
pensionistico. Di nuovo solo la ripresa della crescita a livello europeo
trainata dalla domanda può ricreare le condizioni per un sistema pensionistico
socialmente soddisfacente, non solo finanziariamente equilibrato.
Uno dei pochi punti
di continuità del Governo Renzi con tutti i governi precedenti sembra essere la
mancanza di un piano industriale per il nostro Paese. Perché è un aspetto così
poco considerato da chiunque sieda a Palazzo Chigi?
Sì,
se in luogo di tanto chiacchiericcio su riforme gattopardesche si curasse di
più la manutenzione del paese, allora la politica industriale tornerebbe al
centro. Ci sono vari problemi, tuttavia. In primo luogo l’Europa (sempre lei!)
ci impedisce politiche incisive, volte per esempio al salvataggio o alla creazione
diretta di imprese strategiche. Ma con la volontà politica tali impedimenti
possono essere aggirati. Ma, in secondo luogo, per intervenire servono i
quattrini e qui, come in altri casi, l’assenza di una banca centrale sovrana si
fa sentire. In terzo luogo si deve essere però realistici: in un mondo
tecnologicamente avanzato non è facile impiantare settori innovativi, ma questo
non significa rinunciare. Servono soldi, i primis per la ricerca. Serve una
classe politica coscienziosa che segua i progetti. Purtroppo tutto questo non
si inventa. Il Paese e chi lo governa sono quelli che sono. Per questo c’è chi
come me che rimpiange la liretta. Finita l’epoca della ricostruzione in cui il
Paese sembrò avere una classe di manager pubblici e privati degna di eccellenza
ci rimase la politica industriale fatta di svalutazioni. Meglio di niente.
L’occasione l’Italia la perse al principio degli anni 1960 quando sull’onda del
miracolo economico si rispose in maniera conservatrice alle rivendicazioni
sociali invece di andare loro incontro modernizzando il Paese con più stato
sociale e più innovazione tecnologica. Si cercò il conflitto. Poi le cose
andarono come andarono.
I sondaggi
relativi alle elezione europee prevedono, oltre all’astensionismo, un
infoltirsi delle schiere degli euroscettici. Perché l’Europa è così lontana dal
sentire comune?
Il
nostro è un Paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato
nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo
che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la
nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto.
Quest’ultima di per sé non guasta se non fosse andata, in particolare a
sinistra, troppo oltre dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati
nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre
offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto
col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è
chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la
moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo
ottocentesco, quello del gold standard
appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti
allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale. Quest’ultimo è il playing field naturale della democrazia,
del conflitto democratico su come creare e distribuire le risorse. Una volta
svuotato dei sui poteri, trasferiti a livello sovra-nazionale, con lo Stato
nazionale scompare la democrazia. Fior di economisti hanno sostenuto
l’incompatibilità fra moneta unica e democrazia! Il Parlamento europeo non può
sostituire le democrazie nazionali perché troppo cacofonico. Lì finiscono per
prevalere gli interessi nazionali mentre le classi lavoratrici nazionali non
hanno più un terreno rivendicativo su cui esprimersi. A me pare, contrariamente
alle accuse mosse dagli utopisti delle liste di sinistra, che Stati sovrani
siano il presupposto di democrazia e cooperazione internazionale, mentre sia
l’europeismo superficiale a fomentare il nazionalismo: dio ci scampi dagli
utopisti!
Il rigore
europeo è uno dei fattori che allontano maggiormente l’opinione pubblica da
Bruxelles. Quale dovrebbe la direzione da imprimere alle politiche economiche
(e di bilancio) dell’Europa affinché risultino di effettivo sostegno all’Italia
di oggi?
Come
abbiamo già detto, l’Europa dovrebbe invertire il segno delle politiche di
bilancio con un forte sostegno della BCE nel controllo dei tassi di interesse e
nell’agevolare forme di ristrutturazione del debito (vi sono varie proposte in
merito). Il dramma è che la Germania non è interessata a quest’Europa. Essa ha
un modello mercantilista (export-led) basato su un forte ordine sociale interno
accompagnato dalla moderazione salariale e fiscale che non intende mettere in
forse (e ciò è comprensibile). Quindi è un bel pasticcio. Parlare di Europe
federali vuol dire vaneggiare. Una forte affermazione delle forze anti-euro è
dunque benvenuta, se smuoverà le acque, anche se sia chiaro che in nessun senso
personalmente appoggio compagini xenofobe o di destra con cui, a differenza di
qualche collega (o presunto tale), non intendo avere rapporti. La sinistra
avrebbe dovuto riprendere la bandiera della nostra libertà nazionale in un
senso democratico e positivo, ma ne ha paura. Questo è un dramma. Una rottura consensuale
dell’euro sarebbe benvenuta, ma è un processo assai, forse troppo complicato. Ma
certo, se l’Europa ci prova a chiederci di applicare il fiscal compact, allora
la rottura se la saranno cercata. Ricordiamo poi che tutto il dramma europeo
cade in un quadro mondiale a sua volta assai complesso: dal pericolo di una
“stagnazione secolare” del capitalismo - anche alla luce delle crescenti
disuguaglianze che mortificano la domanda aggregata oltre che le coscienze-,
alla sfida epocale dei Paesi emergenti fatta del combinato disposto di bassi
salari e crescente tecnologia.
Quali effetti
continueranno a produrre la mancanza di un’unione politica e di una reale
unione bancaria sulla Comunità Europea e sulla sua (fragile) unione monetaria?
Una
vera unione politica, che implicherebbe uguali diritti sociali, non è e non
sarà nel futuro prevedibile all’ordine del giorno. Dimentichiamoci queste
stupide utopie. L’unione bancaria è la solita storia del bicchiere mezzo vuoto
o mezzo pieno. Le risorse a disposizione sono poche è v’è solo da sperare che
una più efficace sorveglianza da parte della BCE eviti future sorprese. Se vi
saranno, il loro peso ricadrà soprattutto sugli Stati nazionali a dimostrazione
che l’unione bancaria europea è poca cosa. Naturalmente per la Germania, che
quattrini ne ha, questo non è un problema. Come si vede in questo come in
altri– in primis quello della disoccupazione – i problemi rimangono nazionali
ma un vero Stato nazionale non c’è più. E l’Europa, al momento del bisogno,
semplicemente non c’è.
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