Mi
occupo solo di uno dei due libri di Bellofiore, La crisi globale, l’altro è più teorico. Devo avanzare una critica
di fondo a Bellofiore: l’eccesso di distinguo dalle altrui posizioni attraverso
sottigliezze che lasciano il lettore smarrito circa l’argomentazione di fondo
[molti l’han notato anche nell’esposizione al dibattito; un esempio è quando
Riccardo ha disquisito circa la data di inizio della crisi … il 2008 non gli andava
bene, le cause sono anteriori, ma questo è ovvio e non aggiunge molto. Il
lettore potrà farsi una propria opinione attraverso la
registrazione di Radio Radicale,
che ringraziamo]. Tutto questo con amicizia, ma anche con franchezza.
Parto
dalle conclusioni. I due volumi convergono nell’idea che una
rottura/fuoriuscita dall’UME è improponibile, tanto sarebbero importanti le
conseguenze. Non è di questa opinione Paul
Krugman: “What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe
is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition
for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be
exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that
this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both
economically and politically. But continuing on the present course, imposing
ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era
unemployment, is what’s truly inconceivable.” Comunque, conclude
Giacché, se continua così sarà l’Euro a rompersi. L’impegno dei paesi emergenti
a sostenere l’intervento del FMI a sostegno dei paesi europei in difficoltà
sembra però indicare che ci saranno degli sforzi ad impedirlo. Una lunga pena
ci attende, più probabilmente. Ma può darsi che il redde rationem arrivi, ma siamo nel regno delle illazioni.
Mi
sembra che anche sul terreno delle diagnosi i due libri non si discostino.
Ambedue mettono alla base della crisi americana l’esplosione del debito privato
le cui cause fanno risalire alla mutata distribuzione del reddito a sfavore del
ceto medio dai tempi di Reagan. Bellofiore mette anche in luce come la memoria
storica dell’elevata disoccupazione abbia indebolito la capacità di reazione
dei lavoratori americani anche in anni in cui ci si è riavvicinati alla piena
occupazione (ma su questo avrà anche inciso la diminuzione dell’occupazione
nelle grandi imprese manifatturiere trasferitisi nei paesi emergenti e
l’immigrazione). Bellofiore sembra però volere distinguersi: “Il sottoconsumo è
la causa ultima delle crisi, ma non ne spiega nessuna …La vera questione al
fondo di questa crisi è che è crollato il consumo ‘autonomo’ a debito del
keynesismo privatizzato [OK]. Futile separare cause finanziarie e cause reali
della crisi, o prendersela con le disuguaglianze. [e poi, di seguito, si parla
d’altro] La crisi è globale: non è possibile, dunque, uscirne con la domanda
estera”(p.50).[La lettura mi lasciò confuso. L’intervento dell’autore al
dibattito mi ha chiarito che egli ritiene che non tanto la crescente
ineguaglianza nella distribuzione del reddito abbia causato la crisi quanto il
crollo dei consumi autonomi, quelli finanziati dal credito; questi non possono
essere sostituiti dalle esportazioni, data la crisi generale, non rimane che la
spesa pubblica. Tutto bene, tranne che da ultimo la necessità di basarsi sulle
componenti autonome della domanda (come i consumi finanziati dal credito al
consumo o le esportazioni) deriva proprio dalla carenza di domanda dovuto alla
ineguale distribuzione del reddito che rimane la contraddizione fondamentale
del capitalismo. La mia impressione è che a forza di cercare dei distinguo ci
si smarrisca].
Nei
riguardi della crisi europea, il volume di Bellofiore non sembra dare molta
enfasi a quella che sta diventando – anche dietro l’influenza di Martin Wolf,
citato invece nel libro di Stefano
Fassina – l’interpretazione dominante della crisi europea come, in fondo,
l’ennesimo caso del “this time is different” di Reinhart e Rogoff (un libro che
ho trovato disordinato analiticamente e nelle ricostruzioni storiche, ma che ha
un titolo azzeccato). Giacché dà invece un certo spazio a questa
interpretazione (pp. 68-9). Bellofiore (p. 65) parla sì di bolle che scoppiano,
ma poi tratta della crisi, in particolare quella italiana, come crisi di
liquidità che a causa del panico, diventa crisi di solvibilità. Non vengono
citati, mi sembra, problemi di squilibri di partite correnti. [Nel dibattito
Riccardo ha citato pag. 22 del suo volume dove tali squilibri sono richiamati
(ma non loro cause) così come il nome di Martin Wolf: un po’ poco per un tema
così decisivo. E’ sembrato poi argomentare che in una unione monetaria non vi
sono problemi di squilibri di partite correnti in quanto il sistema li
rifinanzia automaticamente; è chiaro il riferimento a Target
2. Questo è vero, ma in presenza di perduranti rischi di rottura del
sistema, in un quadro macroeconomico non volto a raddrizzare gli squilibri di
partite correnti e a ridurre drasticamente gli spread sovrani, i tedeschi hanno
tutte le ragioni nel ritenere di poter perdere i loro crediti, pur facendo di tutto
per ché ciò accada, naturalmente”!]
Come scrivevo in un articolo
pubblicato in un quotidiano argentino la scorsa settimana spiegando loro quello
che ben conoscono per esperienza: la liberalizzazione finanziaria e la
fissazione del tasso di cambio hanno
generato enormi flussi finanziari dal "core-Europe” - Germania, Olanda,
Austria e Finlandia - alla ‘periferia’, fondamentalmente Spagna, Grecia e
Irlanda. I flussi di capitale hanno condotto a un boom nel settore delle
costruzioni in Irlanda e Spagna e consentito la prodigalità del governo greco
(amico e cliente della Merkel, come De Cecco ci ha insegnato). Ciò ha portato
ad una crescita effimera in quei paesi, accompagnata da un'inflazione
relativamente elevata e da conseguente perdita di competitività. I conti con
l'estero sono diventati negativi e si è accumulata una quantità enorme di
debito, in particolare con la Germania. Nulla di nuovo sotto il sole: l’articolo
anticipatore sotto questo profilo è di Diaz-Alejandro
(1985) ha il titolo eloquente “Good by financial repression; hallo financial
crash”, si parla lì della crisi finanziaria cilena di fine anni ’70. La
versione europea è stata nello scambio fra “perdita dell’autonomia valutaria e
bassi tassi di interesse” di cui Giacché parla (p. 137), l’idea che i debiti
esteri –specie se corrispondenti a debiti privati - in una unione monetaria non
contassero più (“this time is different”). Per la versione tradizionale della crisi si
leggano, per esempio, Frenkel e Rapetti
(2009).
Simmetricamente, dalla fine degli anni '90, sotto il
governo socialdemocratico del cancelliere Schroeder, la Germania ha adottato
una politica mercantilista di moderazione salariale e fiscale insieme alla
flessibilità del lavoro. Da un lato comprimeva la domanda interna e l'inflazione
e, dall'altro, finanziava la domanda aggregata in periferia. Questo è diventato
lo sbocco del modello di crescita tedesco basato sulle esportazioni.
L'unico problema è che la periferia ha accumulato enormi
quantità di debito estero senza avere la possibilità, eventualmente, di porre
fine allo squilibrio svalutando le monete, come fece l'Argentina nel 2002, o
l'Italia nel 1992, dopo gli squilibri creati dal Sistema monetario europeo
negli anni '80. Sorprendentemente però, per Bellofiore “La crisi europea non è nata all’interno, né si tratta per l’Italia
di una riedizione della crisi del 1992” ,
affermazioni alquanto sorprendenti.
Si deve però prestare attenzione a una opinione assai
diffusa e che Giacché sembra avallare: la politica monetaria della BCE è stata
per molti paesi “eccessivamente espansiva” (p.68) e ciò sarebbe all’origine
della crisi. Così, dopo aver accusato per anni (sbagliando, sia ben chiaro) la
BCE di operare politiche restrittive, ora l’accusiamo del contrario. La
questione non è che la BCE sia stata troppo espansiva, ma che le politiche
fiscali e distributive nei paesi “core” sono state tali per cui la domanda
aggregata è cresciuta assai nella periferia e per nulle nel centro.
Alla fine del 2009, dopo l'esplosione della crisi in
America e la scoperta che il governo greco (buon amico di Angela Merkel) aveva
mentito sui conti, i mercati finanziari hanno cominciato a dubitare della
solvibilità delle economie periferiche. La crisi ha colpito Grecia, Irlanda e
Portogallo nel 2010 e, nel 2011, la terza e la quarta economia più grande
nell'UEM, Spagna e Italia. La conseguenza di entrate fiscali in calo e dei
salvataggi pubblici del settore bancario in paesi come l'Irlanda e la Spagna è
stata che i problemi di debito privato sono diventati una questione di debito
pubblico. Giacché mette in luce questo, però, a mio
avviso, in molte, troppe pagine centrali del suo libro presenta la crescita dei
debito pubblici come la vera mina del sistema. Ora che tale crescita
rappresenti un segnale di malattie gravi, curate dai ricorrenti salassi delle
crisi (come direbbe Marx-Bellofiore) ma ricorrenti, del capitalismo è vero.
Però si deve prestare attenzione a non offrire il fianco agli argomenti a
favore dell’austerity.
Per ciò che
concern l’Italia, il suo debito pubblico italiano era molto più vecchio e
sostenibile, ma per un paese abituato a difendere la competitività della
propria industria manifatturiera attraverso la svalutazione della lira, l'UEM è
stata un chiaro disastro, sicché i mercati hanno cominciato a dubitare anche
della solvibilità italiana. Bello il passo di Baffi che Giacché cita (p.76) a
proposito della scarsa avvedutezza nell’aderire alla moneta unica.
La risposta europea è stata caratterizzata storicamente per
essere sistematicamente "troppo poco, troppo tardi". I fondi di
emergenza europei sono stati concepiti per evitare il default dei governi dei
paesi periferici. Tuttavia essi poggiano su una contraddizione: alcune di
queste risorse provengono dagli stessi paesi che hanno bisogno del
finanziamento, un circolo vizioso. Contro la volontà della Germania, la Banca
centrale europea (BCE) ha attuato un cauto intervento di sostegno al debito
sovrano periferico, appena sufficiente per evitare il collasso dell'UEM e non
per mantenere a livelli sostenibili i tassi di interesse su questi debiti (i
due membri tedeschi del comitato esecutivo della BCE si sono dimessi in segno
di protesta nel 2011).
I tedeschi sono contrari a che la BCE agisca come prestatore di ultima istanza per
i paesi e le banche, ossia la ragione principale per cui le banche centrali
sono stati create. L'idea di una banca centrale che coopera democraticamente
con la politica fiscale è stata una parte della recente riforma della Banca
centrale argentina. Ma i leader tedeschi, il governo democristiano e
l'opposizione socialdemocratica, condividono, consciamente o inconsciamente,
una diagnosi errata della crisi europea. In nome di un inesistente pericolo di
inflazione, rifiutano l'azione della BCE per calmare i mercati, agendo come garante
di ultima istanza dei debiti periferici. Inoltre la Germania ha imposto misure
di austerità fiscale alla periferia sostenendo che dissipatezza fiscale è
responsabile della crisi.
Il risultato è una situazione economica e sociale che va
peggiorando. La Germania spera di sopravvivere, nonostante il calo dei mercati
europei periferici, guardando alle economie emergenti. L'unica azione efficace
è stata presa in dicembre dal capo della BCE Mario Draghi, ancora una volta con
l'opposizione tedesca, che ha prestato alle banche europee un miliardo di euro
per tre anni ad un tasso dell'uno per cento, con l'aspettativa che una parte
venisse utilizzata per contenere i debiti sovrani. Questa operazione è servita
come sollievo a breve termine, ma ora le banche hanno più titoli di debito
pubblico, una situazione che non è rassicurante poiché le cause che hanno
generato la crisi sovrana sono ancora presenti.
I paesi europei sono in uno scenario kafkiano: condannati
se restano, condannati se se ne vanno. Da un lato, il crollo della zona euro
devasterebbe il sistema finanziario globale, dato che molti paesi, compresa
l'Italia, andrebbero in default nello stesso momento. Dall'altro lato la
Germania si oppone alla soluzione più ragionevole: consentire alla BCE di sostenere
titoli di debito europei, stimolare la propria domanda interna, permettendo ai
salari tedeschi e alla spesa fiscale di aumentare e implementare un massiccio
piano Marshall per la periferia europea emettendo eurobond.
Le promesse del governo Monti sono ben descritte in queste
parole (mia traduzione):
“Il governo sostiene che un ulteriore perseguimento della
politica fiscale rafforzerà la fiducia, e conseguentemente il premio per il
rischio cadrebbe tirando giù i tassi di interesse. Come risultato, la spesa
domestica si riprenderebbe spingendo l’economia fuori della recessione. I bassi
tassi e la crescita del PIL ristabilirebbero il pareggio di bilancio, così
chiudendo un circolo virtuoso”.
Sono prese da un saggio di Frenkel et al
(2004) che precisava come questo fosse l’argomento del Presidente argentino de la Rùa
ripreso dal famigerato Presidente Carlos Menem, l'uomo del Fondo. Il risultato di
tali politiche fu una lunga recessione, la peggiore dal primo conflitto
mondiale.
Forse anche da noi quando le cose peggioreranno, anche per
i tedeschi, il fallimento delle misure di austerità porterà a soluzioni più
progressive.
Intanto cosa la sinistra deve fare e proporre? Intervento
BCE, obiettivo stabilizzazione debito pubblico (a cui Bellofiore si dissocia
col solito distinguo), rilancio domanda interna e inflazione in Germania
(richiesti anche da Blanchard,
citato oggi da Eurointelligence). Si possono anche pensare a forme più avanzate
di unione europea: è chiaro che una diversa BCE che funga da vera banca sovrana
per ciascuno stato membro o per un eventuale debito federale (dunque per forme
di Eurobonds che entrambi gli autori auspicano) implica un accentramento
fiscale, che deve però essere all’insegna di politiche di piena occupazione, e di
cospicui trasferimenti dai paesi più ricchi verso la periferi e una forte
regolazione della finanza. Che gli investimenti sostenuti dalla spesa pubblica
non debbano essere solo visti come sostegno della domanda, ma anche come salto
qualitativo nell’efficienza e nella qualità ambientale dell’offerta come
sostenuto da Bellofiore mi trova ovviamente concorde. Così come concordo con
Bellofiore (p. 73 e passim) che non si deve scordare che il capitalismo è una
forma economica contraddittoria, e che dunque anche un progetto più avanzato,
più socialista, vada pensato.
Ho l’impressione che per noi ci sia molto lavoro di ricerca da
fare, per capire l’attuale e per disegnare il futuro. Il sostegno che proviene
dall’università si affievolisce. Sarebbe importante che il sindacato, la CGIL
in primis, si attrezzasse al sostegno della ricerca (seriamente) eterodossa, ma
i circuiti sono ben vigilati dai soliti noti (e come s’è visto i partiti di
soldi ne hanno e non sanno che farci!).
PS alla fine ho riposto a un quesito sull'MMT (la si può ascoltare nella registrazione). E' un po' come Beppe Grillo: tutto sbagliato ciò che dice? certo no, eppure quel modo di fare ci mette in estremo disagio, c'è qualcosa che non va. Questo è la MMT. Dovremo discuterene con più calma, ma questo richiede studio, precisamente qualcosa che va contro la Grillonomics-MMT.
PS alla fine ho riposto a un quesito sull'MMT (la si può ascoltare nella registrazione). E' un po' come Beppe Grillo: tutto sbagliato ciò che dice? certo no, eppure quel modo di fare ci mette in estremo disagio, c'è qualcosa che non va. Questo è la MMT. Dovremo discuterene con più calma, ma questo richiede studio, precisamente qualcosa che va contro la Grillonomics-MMT.
Caro Sergio,
RispondiEliminagrazie per il tuo commento, che ho visto solo oggi. Ho postato una risposta su Economisti di classe, qui:
https://www.facebook.com/pages/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova/148198901904582?sk=notes
Ora vedo se riesco a inserire il contenuto della mia lettera nel commento di seguito.
Ciao,
riccardo