giovedì 21 febbraio 2013

L'Europa grande assente



 Pubblichiamo un mio editoriale oggi su il manifesto (pubblicato anche come tale sul sito). Nonostante che le mie critiche non risparmino, come si conviene, nessuno, il mio voto andrà a Rivoluzione civile (con magari Zingaretti alla presidenza della regione Lazio, con Fotia per Rivoluzine civile [voto disgiunto]). Al riguardo, in calce all'articolo su il manifesto pubblico il mio intervento alla conferenza stampa di Ingroia a Milano lo scorso 11 febbraio a cui fui invitato. La presenza di Ferrero, Giacché e Burgio in Parlamento mi sembra un buon motivo per votare questa lista.
PS ai lettori: sono molto in ritardo (di mesi) con la pubblicazione dei commenti. Mi scuso, anche per non rispondere. Non ce la faccio.


L'Europa grande assente

Sergio Cesaratto
C’è un sentire diffuso che la campagna elettorale sia stata deludente e inadeguata al frangente storico che il popolo italiano sta attraversando. Se non cambia qualcosa, gli anni a venire vedranno un drammatico impoverimento di questo paese. Non c’è, infatti, ragione per cui il calo del prodotto nazionale che è in corso non prosegua per molto tempo. Già ora ci vorranno anni per recuperare i livelli di benessere del 2007, e di problemi di giustizia sociale e di modernizzazione il paese ne aveva già allora da vendere. Ora si è andati indietro. Che lo snodo principale fosse quello europeo, gli economisti più avveduti si sono sperticati a dirlo. Ma di Europa in questa campagna si è parlato poco, e quando se ne è parlato lo si è fatto in maniera superficiale, per inadeguatezza politica, e anche per impreparazione intellettuale: di economia si mastica poco, ahimè in particolare da parte dei leader di riferimento della sinistra radicale.
La sinistra ha così lasciato a Grillo o a Berlusconi il monopolio dell’argomento europeo. Il primo ritenendo che delle grida scomposte e programmi sgangherati possano sostituire un orizzonte economico-politico su come e dove guidare il paese. In questo senso, come in altri, Grillo è stata un’occasione mancata, sebbene ancora da non confondere con l’inaffidabilità politica, morale oltre che intellettuale del Cavaliere, di cui neppure vale la pena parlare. Ma l’occasione mancata è sopratutto quella della sinistra. Proprio facendosi forte della minaccia dell’avanzata di messaggi populisti o comunque semplicistici, essa avrebbe potuto alzare il tono del dibattito denunciando il sostegno oggettivo che a quei messaggi proviene dalle sciagurate e antipopolari politiche europee. A partire da questo stato di cose, naturale sarebbe stato per una sinistra candidata a governare porre le cancellerie europee di fronte alle proprie responsabilità, ché solo un mutamento di segno dell’Europa volto a sostenere politiche di ripresa occupazionale e di rinnovamento poteva dare una spinta vittoriosa alle forze più democratiche e responsabili. E questo poteva esser fatto mostrandosi agli elettori come coloro che senza timore e forti delle proprie credenziali possono andare in Europa a parlar chiaro con la credibilità che i demagoghi non hanno. Questo non è stato fatto, o se lo si è fatto, lo è stato in misura timida e irrisoria. E sul piano interno, piuttosto che attaccare Monti sulla sua adeguatezza come politico ed economista, forti della valanga di studi che mostrano che la sua agenda è disastrosa, lo si è continuato a corteggiare. Così sono bastati San Remo e la rinuncia di un Papa a distogliere l’attenzione da uno stucchevole balletto elettorale fatto, diciamolo, di promesse che nessuno potrà in questo quadro mantenere.
Abbiamo la speranza che, tuttavia, il bello debba ancora venire, e che lo vedremo nel dopo-elezioni quando i nodi sociali che si sono elusi in questa deprimente campagna elettorale verranno finalmente al pettine. A meno che l’assuefazione al peggio finisca per prevalere, assecondata purtroppo da una sinistra che mai come ora ci è apparsa al di sotto delle sfide a cui le sorti del paese la chiamavano. 
(il manifesto, 21 2 2013)


Rivoluzione civile in Europa*
Sergio Cesaratto
E’ fondamentale parlare di Europa poiché se non si cambia qualcosa lì, gli spazi di manovra in Italia sono assai ristretti. Politicamente ci sembra peraltro nefasto che il tema sia stato sostanzialmente lasciato nelle mani di Berlusconi e di Grillo, cioè alla demagogia del chi la spara più grossa con poca credibilità in Europa. Questo non significa andare in Europa col cappello in mano, come sostanzialmente ha fatto Monti, o con l’idea di dover fornire chissà quali garanzie come dice il PD, ma con autorevolezza e ragionevolezza, ma anche pronti ad assumere posizioni dure.
I danni dell’austerità sono sotto gli occhi di tutti, e non sono tanto o solo il risultato di ignoranza politica, ma di un disegno volto a smantellare decenni di diritti sociali e sindacali, i famosi lacci e lacciuli come venivano definiti un tempo. Questo disegno si fonda sull’idea che la riduzione del salario diretto e indiretto (quello percepito attraverso lo stato sociale) e la flessibilità nell’uso della forza lavoro portino al recupero della competitività esterna e alla ripresa di un sentiero di crescita. Che questo disegno possa avere successo se condotto su scala continentale è assai dubbio, e anche i partner mondiali hanno reagito alla deflazione europea scatenando una guerra valutaria rifiutandosi di fare da traino a un’Europa neo-mercantilista. Per cui il risultato finale sarà la desertificazione industriale del nostro paese, generazioni di giovani bruciate, crollo della natalità già ai minimi termini. Un disastro annunciato.
Bene fa il programma di Ingroia a rifiutare il Fiscal Compact e a chiedere un ruolo attivo della BCE. Bisogna finirla con l’ossessione del debito pubblico. Esso con bassi tassi di interesse non è il primo dei problemi. Il re è nudo. Se il mero annuncio da parte di Draghi che sarebbe potuto eventualmente intervenire a sostegno dei titoli pubblici italiani e spagnoli ne ha fatto crollare gli spread, ciò ha reso palese a tutti che sono le banche centrali che fanno i tassi, non i mercati, a meno che a questi sia fatto fare il bello e il cattivo tempo come da troppo tempo accade in Europa (ma non nel resto del mondo). Pensiamo se Draghi avesse minacciato di intervenire sul serio!
Ci dicono: l’Europa e la BCE chiedono ai governi garanzie sul debito prima di intervenire. Bene, gliele vogliamo dare. Ma l’austerità come garanzia è chiaramente fallimentare, peggiora il debito. Dobbiamo invece batterci per una condizionalità espansiva: un impegno a stabilizzare il rapporto debito/Pil (né diminuirlo, né aumentarlo). Al costo di un gettone, telefonate all’emerito prof. Ludovico Pasinetti qui Milano. Vi spiegherà che con tassi sufficientemente bassi la stabilizzazione del rapporto debito/Pil è compatibile con un po’ di spesa in disavanzo per risollevare la domanda aggregata, dunque con la fine dell’austerità. Il perché è facile a capirsi: bassi tassi fan crescere poco il debito pregresso, e se invece di destinare i risparmi sugli interessi per ridurre il debito (il numeratore), li si destina al sostegno della domanda, si fa crescere il Pil (il denominatore). Così si stabilizza il debito e si fa crescita. E’ come il caso di una azienda oberata dai debiti ma risanabile. Con tassi agevolati, i risparmi in conto interessi possono essere destinati a restituire il debito. Ma ancor meglio è destinarli a far ripartire l’impresa.
I paesi in surplus commerciale dovrebbero, naturalmente, fare di più e assumersi le proprie responsabilità (“lead or leave”, come ha detto loro il finanziere Soros). Nessun avventurismo di bilancio, dunque. L’austerità è la causa prima della crisi occupazionale e dei conti pubblici, oltre all’inazione della BCE, e a ciò va detta la parola fine. L’austerità è illogica, se non dal punto di vista di una macroscopica operazione di vendetta sociale. Le voci contro di essa sono oggi un coro, dal Fondo monetario, all’ex-coordinatore dell’Eurogruppo Junker, al primo ministro belga Di Rupo e a gran parte della professione economica. Ampi settori dell’industria italiana sono certamente contrari.  Il PD lo si deve tirare per la manica per fargli dire qualcosa di un po’ coraggioso.
Sono al riguardo contrario alla proposta Fassina-Bersani di cedere sovranità fiscale all’Europa in cambio di un po’ meno di austerità. E’ peraltro una proposta avversata dalla Francia. Si deve proporre invece, in linea con una vecchia proposta francese, il rafforzamento dell’Eurogruppo (il consiglio dei ministri finanziario dei paesi aderenti all’euro) che coordini di concerto con la BCE politica fiscale, monetaria e del cambio. La politica monetaria deve diventare al servizio di quella fiscale e della piena occupazione, e non solo della stabilità dei prezzi. In un contesto di crescita è meno oneroso affrontare la crisi bancaria che affligge alcuni paesi periferici.
In Europa ci si deve andare tuttavia con una linea del Piave costituita dagli interessi del paese a non diventare un deserto produttivo. Su questo possono essere costruite alleanze internazionali dentro e fuori l’Europa, e chiamati i paesi neo-mercantilisti alle loro responsabilità regionali e globali. Ma alla linea del Piave ci si deve credere. Dobbiamo intimorire i nostri interlocutori che faremo come Draghi con l’euro: “whatever it takes”, tutto ciò che serve per salvare l’Italia da un disastro sociale.
Quindi, fine dell’austerità, intervento della BCE a garanzia dei debiti sovrani, impegno alla stabilizzazione debito/Pil, il tutto nell’ambito di politiche fiscali e monetarie espansive a livello europeo da coordinarsi anche in ambito G20. Questo ci darebbe anche un po’ di respiro per intraprendere i nostri compiti a casa volti alla modernizzazione, alla legalità, all’ambiente; salverebbe il disegno europeo; aiuterebbe l’economia globale.
*Intervento alla conferenza stampa di Antonio Ingroia, Milano 11 febbraio 2013.
 

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