Pubblichiamo un mio editoriale oggi su il manifesto (pubblicato anche come tale sul sito). Nonostante che le mie critiche non risparmino, come si conviene, nessuno, il mio voto andrà a Rivoluzione civile (con magari Zingaretti alla presidenza della regione Lazio, con Fotia per Rivoluzine civile [voto disgiunto]). Al riguardo, in calce all'articolo su il manifesto pubblico il mio intervento alla conferenza stampa di Ingroia a Milano lo scorso 11 febbraio a cui fui invitato. La presenza di Ferrero, Giacché e Burgio in Parlamento mi sembra un buon motivo per votare questa lista.
PS ai lettori: sono molto in ritardo (di mesi) con la pubblicazione dei commenti. Mi scuso, anche per non rispondere. Non ce la faccio.
PS ai lettori: sono molto in ritardo (di mesi) con la pubblicazione dei commenti. Mi scuso, anche per non rispondere. Non ce la faccio.
L'Europa grande assente
Sergio Cesaratto
C’è un sentire diffuso che la
campagna elettorale sia stata deludente e inadeguata al frangente storico che
il popolo italiano sta attraversando. Se non cambia qualcosa, gli anni a venire
vedranno un drammatico impoverimento di questo paese. Non c’è, infatti, ragione
per cui il calo del prodotto nazionale che è in corso non prosegua per molto
tempo. Già ora ci vorranno anni per recuperare i livelli di benessere del 2007,
e di problemi di giustizia sociale e di modernizzazione il paese ne aveva già allora
da vendere. Ora si è andati indietro. Che lo snodo principale fosse quello
europeo, gli economisti più avveduti si sono sperticati a dirlo. Ma di Europa
in questa campagna si è parlato poco, e quando se ne è parlato lo si è fatto in
maniera superficiale, per inadeguatezza politica, e anche per impreparazione
intellettuale: di economia si mastica poco, ahimè in particolare da parte dei
leader di riferimento della sinistra radicale.
La sinistra ha così lasciato a
Grillo o a Berlusconi il monopolio dell’argomento europeo. Il primo ritenendo
che delle grida scomposte e programmi sgangherati possano sostituire un orizzonte
economico-politico su come e dove guidare il paese. In questo senso, come in
altri, Grillo è stata un’occasione mancata, sebbene ancora da non confondere
con l’inaffidabilità politica, morale oltre che intellettuale del Cavaliere, di
cui neppure vale la pena parlare. Ma l’occasione mancata è sopratutto quella
della sinistra. Proprio facendosi forte della minaccia dell’avanzata di messaggi
populisti o comunque semplicistici, essa avrebbe potuto alzare il tono del
dibattito denunciando il sostegno oggettivo che a quei messaggi proviene dalle
sciagurate e antipopolari politiche europee. A partire da questo stato di cose,
naturale sarebbe stato per una sinistra candidata a governare porre le
cancellerie europee di fronte alle proprie responsabilità, ché solo un
mutamento di segno dell’Europa volto a sostenere politiche di ripresa
occupazionale e di rinnovamento poteva dare una spinta vittoriosa alle forze
più democratiche e responsabili. E questo poteva esser fatto mostrandosi agli
elettori come coloro che senza timore e forti delle proprie credenziali possono
andare in Europa a parlar chiaro con la credibilità che i demagoghi non hanno.
Questo non è stato fatto, o se lo si è fatto, lo è stato in misura timida e irrisoria.
E sul piano interno, piuttosto che attaccare Monti sulla sua adeguatezza come
politico ed economista, forti della valanga di studi che mostrano che la sua agenda
è disastrosa, lo si è continuato a corteggiare. Così sono bastati San Remo e la
rinuncia di un Papa a distogliere l’attenzione da uno stucchevole balletto
elettorale fatto, diciamolo, di promesse che nessuno potrà in questo quadro
mantenere.
Abbiamo la speranza che, tuttavia,
il bello debba ancora venire, e che lo vedremo nel dopo-elezioni quando i nodi
sociali che si sono elusi in questa deprimente campagna elettorale verranno
finalmente al pettine. A meno che l’assuefazione al peggio finisca per
prevalere, assecondata purtroppo da una sinistra che mai come ora ci è apparsa
al di sotto delle sfide a cui le sorti del paese la chiamavano.
(il manifesto, 21 2 2013)
Rivoluzione civile in Europa*
Sergio Cesaratto
E’ fondamentale parlare di Europa
poiché se non si cambia qualcosa lì, gli spazi di manovra in Italia sono assai
ristretti. Politicamente ci sembra peraltro nefasto che il tema sia stato
sostanzialmente lasciato nelle mani di Berlusconi e di Grillo, cioè alla
demagogia del chi la spara più grossa con poca credibilità in Europa. Questo non
significa andare in Europa col cappello in mano, come sostanzialmente ha fatto
Monti, o con l’idea di dover fornire chissà quali garanzie come dice il PD, ma
con autorevolezza e ragionevolezza, ma anche pronti ad assumere posizioni dure.
I danni dell’austerità sono sotto
gli occhi di tutti, e non sono tanto o solo il risultato di ignoranza politica,
ma di un disegno volto a smantellare decenni di diritti sociali e sindacali, i
famosi lacci e lacciuli come venivano definiti un tempo. Questo disegno si
fonda sull’idea che la riduzione del salario diretto e indiretto (quello
percepito attraverso lo stato sociale) e la flessibilità nell’uso della forza
lavoro portino al recupero della competitività esterna e alla ripresa di un
sentiero di crescita. Che questo disegno possa avere successo se condotto su
scala continentale è assai dubbio, e anche i partner mondiali hanno reagito
alla deflazione europea scatenando una guerra valutaria rifiutandosi di fare da
traino a un’Europa neo-mercantilista. Per cui il risultato finale sarà la
desertificazione industriale del nostro paese, generazioni di giovani bruciate,
crollo della natalità già ai minimi termini. Un disastro annunciato.
Bene fa il programma di Ingroia a
rifiutare il Fiscal Compact e a chiedere un ruolo attivo della BCE. Bisogna
finirla con l’ossessione del debito pubblico. Esso con bassi tassi di interesse
non è il primo dei problemi. Il re è nudo. Se il mero annuncio da parte di
Draghi che sarebbe potuto eventualmente intervenire a sostegno dei titoli
pubblici italiani e spagnoli ne ha fatto crollare gli spread, ciò ha reso
palese a tutti che sono le banche centrali che fanno i tassi, non i mercati, a
meno che a questi sia fatto fare il bello e il cattivo tempo come da troppo
tempo accade in Europa (ma non nel resto del mondo). Pensiamo se Draghi avesse
minacciato di intervenire sul serio!
Ci dicono: l’Europa e la BCE chiedono ai governi
garanzie sul debito prima di intervenire. Bene, gliele vogliamo dare. Ma l’austerità
come garanzia è chiaramente fallimentare, peggiora il debito. Dobbiamo invece
batterci per una condizionalità espansiva: un impegno a stabilizzare il
rapporto debito/Pil (né diminuirlo, né aumentarlo). Al costo di un gettone,
telefonate all’emerito prof. Ludovico Pasinetti qui Milano. Vi spiegherà che
con tassi sufficientemente bassi la stabilizzazione del rapporto debito/Pil è
compatibile con un po’ di spesa in disavanzo per risollevare la domanda
aggregata, dunque con la fine dell’austerità. Il perché è facile a capirsi:
bassi tassi fan crescere poco il debito pregresso, e se invece di destinare i
risparmi sugli interessi per ridurre il debito (il numeratore), li si destina
al sostegno della domanda, si fa crescere il Pil (il denominatore). Così si
stabilizza il debito e si fa crescita. E’ come il caso di una azienda oberata
dai debiti ma risanabile. Con tassi agevolati, i risparmi in conto interessi
possono essere destinati a restituire il debito. Ma ancor meglio è destinarli a
far ripartire l’impresa.
I paesi in surplus commerciale
dovrebbero, naturalmente, fare di più e assumersi le proprie responsabilità
(“lead or leave”, come ha detto loro il finanziere Soros). Nessun avventurismo
di bilancio, dunque. L’austerità è la causa prima della crisi occupazionale e
dei conti pubblici, oltre all’inazione della BCE, e a ciò va detta la parola
fine. L’austerità è illogica, se non dal punto di vista di una macroscopica
operazione di vendetta sociale. Le voci contro di essa sono oggi un coro, dal
Fondo monetario, all’ex-coordinatore dell’Eurogruppo Junker, al primo ministro
belga Di Rupo e a gran parte della professione economica. Ampi settori
dell’industria italiana sono certamente contrari. Il PD lo si deve tirare per la manica per
fargli dire qualcosa di un po’ coraggioso.
Sono al riguardo contrario alla
proposta Fassina-Bersani di cedere sovranità fiscale all’Europa in cambio di un
po’ meno di austerità. E’ peraltro una proposta avversata dalla Francia. Si
deve proporre invece, in linea con una vecchia proposta francese, il
rafforzamento dell’Eurogruppo (il consiglio dei ministri finanziario dei paesi
aderenti all’euro) che coordini di concerto con la BCE politica fiscale, monetaria
e del cambio. La politica monetaria deve diventare al servizio di quella
fiscale e della piena occupazione, e non solo della stabilità dei prezzi. In un
contesto di crescita è meno oneroso affrontare la crisi bancaria che affligge
alcuni paesi periferici.
In Europa ci si deve andare
tuttavia con una linea del Piave costituita dagli interessi del paese a non
diventare un deserto produttivo. Su questo possono essere costruite alleanze
internazionali dentro e fuori l’Europa, e chiamati i paesi neo-mercantilisti
alle loro responsabilità regionali e globali. Ma alla linea del Piave ci si
deve credere. Dobbiamo intimorire i nostri interlocutori che faremo come Draghi
con l’euro: “whatever it takes”, tutto ciò che serve per salvare l’Italia da un
disastro sociale.
Quindi, fine dell’austerità,
intervento della BCE a garanzia dei debiti sovrani, impegno alla
stabilizzazione debito/Pil, il tutto nell’ambito di politiche fiscali e
monetarie espansive a livello europeo da coordinarsi anche in ambito G20.
Questo ci darebbe anche un po’ di respiro per intraprendere i nostri compiti a
casa volti alla modernizzazione, alla legalità, all’ambiente; salverebbe il
disegno europeo; aiuterebbe l’economia globale.
*Intervento alla conferenza
stampa di Antonio Ingroia, Milano 11 febbraio 2013.
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